mercoledì 30 novembre 2005

LA RICERCA NON E’ UN LUSSO

Lo scorso 26 ottobre la Camera dei deputati ha approvato la controversa Riforma Moratti sulla ricerca universitaria. E non lo ha fatto certo in un clima di serenità. Non solamente perché durante le operazioni di voto, appena fuori dall’aula di Montecitorio, imperversavano gli scontri tra la polizia e gli studenti – complice il dito medio di qualche parlamentare di maggioranza o le paroline non distensive sussurrate da qualcun altro nelle orecchie delle forze dell’ordine…

Ma anche perché sul ddl in questione era stata posta, in maniera un pò autoritaria, la fiducia, onde evitare qualunque forma di dibattito o di defezione dell’ultima ora. Un ddl approvato quindi “a forza” senza quella ricerca di dialogo e confronto che qualunque riforma che tocchi un problema così delicato dovrebbe per forza di cose avere.

Quello della ricerca è da tempo un nodo spinoso in Italia. Il belpaese investe infatti su questo fronte solo 1% del suo Pil contro una media europea del 1,9% e il 2,7% degli Usa. Nè va meglio per quanto riguarda il numero dei ricercatori: 2,8 su 1000 abitanti in Italia, rispetto al 5,4 dell’Unione Europea e l’ 8,1 degli Usa.

La prossima finanziaria non risolleverà certo questo stato di cose, prevedendo una diminuzione del 20% dei fondi alla ricerca (a fronte invece di un aumento del 2% dei fondi alla scuole private).

Una riforma come quella Moratti, che sbandiera orgogliosamente il suo costo zero, pone fin da principio dei seri dubbi sull’effettiva possibilità di invertire questo stato di cose…

Ma se la legge non pone argini al drenaggio di risorse economiche dal mondo della ricerca, sembra al contrario sollecitare anche quello di risorse umane, disincentivando con la sua incontestabile precarizzazione, ogni prospettiva di carriera universitaria.

Eliminando la figura del ricercatore, la legge prevede, infatti, per il giovane desideroso di proseguire gli studi oltre la laurea specialistica un iter così ripartito:

° 3 anni di dottorato

° 5 anni (rinnovabili una sola volta per un totale di 10 anni) di contratto co-co-co, cioè di collaborazione coordinata continuativa (vale a dire il più tipico dei contratti atipici)

° 3 anni (anche qui rinnovabili una sola volta per un totale di 6 anni) come professore ordinario o associato a tempo determinato, previo superamento di un concorso nazionale di idoneità. (N.b. Dato che la legge prevede un “overbooking” del 20% di idonei sul reale fabbisogno degli atenei, il superamento del concorso non implica ipso facto l’assunzione).

Ma il peggio deve ancora arrivare. Terminati questi 19 anni di “gavetta” l’ormai 40enne ex-ricercatore, vedrà la sua assunzione a tempo indeterminato soggetta alle “esigenze di bilancio” dell’ateneo. Come dire: sei arrivato fin qua, ma nessuno ti assicura che proseguirai.

La domanda sorge spontanea: cosa può spingere un giovane (specie se di condizioni economica non agiata) ad imbarcarsi in una simile trafila per approdare oltretutto a un futuro incerto? La risposta è ovvia e sottende una concezione della ricerca, come lusso, surplus, optional – un articolo apposito della legge dichiara non incompatibile l’incarico di ricercatore con altri impieghi professionali, ventilando (sigh) l’idea della ricerca come “secondo lavoro”…

Fortunatamente, come dimostrano le mobilitazioni di questi giorni, non tutti sono d’accordo.

domenica 20 novembre 2005

NON SI COMBATTE IL TERRORISMO CON IL TERRORE

In Italia è spiacevole usanza far approvare le leggi più spinose e controverse d’estate. Quando l’opposizione sonnecchia e la cosiddetta società civile è al mare.
E’ successo così qualche anno fa’ con la legge sulle rogatorie internazionali, e allo stesso modo è capitato lo scorso luglio per il pacchetto anti-terrorismo di Pisanu. Certo il motivo per approvare le leggi in fretta c’era. L’emozione legata ai sanguinosi attentati di Londra era ancora forte. Ma forse prima di legiferare su una materia così delicata com’è la sicurezza, con tutti i suoi annessi e connessi nell’ambito delle libertà individuali e della privacy bisognerebbe pensarci un po’più a lungo. Perché se il pacchetto Pisanu non è il patriot act italiano, tuttavia i suoi elementi di pericolosità li contiene tutti.

