domenica 30 dicembre 2007

USQUE TANDEM PERMITTERE, NAPOLITANE, HOC SCELUS?

«Tutti si preoccupano del Kosovo ma non capiscono che la vera bomba a orologeria è la Padania. Le battaglie per liberare il Nord e ridare dignità e diritti al cittadino padano non possono passare dai venditori di padelle o dalle autoreggenti delle rosse di turno. Purtroppo questa battaglia passerà attraverso il rosso del sangue» (Roberto Calderoni, la Padania 29 dicembre).
Dalla “striscia rossa” dell’Unità di oggi.


Non è abbastanza per dichiarare indegno e incompatibile con la vicepresidenza del Senato il rivoltante autore del porcellum, caro presidente della Repubblica?

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venerdì 28 dicembre 2007

AUGURI DI BUON ANNO...TRA POVERTA' E DISGUSTO


Apprendo da un articoletto on-line che sono già esaurite le prenotazioni per il cenone di capodanno più esclusivo d’Italia, quello del ristorante Alla Pergola dell’Hilton di Roma. Costo - decisamente “invitante” - della serata: 1110 euro.

Al di là dell’ovvio e sentito disprezzo per coloro che – potendo - spendono così i propri soldi, mi sorprendo a fare strane associazioni di idee. Mi viene in mente, per esempio, che la stessa cifra equivale allo stipendio annuale di un lavoratore boliviano.

E allora - non so bene neanche io per quale strano motivo - mi viene voglia di rivolgere i miei più sentiti auguri di buon anno agli avventori del sunnominato Pergola dell’Hilton. Il mio augurio (dal profondo del cuore) è quello che possano svegliarsi l’l mattina, dopo le loro squisite degustazioni di San Silvestro, in una delle migliaia di case di adobe (mattoni crudi) di El Alto, con la prospettiva di vivere per un anno intero con i soldi che hanno dilapidato la sera prima. Che possano svegliarsi al freddo, a 4000 metri, senza riscaldamento, con la necessità di lavorare una decina di ore al giorno per 100 dollari scarsi al mese.

E poi magari, se gliene rimane il tempo e la voglia, che posano fermarsi un secondo a riflettere sul legame che intercorre tra le aragoste nei piatti di un lussuoso ristorante di Roma e la catasta di lamiere e il groviglio di fili elettrici che delimita lo skyline El Alto, tra la loro volgarità di insipidi figli del benessere e la dignità del milione di persone che giorno dopo giorno vivono, soffrono e combattono nella capitale più alta del mondo.

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lunedì 24 dicembre 2007

NIGERIA, PFIZER SOTTO ACCUSA PER ESPERIMENTI SUI BAMBINI

Continuano ad essere tutt’altro che idilliaci i rapporti tra le multinazionali occidentali e la Nigeria. Se da anni – dai tempi dell’uccisione di Ken Saro-Wiwa - imprese estrattrici come la Shell o la nostra Eni sono sul banco degli imputati per la loro politica poco trasparente rispetto ai diritti umani e alle questioni ambientali e se è di pochi giorni fa’ la notizia di un’accusa di corruzione miliardaria rivolta alla Siemens, un’altra vicenda dai contorni assolutamente sinistri rischia di passare sotto silenzio sui nostri media, dopo un qualche interesse iniziale. Si tratta del processo intentato da un tribunale dello stato di Kano, nei confronti della Pfizer, grande corporation americana del farmaco, accusata di aver utilizzato circa 200 bambini nigeriani come cavia, per la sperimentazione di propri farmaci.


La vicenda risale al 1996. Allora nel paese centrafricano scoppiò una gigantesca epidemia di meningite (ed in subordine altri gravi focolai di colera e morbillo). La Pfizer si recò volontariamente in Nigeria per assistere i bambini ammalati, nel quadro di un programma di emergenza lanciato dall’Oms. Tuttavia secondo le carte depositate dall’accusa il suo intervento non si limitò alla sola assistenza dei contagiati. La multinazionale avrebbe infatti selezionato 200 bambini e li avrebbe ospitati in apposite strutture alle quali potevano accedere solo i suoi dipendenti. Quindi li avrebbe suddivisi in due gruppi di 99 e 101 unità, somministrando ai primi un alto dosaggio di Trovan ed ai secondi un basso dosaggio di Ceftriaxone, ambedue farmaci allora in sperimentazione. Queste attività “altamente segrete” sarebbero state, secondo l’accusa, il vero movente dell’intervento della Pfizer in Nigeria e sarebbero alla base del decesso di 11 dei 200 bambini e dei danni permanenti (malformazioni, cecità, paralisi) subiti da gran parte degli altri.

Ora il tribunale di Kano chiede alla Pfizer un indennizzo di 2,7 miliardi di dollari, all’interno dei quali rientrano 25 milioni di dollari come rimborso per le spese sostenute dallo stato nigeriano per curare i bambini usati come cavia, 350 milioni di dollari per le spese in aiuto alle vittime e ulteriori 200 milioni per sradicare i pregiudizi che l’episodio ha causato tra la popolazione del paese. Proprio questa vicenda è infatti alla base del fallimento di alcune campagne di vaccinazione contro la poliomielite promosse dall’Oms negli ultimi anni – fenomeno tutt’altro che trascurabile se si considera che la Nigeria è il paese con la percentuale più alta di abitanti affetti da poliomielite di tutto il mondo. Va peraltro ricordato che il Trovan, uno dei due medicinali somministrati è bandito dalla Comunità europea e viene considerato pericoloso addirittura dalla stessa Food and Drug Amministration americana per la sua alta tossicità epatica e, pertanto, non somministrabile ai bambini.

Di fronte a queste pesantissime accuse la strategia di difesa scelta dalla multinazionale appare straordinariamente debole. La corporation continua a sostenere da una parte che i decessi sarebbero stati causati dalla meningite e non dai i farmaci (cosa che tuttavia è stato messa in discussione nel 2001 dal rapporto di un comitato di esperti pubblicato l’anno scorso dal Washington Post ) e dall’altra che comunque il protocollo della sperimentazione era conforme alla legge nigeriana. Come a dire, che se anche la Pfizer fosse responsabile dei crimini imputatigli, comunque non li avrebbe commessi “illegalmente”.
Il succitato rapporto del 2001 usa peraltro parole piuttosto franche e inequivocabili: parla di “sfruttamento dell’ignoranza” delle persone coinvolte e di “test illegale di un farmaco non registrato”, dal momento che il Trovan non era mai stato somministrato in precedenza a persone affette da meningite.

E’ proprio sulla base di questo dossier che alcune famiglie nigeriane presentarono nel 2001 a New York un’azione legale, denunciando il colosso farmaceutico per "trattamento crudele, inumano e degradante". Tuttavia il giudice non diede luogo a procedere sostenendo di non aver giurisdizione sulla materia.
Ora invece a Kano il processo si è finalmente messo in moto, malgrado il boicottaggio aperto della multinazionale, la quale è riuscita a rimandare la prima udienza di alcuni mesi (da luglio a ottobre) per vizi di forma.
Nel frattempo però la stessa Pfizer è finita nel mirino anche dello stesso governo nigeriano. Quest’ultimo lo scorso giugno, ha intentato causa alla multinazionale presso una Corte Federale di Abuja (la capitale del paese), chiedendo una cifra più di due volte superiore a quella richiesta dal tribunale di Kano: 7 miliardi. Le ragioni addotte dal governo sono le stesse così come uguale appare la strategia ostruzionistica della corporation: quest’ultima ha infatti presentato un’ingiunzione presso il tribunale di Lagos (seconda città della Nigeria) che di fatto impedisce alla polizia di portare in tribunali i funzionari della compagnia.
La corte Federale di Abuja ha cosi aggiornato il caso al prossimo 28 gennaio.

E’ difficile prevedere quale sarà l’esito dei due processi ed in particolare di quello intentato dal governo. Un verdetto di condanna della multinazionale potrebbe davvero configurarsi come un precedente storico e di certo la corporation americana farà di tutto per evitarlo. In ogni caso il danno di immagine subito non è certamente sottovalutabile e si auspica che almeno quest’ultimo possa davvero fungere da precedente e rafforzare la vigilanza sull’operato delle multinazionali occidentali nei paesi dell’Africa subsahariana.

Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari

domenica 23 dicembre 2007

ACTEAL, DIECI ANNI DOPO


Dieci anni dopo quel tremendo 23 dicembre 1997, quando ignoti sicari, affiliati probabilmente al gruppo paramilitare "La maschera rossa" entrarono in una chiesa del municipio chapaneco di Acteal sparando all'impazzata e facendo ben 47 morti, nessuna giustizia sembra profilarsi all'orrizonte. E a nulla sembra valere la dignitosissima protesta delle Abuelas di Acteal. Anzi c'è chi, come il vescovo emerito di San Cristobal de las Casas, Samuel Ruiz, crede che eventi simili possano ripetersi.
Da Acteal a Oaxaca passando per la frode di luglio dell'anno scorso, il Messico sembra sprofondare sempre più nel baratro.

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venerdì 14 dicembre 2007

E SE LO SCIOPERO DEGLI AUTOTRASPORTATORI CONTINUASSE TUTTI I GIORNI?

Anche se non ha paralizzato un paese come lo sciopero dei camionisti nel Cile di Allende, lo sciopero (o serrata?) dei giorni scorsi degli autotrasportatori ha causato i suoi buoni disagi. Impossibilità di far rifornimento di benzina, lunghe code, negozi senza merci, prodotti alimentari marciti per i ritardi, ecc…

Tutte cose scomparse nel giro di due giorni ma che hanno procurato i loro danni all’economia nostrana. E i loro fastidi alla popolazione.

Ma…riuscite a immaginare cosa sarebbe successo se fossero durati giorni, settimane, forse mesi? Per giorni le merci che non arrivano al supermercato, per giorni i prodotti alimentari che marciscono per i blocchi, per giorni le code che impediscono le consegne e i trasporti d’urgenza … Riuscite a immaginare, tutto questo? Riuscite a farlo? E se tutto questo da qualche parte esistesse?

Tutto questo da qualche parte esiste, eccome….

Nella striscia di Gaza. Esiste nei blocchi umilianti degli israeliani che impediscono ai palestinesi di raggiungere il lavoro, che non permettono alle merci di raggiungere i mercati, che fanno sì che i prodotti agricoli marciscano bloccati ai valichi dei territori…esiste nei morti che muoiono perchè qualcuno impedisce loro di arrivare in tempo all’ospedale, nel carburante che non arriva alle stazioni di rifornimento, nella pancia della gente che rischia la fame perché non le arriva farina, riso, pane…

E così si va avanti giorno dopo giorno mentre altrove si permette che qualche decina di risoluzioni Onu rimanga carta straccia chiusa in un armadio…

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TUTTO IL MONDO E' PAESE ...NEL PEGGIO

Tutto il mondo è paese…nel peggio.
Mentre oggi in Italia i funerali dei quattro metalmeccanici morti a Torino hanno commosso il paese, il Perù in questi giorni è sconvolto dalla morte di nove operai uccisi dal crollo di un muro di cemento, in un cantiere de La Victoria, uno dei quartieri più degradati del centro di Lima – lì si trova la famosa huerta perdida, divenuto uno dei più grandi centri dello spaccio limeño…
Come chi ha visto la puntata di ieri sera di Anno Zero sa, gli operai della Thyssen Krupp avevano più volti denunciato i rischi che correvano, senza ottenere risposta…ugualmente avevano fatto i muratori del cantiere di Lima, anch’essi senza suscitare più di tanto l’interesse dell’impresa edilizia per cui lavoravano.