Non potendo in questa sede dare un quadro complessivo di un insieme di leggi così corposo, ci limiteremo solo a ricordare i suoi aspetti più preoccupanti. A cominciare dalla dibattuta norma di “espulsione con provvedimento amministrativo” per i sospettati di terrorismo. Una norma che sembra cancellare con un colpo di spugna ciò che in uno stato di diritto si chiama presunzione d’innocenza. D’ora in avanti, infatti, basterà la sola firma d’un solerte prefetto per rispedire al proprio paese, senza lo straccio d’una prova, un qualsiasi cittadino straniero anche solo vagamente sospettato di simpatie fondamentaliste.
L’autorizzazione a colloqui investigativi senza avvocato e alla perquisizione senza mandato concorrono poi ad imbarbarire ulteriormente lo stato di diritto, eliminando altre delle principali garanzie di cui godono i cittadini di tutti i paesi civili del mondo.
Ma non basta. Ad aggravare la situazione ci pensano la liberalizzazione dell’arresto fuori flagranza, la facilitazioni delle intercettazioni telefoniche e soprattutto il prolungamento del fermo di polizia da 12 a 24 ore. 24 ore in cui il fermato non può comunicare con nessuno nè usufruire di alcuna assistenza legale. E poi l'aggravamento delle pene per la falsificazione dei documenti e per le «false dichiarazioni fatte davanti alla polizia giudiziaria», d’ora in avanti equiparate al falso davanti al giudice, malgrado queste avvengano, come noto, senza testimoni e contraddittorio.
Sul fronte delle violazioni alla privacy si registra invece l’inasprimento delle misure di controllo di telefonate e e-mail.
Per finire, a mo’ di “contentino” alla Lega, ecco anche l’introduzione di ammende fino a 2000 euro e arresto fino a 2 anni per le donne sorprese a indossare burqa o chador nei luoghi pubblici – sfugge il nesso di questa norma con l’allarme terrorismo… E sfugge anche il suo scopo, se non quello di infliggere, a donne spesso umiliate dai loro mariti e costrette controvoglia a velarsi il volto, una seconda, infame, umiliazione pecuniaria e/o carceraria.

Ma forse quello che più indigna, relativamente a questo corpus di provvedimenti iniqui, liberticidi e pericolosi è l’“unanimità” con cui sono stati approvati. Un’unanimità che ha visto votare a loro favore (con la sola eccezione di Verdi, Prc e Comunisti italiani) tutto il centrosinistra. E per comprendere l’irresponsabilità anche di gran parte di quest’ultimo, nei confronti di argomenti così delicati, basti citare le dichiarazioni dell’esponente Ds Gavino Angius il quale si è permesso tranquillamente di chiosare: «Forse qualcuno dimentica che la libertà non è attaccata da questo decreto, ma è minacciata oggi dal terrorismo». Crediamo di aver dimostrato a sufficienza quanto questo punto di vista non sia condivisibile.


(Articolo pubblicato su Work-out European students’ review, n.29 ottobre-novembre 2005)

giovedì 10 novembre 2005

LA TIGRE E LA NEVE

Meriti e limiti del nuovo film di Roberto Benigni

Roberto Benigni è un artista coraggioso. Un artista che non esita spesso a lanciarsi in sfide rischiose e delicate quando ne senta l’esigenza. Anni fa’ riuscì con La vita è bella nell’intento, apparentemente impossibile, di far sorridere e commuovere allo stesso tempo sulla tragedia dell’ Olocausto.

Ne La Tigre e la Neve ha scelto invece di intraprendere la rischiosissima strada di un istant-movie sull’ Iraq. Un istant-movie sui generis, in cui la tragedia irachena è rivissuta all’interno dell’universo poetico dell’autore toscano.

La vicenda è semplice. Attilio (Roberto Benigni) è un poeta che ogni notte sogna Vittoria (Nicoletta Braschi), la donna dei suoi desideri. Quando quest’ultima, recatasi in Iraq insieme al poeta e amico comune Fuad (Jean Reno) per scriverne la biografia, rimarrà ferita ed entrerà in coma, Attilio non esiterà a raggiungerla e a fare di tutto per guarirla.

Di La Tigre e la Neve bisogna innanzitutto lodare la coerenza con la poetica del suo autore. Film dopo film (indipendentemente dalla loro riuscita o meno) Benigni si è creato un universo poetico proprio, preciso e coerente.

Ritornano anche in quest’ultima fatica quindi i suoi grandi temi: la gratuità del gesto (sacrificio) d’amore, l’innocenza e/o ingenuità contrapposta all’orrore, la fantasia come via di fuga dalla crudeltà del mondo.

Però non tutto funziona come voluto. La tragedia irachena rimane troppo sullo sfondo, quasi solo pretesto per il nucleo drammatico della vicenda.

Se nella Vita è bella l’innesto tra il nucleo favolistico della trama e l’orrore della Shoah avveniva senza strappi, a causa delle dimensione mitica che la tragedia ebraica ha assunto ormai nell’inconscio collettivo occidentale –una sorta d’archetipo di ogni tragedia della Storia- qui invece il riferimento ad una realtà di scottante attualità come la vicenda irachena rende tutto più problematico. Il rischio di una trattazione superficiale, o addirittura “indistinta” dell’Iraq (in cui appunto lo sfondo può tranquillamente essere cambiato senza intaccare il meccanismo drammatico del film) non è stato evitato e la scelta dell’Iraq lascia spazio a riserve o dubbi. Era necessario ambientare la vicenda nel paese arabo e darne quest’immagine in parte mistificata?

Perché di perplessità sull’immagine dell’Iraq che il film offre, nello spettatore ne rimangono molte. L’orrore dello bombe è quasi inesistente, il protagonista può attraversare 100 km di deserto con un pullman senza essere fermato da nessuno, Fuad vive in una casa che sembra un patio dell’Alahmbra…Tutte stonature in un film che voglia parlare di argomenti d’attualità, ma scelte ammissibilissime in una favola a-stratta sull’orrore della guerra e sul valore della poesia e dell’amore come antidoto a violenza e brutalità.

E’ in questo contrasto, in questa natura ibrida che risiede a nostro parere la debolezza principale del film. A ciò si aggiunge anche una minore - rispetto al passato- felicità di invenzione a livello drammaturgico in diversi momenti della vicenda. Ad esempio nella prima parte dove i tentativi di conquista di Vittoria da parte di Attilio (e l’annesso gioco di equivoci), sembrano la brutta copia della lunga parte iniziale de La Vita è bella. Della scarsa consistenza di tutta questa prima parte ne deve essere stato conscio peraltro anche lo stesso Benigni, dal momento che nell’intera prima mezz’ora lo vediamo saltare, agitarsi, pronunciare discorsi alambiccati, quasi dovesse riempire con una sua presenza perennemente sopra le righe (a tratti ai limiti dell’autoparodia) un vuoto difficilmente eludibile.

Ed eccessiva ci pare anche l’insistita naivetè del personaggio, sempre fuori dal mondo e preso soltanto dalla sue fantasticherie poetiche. Detto questo, il film ha comunque qua è là delle buone intuizioni e degli sprazzi di autentica poesia (ne è un esempio la bellissima sequenza riguardante il destino di Fuad). Ma rimane comunque non risolto. Rimane un film estremamente sincero e sentito che lascia tuttavia un senso di non compiutezza e disorientamento.

Ricerca Google

Google