Insomma dalle Alpi alle Ande, dal Po al Pacifico le cose non sembrano cambiare un granchè.
Già, ma sfugge qualcosa. L’Italia è una potenza economica mondiale, il Perù un paese in via di sviluppo. Il Perù esce da una dittatura di dieci anni e ha leggi sul lavoro discutibili approvate durante i governi autocratici di Fujimori, l’Italia – nonostante tutto – ha lo Statuto dei lavoratori e una legislazione sindacale avanzata. Il Perù, nella classifica Onu dell’Indice di sviluppo umano occupa l’85esima posizione, l’Italia la 17esima. E potremmo andare avanti a lungo di questo passo con le comparazioni, ma ci fermiamo qui.
Nell’epoca della globalizzazione neoliberale tutto il mondo è paese…ma al ribasso.

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mercoledì 12 dicembre 2007

BOLIVIA: APPROVATA LA NUOVA COSTITUZIONE!

La historia acaba de empezar...

martedì 11 dicembre 2007

PERU', LA FURIA LIBERALIZZATRICE

Continua la furia liberalizzatrice del governo Alan Garcia. L’uomo che più di vent’anni fa nazionalizzava la leche Gloria provocando le ire della Nestle e metteva sotto controllo banche e istituti assicurativi, sembra oggi puntare a rendere il Perù la cattedrale del neoliberismo sudamericano, in tempi in cui tutto il resto del continente va (fortunatamente) da tutt’altra parte.

A sole 48 ore dalla ratifica da parte del Senato americano del trattato di libero commercio con gli Stati Uniti, la camera cilena ha dato luce verde ad un progetto di ampiamento del protocollo ACE n° 38, l’accordo che regola dal 1998 i rapporti commerciali tra il Perù e il paese australe, configurando di fatto un ulteriore trattato di libero commercio. E le manovre in senso liberista non si fermeranno qui, dal momento che il Perù ha in fase di discussione accordi analoghi con Canada e Singapore.
Quali possano essere gli effetti di tali provvedimenti sulla fragile economia peruviana è facile immaginarlo, soprattutto alla luce di un precedente illuminante come quello messicano.

Rimanendo nell’ambito del Tlc con il Cile preme ricordare l’asimmetria tra le economie dei due paesi. Allo stato attuale il Cile investe nel paese andino qualcosa come 166 volte tanto quanto investe il Peru in Cile e, soprattutto, riesporta a prezzo maggiorato circa il 60 % delle merci provenienti del Perù, piazzandole sul mercato cinese.
Secondo Alain Fairlie, analista economico peruviano e professore all’università di Lima, l’anomalo Tlc rischia di creare un sorta di rapporto Nord-Sud tra Perù e Cile, dal momento che il primo esporta nel secondo materie prime e il secondo inonda (e inonderà sempre di più dopo l’ampliamento dell’accordo commerciale) il primo di prodotti finiti.
A quale dei due contraenti possa giovare un tale accordo dovrebbe apparire chiaro a chiunque, tranne a quanto pare, ai ministri del governo Garcìa. La manovra sembra peraltro inserirsi in un preciso progetto “espansivo” da parte del governo cileno, che sta portando in questo periodo alla ratifica di un analogo Tlc con il Guatemala e, più in generale, a un’intensificazione dei rapporti commerciali del paese australe con il Centroamerica.

Ben più ingenti tuttavia rischiano di essere gli effetti negativi per il Perù del Tlc con gli Stati Uniti soprattutto in campo agricolo. I prodotti agricoli peruviani rischiano di perdere qualunque competitività rispetto a quelli Usa, sostenuti da enormi sussidi statali (al contrario di quelli del paese andino) e soprattutto prodotti in maniera industriale su larga scala. Questo, secondo molti analisti, rischia di allargare ulteriormente la già enorme ed evidente polarizzazione nella distribuzione della ricchezza tra aree rurali ed urbane, portando all’esclusione di centinaia di migliaia di cittadini peruviani.

Insomma, a quanto pare, ci sono tutte le buone condizioni perché il “nuovo” Alan Garcia possa riuscire a far fracasar nuovamente l’economia peruviana come già una ventina di anni fa, al tempo del paquetazo.

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domenica 9 dicembre 2007

MESSICO, GIORNALISTI SEMPRE PIU' A RISCHIO

E’ stato ucciso ieri, nella città di Uruapan (stato del Michoacan), con 45 colpi di pistola, Gerardo Garcìa Pimentel un giornalista messicano del quotidiano La Opinion. Le prime indiscrezioni parlano di un omicidio compiuto da narcotrafficanti.

Gerardo Garcia Pimentel è il sesto giornalista ucciso dall’inizio dell’anno nello stato centroamericano.
Anche se probabilmente non verrà uguagliato il record negativo dell’anno scorso – 9 giornalisti uccisi e il secondo posto nella classifica mondiale di questa barbarie – il Messico si avvia a essere per il secondo anno consecutivo il paese latinoamericano più pericoloso per i giornalisti – come già ricordavamo in un articolo di qualche mese fa. Oltre che uno dei paesi meno democratici e più a rischio di autoritarismo dell’intero subcontinente.


Ma tutto questo ovviamente non turba i sonni delle masse di giornalisti liberal della nostra stampa occidentale, costantemente impegnati piuttosto a denunciare i “tremendi” rischi per la democrazia che starebbero maturando nei paesi sudamericani retti da governi “populisti”. Amen.

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IL MINISTRO MELANDRI E LO SPIRITO OLIMPICO


Piccolo siparietto dal domenicale della televisione generalista italiana. Il ministro Giovanna Melandri “agnus in fabula”, intervistato tra campioni, giornalisti sportivi ed immancabili nani e ballerine dice – cito quasi testualmente - : “Le olimpiadi, da sempre, storicamente, sono state un occasione per portare pace e rispetto dei diritti umani”.

Mi piacerebbe sapere cosa ne penserebbero di un affermazione del genere i parenti delle vittime di Tlatelolco… Anche se dubito che la signora Melandri abbia mai sentito parlare di Tlatelolco..


p.s. Prima di intervenire il ministro aveva detto di voler dire una “rapidissima parola” sulla questione. Forse se fosse stata "ancora più rapida" sarebbe stato meglio. Che pena...Mai fare zapping di domenica pomeriggio.

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venerdì 7 dicembre 2007

BOLIVIA, SULLA VIA DEL REFERENDUM

Alla fine è praticamente ufficiale: Evo Morales si sottoporrà, insieme ai prefetti dei sei dipartimenti in lotta contro il suo governo, a un referendum revocatorio simile a quello venezuelano del 2004. Con una fondamentale differenza: se nel 2004 fu infatti l’opposizione a chiedere in Venezuela, secondo il dettato costituzionale, il referendum contro Chàvez, in questo caso è il governo boliviano a premere per la consultazione. Una manovra che qualcuno definisce disperata, nel tentativo di uscire da quella situazione di stallo in cui la Bolivia sembra precipitata da ormai troppo tempo.
I prefetti della media luna, in tournee trionfale negli Stati Uniti con la scusa di lagnarsi un po’ con l’Oea (gli Usa sono luogo deputato per tutti i personaggi sinistri del paese andino, a cominciare dal latitante “genocida” Sanchez de Losada) hanno accolto la notizia con soddisfazione, probabilmente convinti di poter dare la spallata definitiva al presidente indio, dopo il fallimento dei vari progetti secessionisti, del plan para tumbar el indio dei mierda e forse anche di qualche oscuro piano golpista.
Qual che possa essere l’esito della sfida, fortunamente ora aperta, democratica ed elettorale, è utile ripercorrere le fasi con cui si è arrivati a questo aut aut, ultima ratio, a quanto pare, contro la minaccia di una guerra civile strisciante.
In principio era la costituente e la costituente avrebbe dovuto essere l’occasione per una rifondazione completa del paese andino e per una tardiva ma finalmente piena uscita dallo stato neocoloniale.
Le oligarchie cruceñe (ma non solo) non hanno mai accettato la prospettiva della stesura di un nuovo testo costituzionale e hanno ritardato, grazie alle loro rappresentanze politiche in seno alla costituente, i lavori della stessa con una lunga controversia a proposito delle modalità di votazione (due terzi o maggioranza assoluta). Superato questo lungo contenzioso hanno deciso di passare a una strategia che si potrebbe definire “sabotativo-aventiniana”: da una parte hanno volontariamente abbandonato i lavori dell’assemblea in segno di protesta, dall’altra hanno deciso comunque a priori che non avrebbero riconosciuto il testo finale proprio a causa della loro assenza.
Nel mentre hanno assecondato, aiutato e favorito il movimento “campanilista” sureño per la capitalia plena (cioè per riportare la capitale a Sucre) nel tentativo di destabilizzare o bloccare completamente i lavori della costituente. Hanno quindi permesso e agevolato lo svilupparsi di quell’inferno che è stata la città di Sucre negli ultimi mesi, messa a ferro e fuoco da studenti e manifestanti vari (tra cui con buona probabilità anche frange neofasciste cruceñe dell’UJC).
Chi scrive si trovava a Santa Cruz proprio nei giorni in cui a Sucre nasceva e prendeva slancio il movimento per la capitalia plena – che avrebbe portato poi per riflesso all’immensa manifestazione pro – La Paz del 20 luglio, con due milioni di persone in piazza – un quinto del popolo boliviano). Sulla centralissima Piazza 24 Septiembre (a Santa Cruz, non a Sucre!) comparve l’immensa bandiera riportata nella foto qui sotto. Basterebbe questo particolare per far capire quanto il movimento sureño sia stato manipolato e veicolato in una funzione anti-governativa, nel tentativo di far saltare il tavolo e bloccare sine die la costituente.
Dapprima i lavori dell’assemblea sono stati bloccati dalla presidentessa Silvia Lazarte per un mese per l’evidente clima ostile, quindi a fronte di proteste sempre più violente e cruente spostati in una caserma di Sucre – altro pretesto per l’opposizione per gridare vanamente all’illegittimità. Infine, mentre il testo veniva firmato, le vie della ciudad blanca si coloravano di rosso per gli scontri tra polizia e manifestanti lasciando sul terreno diverse vittime e tanti dubbi sulla paternità degli omicidi– a quanto pare perlomeno in un caso le pallottole con cui è stato ucciso un manifestante non sarebbero del calibro in dotazione alle forze dell’ordine.
Malgrado una città sotto assedio, i costituenti costretti a fuggire nella notte scortati all’aeroporto dall’esercito, un membro di Podemos fermato con una mitragliatrice in macchina, un carcere assaltato, e una situazione ingovernabile, Evo ha deciso di andare avanti per giungere ad una approvazione del testo costituzionale entro i tempi stabiliti.
I prefetti di sei stati hanno indetto uno sciopero generale – with a little help dei bastonatori dell’UJC che hanno costretto con la violenza in molti casi i cittadini ad aderire – per sabotare l’approvazione della costituzione, adducendo come al solito la questione dell’illegittimità della “costituzione macchiata di sangue” e le rivendicazioni autonomistiche che – oramai lo capiscono anche i bambini – nascondono interessi e latifondi immensi cumulati in decenni di parassitismo all’ombra dei governi Washington consensus. Uno sciopero che ricorda quindi molto quello venezuelano della primavera 2003 e che più “bianco” non si può. In ogni caso attorno ad esso sono riusciti a convogliare un certo consenso risvegliando anche le rivalità etniche e campanilistiche che, purtroppo, ancora dividono lo stato andino.
Di qui la fuga in avanti, pienamente democratica però, di Evo Morales di sottoporre il proprio e i mandati dei prefetti allo strumento elettorale. La battaglia ora è tutta aperta – e, pensando retrospettivamente viene da chiedersi per esempio perché un simile strumento non sia stato adottato anche per risolvere la questione di Cochabamba dello scorso gennaio, culminata in scontri in cui hanno perso la vita ben tre persone.
Quello che tuttavia non può che risultare ridicolo è vedere un’opposizione vassalla del grande fratello a stelle e strisce, stringersi alla corte del monarca in disarmo, a lamentare, a fronte del proprio costante e spesso violento tentativo di destabilizzazione filo-separatista, il carattere dittatoriale (!) di un presidente che decide addirittura di sottomettere il proprio mandato a consultazione elettorale.
Sin vergüenza, como siempre
.

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lunedì 26 novembre 2007

PERU', SEMPRE PIU A STELLE A STRISCIE

Anche se l’informazione italiana non se n’è accorta, distratta com’è sulle notizie che vengono dall’area andina, lo scorso 8 novembre la Camera statunitense ha approvato il Trattato di Libero commercio con il Perù. Ora il provvedimento dovrà passare in Senato (si presume tra il 4 e 6 dicembre) per la (scontata) approvazione definitiva. In Perù invece l’accordo era già stato ratificato un anno fa’. Ovviamente con i voti determinanti dell’Aprà di Alan Garcia, malgrado quest’ultimo, in campagna elettorale, avesse parlato di rinegoziazione e revisione.

Il Perù si appresta così a percorrere una strada che già altri paesi sudamericani hanno percorso nel passato prossimo del subcontinente e con risultati tutt’altro che lusinghieri: si veda su tutti il caso del Messico e del Nafta.
I ministri del gabinetto Garcia si affannano in questi giorni a dire che la misura rappresenta una grande opportunità per il paese e che non produrrà contraccolpi neppure nel settore più a rischio: l’agricoltura. Rassicurazioni che non sembrano sortire grande effetto dal momento che in Perù si ripetono continui scioperi e manifestazioni contro la politica economica del governo.
Regresa Alan y lleva las huelgas mi aveva detto un amico lo scorso agosto a Lima, dandomi la chiara percezione di come nel giro di un anno il nuovo (e vecchio) presidente fosse riuscito a perdere ogni possibile consenso acquistato durante la sfida contro Humala.
E infatti l’indomani del voto alla camera Usa, Plaza San Martin si è riempita nuovamente di manifestanti: 25 000 persone. Non tantissimi in verità, ma neanche pochi tenendo conto che la risposta da parte delle forze dell’ordine e dell’establishment agli scioperi degli ultimi mesi è stata tutt’altro che tenera.
Se da un parte Garcia ripete da mesi alla televisione – con toni che ricordano qualche personaggio delle nostre latitudini - che dirigenti sindacali “comunisti e sovversivi” tramano contro il suo governo, dall’altra le forze dell’ordine hanno lasciato sul terreno già una decina di morti da quando il presidente si è reinsediato. Effetto di una legislazione su scioperi è questioni sindacali che non solo non è mai cambiata dai tempi di Fujimori, ma che è addirittura stata inasprita, la scorsa estate, da una serie di decreti liberticidi, tra i quali spicca quello che depenalizza gli assassini compiuti dalle forze dell’ordine in caso di scioperi e manifestazioni

Quello che è certo è che l’approvazione del Tlc rischia di logorare i rapporti del paese con gli stati confinanti, soprattutto all’interno della Comunità Andina, dove fortunatamente si respira un’aria differente. In particolare il Tlc rischia di rovinare le già fragili relazioni del Perù con Bolivia ed Ecuador fautori di un progetto d’integrazione regionale che esclude i “legami carnali” con Washington del passato.
Proprio le relazioni con la vicina Bolivia sono un chiaro esempio della politica ondivaga di Alan Garcia. Quest’ultimo appena insediatosi l’anno scorso – non molti mesi dopo l’elezione di Morales – dichiarò che in Sudamerica “ cresce un nuovo fondamentalismo, un fondamentalismo andino, che muove grandi moltitudini etniche e in molti casi vincolate alla coltivazione della coca. Questo fondamentalismo […] può avere conseguenze tanto importanti come quello musulmano, può significare un pericolo d’instabilità in Sudamerica”. Che si riferisse al suo collega boliviano non è un mistero per nessuno e tuttavia Garcia ha ricevuto lo stesso Morales in pompa magna quest’agosto a Lima (con tanto di consegna cerimoniale della chiavi della città) indicandolo come alleato e partner privilegiato. Giochi delle parti a cui chi, vuole mantenere un paese nell’orbita di Washington, nel periodo di massima crisi storica del “Washington consensus” , si trova irrimediabilmente costretto.

Non è tuttavia solo la ratifica del Tlc a segnare un’intensificazione dei rapporti (di sudditanza) del Perù con gli Stati Uniti. Lo scorso ottobre infatti il Congresso peruviano ha autorizzato l’ingresso di militari statunitensi nel paese. Ufficialmente per esercitazioni congiunte contro il narcotraffico – giustificazione questa ormai un po’ logora, a dir la verità – ma con buona probabilità con tutt’altro tipo di intenti.
Tra meno di due anni gli Stati Uniti infatti dovranno abbandonare la base di Manta in Ecuador, dal momento che il governo di Correa ha deciso di non rinnovarne la concessione.
E’ quindi più che probabile che gli Stati Uniti siano decisi a spostare i loro uomini in Perù. Eventualità che avrebbe due indubbi vantaggi: consentirebbe di spingere più a fondo la penetrazione Usa nel Cono Sud e, considerato che gli Stati Uniti hanno un'altra base in Paraguay lungo la triplice frontiera, permetterebbe di stringere come in una tenaglia la Bolivia di Morales, (nella quale a quanto pare, i piani di destabilizzazione perpetrati dalle oligarchie cruceñe con l’avallo dell’ambasciatore Goldberg non stanno dando, per ora, i risultati sperati).
Il Perù in questo scenario si avvia a divenire una delle pedine più importanti di Washington nello scacchiere sudamericano, a fianco alla sempre alleata Colombia (anch’essa provvista di Tlc di rito) e al Paraguay ancora “colorado”, in cui tutti tramano perché Lugo non vinca le prossime elezioni.

Un’ultima inquietante sintonia unisce poi di questi tempi il Perù agli Usa. Nella votazione Onu a favore della moratoria contro la pena di morte, il paese andino è stato praticamente l’unico paese latinoamericano di un qualche peso (a parte – dispiace dirlo – Cuba) a non votare la mozione italiana. Anzi con particolare viltà la delegazione peruviana si è assentata dall’aula al momento della votazione.
Anche qui la ragione è semplice: Garcia insiste da mesi nella sua proposta di reintrodurre la pena di morte per i reati sessuali e quelli di terrorismo – malgrado Sendero sia morto e sepolto. Una manovra populista che serve probabilmente da “arma di distrazione di massa” per stornare l’attenzione da altre questioni, ma che nondimeno rilancia la questione dei diritti umani in Perù.
Se il ritorno di Fujimori lascia ben sperare in un passo avanti sulla via della giustizia rispetto agli anni della guerra civile – salvo manovre e ricatti del gruppo fujimorista in Parlamento, fedele alleato fin qui di Alan Garcia - dall’altra nessun tipo di verità sembra all’ordine del giorno rispetto ai massacri compiti negli anni del primo mandato dell’attuale presidente. Nessuna giustizia sembra in arrivo per i morti nelle carceri di Lurichango, El Fronton, Santa Barbara e per tutte le vittime del quinquennio 1985-1990

Insomma mentre il resto del subcontinente va, pur con ogni sorta di problema, verso tempi migliori e meno bui, il Perù non sembra riuscire a staccarsi dal proprio passato e dalla propria dipendenza atavica da Washington. E forse alla luce di questa considerazione si spiega anche il crescente autoritarismo di Alan Garcia, volto a creare quella pace sociale necessaria a spianare la strada al Tlc e ad attrarre le multinazionali americane, come da manuale di economia neoliberale.

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domenica 25 novembre 2007

BOLIVIA, IL DIRITTO DI GUARIRE

Dedico qui un po' di spazio per pubblicizzare un'iniziativa che si svolgerà sabato prossimo in una biblioteca di Nord Milano alla quale parteciperò anch'io.



Biblioteca Rionale Dergano- Bovisa

Progetto Alessandro Garbo – Associazione “Progetto continenti”

Centro Culturale Multietnico La Tenda

Associazione Luca Rossi

promuovono l’incontro

BOLIVIA, IL DIRITTO DI GUARIRE


Sabato 1 dicembre 2007

Ore 16.30

Biblioteca Rionale Dergano-Bovisa,

via Baldinucci 76 – Milano

Filovia 92, tram 3, autobus 82, FNM Bovisa


Il diritto alla salute non è ugualmente garantito in tutti i paesi della terra. Immense zone dell’Africa sono prive di assistenza sanitaria gratuita, di accesso ai farmaci e alle cure. Lo stesso avviene in Asia ed in molti paesi dell’America Latina. Tra questi ultimi la Bolivia rappresenta uno dei casi più gravi in assoluto.

Paese più povero del Sudamerica secondo le classifiche dell’Onu, la Bolivia presenta ancora grandissimi problemi nell’accesso alle cure sanitarie. Un campo particolarmente spinoso è quello delle malattie oncologiche. Al pari di altri paesi dell’area, la Bolivia non è in grado di erogare cure chemioterapiche gratuitamente. Il che spinge ogni anno intere famiglie a indebitarsi fino a ridursi sul lastrico.

Per questa ragione è sorto nel 2000 il Progetto Alessandro Garbo. Il progetto è stato fortemente voluto dai genitori di Alessandro Garbo, un ragazzo deceduto a Monza per una malattia oncologica. L’obbiettivo del progetto è quello di dare, tramite il sostegno a distanza, un’opportunità di guarigione altrimenti impossibile ai bambini ammalati di cancro e leucemia nel paese sudamericano.

Il progetto è attivo a Santa Cruz, seconda città della Bolivia e nasce dalla cooperazione tra l’ospedale San Gerardo di Monza e l’Instituto Oncologico del Oriente Boliviano, uno dei più importanti ospedali cittadini.

Chiunque creda che il diritto alla salute debba essere garantito egualmente in tutto il mondo e che tutti debbano poter avere un’opportunità per guarire da malattie gravi e difficili come i tumori, può venire a conoscere da vicino l’impegno del Progetto Alessandro Garbo, sabato 1 dicembre alle 16.30, presso la Biblioteca Rionale Dergano-Bovisa.

mercoledì 21 novembre 2007

RAI-MEDIASET: NUOVO MINCULPOP?

La notizia rimbalza da tutto il giorno sulla rete ed è finita pure nei telegiornali, seppure riportata con basso profilo, come chi sa che deve fare una cosa che non gli fa onore e preferisce liquidarla in tutta fretta.
Secondo quanto emerso dalle intercettazioni sul fallimento della Hdc, l’azienda dell’ex-sondaggista di Berlusconi Luigi Crespi, Rai e Mediaset nel bienno 2004-2005 facevano “gioco di squadra” e concordavano quali notizie mandare in onda e come indorarle ed ammorbidirle, per non far dispiacere all’ex-premier.
Ai molti esponenti dell’ex-opposizione – a quanto risulta dalle prima dichiarazioni lasciate in giornata - tutto questo è sembrato una patente violazione delle leggi anti-trust e della concorrenza. A chi scrive pare piuttosto la versione postmoderna del Min cul Pop, con veline a reti unificate e giornalisti addomesticati per non turbare i sonni del grande capo.
L’Italia non ha davvero più niente da invidiare neanche al Messico del duopolio Tv Azteca/Televisa.

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lunedì 19 novembre 2007

CASO BREGANTINI - SE LA 'NDRANGHETA E' PIU' FORTE DELLA CHIESA

Promoveatur ut amoveatur. Promuovere per rimuovere ed allontanare. E’ questa la formula che la Chiesa utilizza (non solo la Chiesa certo, ma troppo spesso la Chiesa) per “liberarsi” di alcune sue voci molto illuminate se diventano troppo scomode. Una strategia che la Chiesa ha applicato innumerevoli volte, dall’Italia al Sudamerica, alternandola con l’altro espediente di successo di accettare le formali dimissioni di vescovi e prelati per “sopraggiunti limiti di età”, per congedarli anticipatamente dal loro incarico (si vedano al proposito i casi di Bettazzi o Camara).

Alla luce di questa consuetudine è oggettivamente difficile considerare in una prospettiva diversa da quella della rimozione, l’insperata “promozione” del vescovo di Locri Giancarlo Bregantini alla carica di arcivescovo metropolita di Campobasso (che tra l’altro è dubbia anche come promozione, dato che l’arcidiocesi di Campobasso, per quanto più prestigiosa, ha un bacino di fedeli più piccolo di quella di Locri).
Ma quandanche si volesse trovare una spiegazione differente dall’”amoveatur” – per esempio un desiderio di protezione nei confronti di un personaggio nel mirino delle organizzazioni malavitose – non si può non porsi il problema dei valori simbolici che una tale decisione reca con sè. Non si può cioè non farsi prendere dal sospetto di un cedimento alla logica ricattatoria della mafia, al gioco al rialzo proprio delle cosche.

Trentino d’origine, Giancarlo Bregantini era stato nominato vescovo di Locri nel 1994. E sin da subito aveva dimostrato di che pasta fosse fatto. Malgrado le intimidazioni, per prima cosa aveva fatto distribuire in tutte le parrocchie della diocesi una lista con i nomi dei 263 morti degli ultimi dieci anni. Quindi un libro di preghiere in sfida alla mafia. Ed aveva cominciato, senza mai tirarsi indietro, a tuonare contro gli orrori della ‘ndrangheta e soprattutto - cosa non da poco in certi contesti – a chiamarla con il suo nome. Era arrivato addirittura a chiedere la scomunica per i malavitosi – ma la Chiesa aveva nicchiato, più propensa a utilizzare quest’ultima ratio solo per quelle questioni (bio)etiche che ha scelto come campo privilegiato, quando non unico, del suo intervento nella vita pubblica.
Non lo aveva spaventato neppure l’escalation degli ultimi tempi, l’omicidio Fortugno e il clima di patente impunità e di trasversale collusione. Forse sull’esempio di Libera di Don Ciotti, Bregantini aveva fondato la Cooperativa Valle del Buon Amico con l’intento di riutilizzare le terre confiscate alla criminalità organizzata per sviluppare progetti agricoli “virtuosi,” sottratti al controllo delle organizzazioni della ‘ndrangheta . In breve tempo la Cooperativa Valle del Buon amico era diventata la realtà agricola più importante dell’intera Calabria. Ed era stata fatta prevedibilmente oggetto di intimidazioni ed attacchi di stampo mafioso.
Ma anche in quel caso il coraggioso vescovo di origine trentina non si era tirato indietro ed anzi aveva rincarato la dose contro la criminalità organizzata della regione del Sud italia.
Le associazioni contro la mafia, prima fra tutte “Ammazzateci tutti”, l’associazione che fa a capo ai ragazzi di Locri, l’avevano scelto come guida spirituale e voce autorevole nella lotta alla malavita.
Rumores di un suo trasferimento si erano già avuti in passato, ma erano sembrati privi di fondamento. Fino a che, fulmine a ciel sereno, non è arrivata la notizia del “prestigioso” trasferimento.

L’ovvia domanda che viene ora da porsi è a chi giovi una tale manovra, invisa persino al beneficiario stesso della presunta promozione, che ha anzi affermato di lasciare Locri con dolore.
Soprattutto viene da chiedersi quale sia il segnale che una tale decisione possa lanciare in una terra straziata dal cancro di una malavita annidata in tutti i gangli della vita pubblica. Una terra che vive una crisi politica quasi irreversibile, dominata da trasformismo e da clientelarismo diffusi e che ha più o meno tacitamente e consapevolmente fatto propria la prospettiva “lunardiana” del convivere con la mafia.
In mezzo a tutto questo, la voce di Bregantini era una voce forte che non si accontentava dei borbottii e delle condanne di circostanza dei più. Forse era l’unica voce autorevole nella chiesa che avesse fatto davvero proprio il duro monito lanciato a Palermo contro i mafiosi da Giovanni Paolo II, quasi quindici anni fa, al grido “Convertitevi”. La Chiesa che tutto fagocita e tutto rende inoffensivo, come ai tempi di S.Francesco ed Innocenzo III, sembra già aver vanificato dietro al clamore di tanti “santo subito” anche quella presa di posizione, che tra tante iniziative discutibili del defunto pontefice, era stata invece più che meritoria.

C’è poi un’ulteriore possibile chiave di lettura della vicenda, che viene azzardata in questi giorni dalla prestigiosa agenzia di stampa cattolica “Adista” e che può servire a integrare quella di un semplice cedimento alle minacce della mafia. All’interno di una chiesa sempre più “normalizzata” dall’intervento di Ruini & soci, la voce di Brigantini appariva come una voce difforme e progressista. Pur senza mai esasperare i toni, l’ormai ex-vescovo della Locride si era aperto al dialogo con le realtà critiche nei confronti della Chiesa, aveva preso posizioni esplicite contro la guerra in Iraq ed aveva addirittura firmato, anni fa’, un documento di Pax Christi che chiedeva la smilitarizzazione dei cappellani militari – un po’ come sosteneva Don Lorenzo Milani ormai quarant’anni fa. Inoltre Bregantini aveva più volte affermato che la Chiesa doveva mettere la questione della legalità e dei problemi del Mezzogiorno al centro della propria agenda. Come dire che probabilmente la situazione era da tempo tesa e che forse sola ora si è deciso per un provvedimento che, sotto le vesti di una lusinga, serve a neutralizzare e a circoscrivere l’operato di un personaggio scomodo.

Un piccolo appunto per chiudere: qualche tempo fa era giunta nella Locride una piccola suora, ai più sconosciuta, per collaborare con i progetti di Monsignor Bregantini. Si chiama Carolina Iavazzo ed era stata a lungo il più importante sostegno dell’attività pastorale di Don Pino Puglisi al Brancaccio. Poi consumatasi la tragedia che tutti conosciamo, era rimasta sola e soltanto tempo dopo era riuscita a farsi trasferire nella Locride presso Bregantini e a riannodare, in un altro contesto, i fili di un lavoro interrotto bruscamente da alcune pallottole in una calda giornata di settembre del 1993. Ora, purtroppo, Carolina sarà di nuovo sola e lei - come molti altri in quelle terre - dovranno ricominciare un’altra volta tutto da capo.

Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari.

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sabato 17 novembre 2007

GENOVA, SEI ANNI E MEZZO DOPO



...qué espanto produce el rostro del fascismo
llevan a cabo sus planes con precisión certera
sin importarles nada.
La sangre para ellos son medallas,
la matanza es un acto de heroísmo....

Victor Jara 1973

venerdì 16 novembre 2007

"LIEVISSIME" PERPLESSITA' E DISTINGUO SULL'OPPORTUNITA' DI INDICARE GLI STATI UNITI D'AMERICA COME MODELLO PER IL BELPAESE

Ieri sera ad “Anno Zero” lo ha ripetuto anche Travaglio (che è un giornalista che stimo per il suo impegno e il suo concetto etico del giornalismo) : certe cose negli Stati Uniti non sono possibili. Gli Stati Uniti sono un paese serio: niente conflitti di interesse, niente intreccio tra politica ed affari, niente “anomalia italiana”. Insomma un modello.
Già proprio un modello.
Leggete questa notizia. L’ispettore generale del dipartimento di stato incaricato di investigare sulla Blackwater, la banda Muti dei nostri tempi, non investigava nulla perché suo fratello era nientemeno che un collaboratore della stessa Blackwater.

Un caso isolato vero? Già.
Probabilmente isolato come quello delle Halliburton di Dick Cheney, guardacaso azienda leader nel boom della ricostruzione in Iraq. O come quello dell’azienda di Rumsfeld che produsse millioni di vaccini contro l’aviaria per combattere un’epidemia che – stranamente – si scoprì poi essere sovradimensionata. Per non parlare dei legami a doppia filo della dinastia Bush con le lobby dei petrolieri e dei produttori di armi negli Usa: tutte casualità vero?
Oppure vogliamo ricordare l’ex ministro alla giustizia Alberto Gonzales? Quello che “si sceglieva” i procuratori? Al confronto Mastella è un dilettante...
Tutti casi isolati, variabili impazzite nella grande culla della democrazia, vero?

Di fronte a tutto questo posso indicare agli opinion-makers italiani (anche di sinistra), come Nanni Moretti in “Aprile”, altri modelli da seguire, che non siano né la Cina di Mao né l’America di Bush?


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giovedì 15 novembre 2007

I VENTI AGENTI DELLA CIA A MILANO E LE FECI DI PERUGIA

Nel sempre delizioso ed approfonditissimo Tg2 delle 13, ci hanno comunicato oggi gli ultimi attesissimi dettagli del caso della ragazza inglese uccisa a Perugia. Siamo così venuti a sapere che potrebbe essere decisivo, secondo gli inquirenti, l’esame delle feci trovate nella toilette dell’ennesima, vespiana, casa degli orrori. Era un dettaglio che ovviamente non potevano tralasciare di dirci. A pranzo, oltrettutto.

Un tempo, all’epoca felice di “Un giorno in Pretura”, in tv andavano in onda i processi. Oggi vanno in onda addirittura le indagini – con tanto di false piste e giudizi sommari.
Ma mica tutte le indagini, ovviamente. Solo i casi che abbiano qualcosa di oscuro, perverso, indecente e scabroso perché - ci continuano a dire - al pubblico interessa solo quello
Così, per esempio, il fatto che altre indagini abbiano scoperto (in maniera peraltro inconfutabile) che, a qualche centinaio di metri da dove ora sto scrivendo, in una fresca mattina di febbraio di quattro anni fa, si aggirassero una ventina di agenti Cia per sequestrare un certo Abu Omar, nessun telegiornale ce lo ha mai raccontato nei dettagli. Perché quelle sono indagini scomode, che tirano fuori domande spinose come quelle che riguardano la sovranità dello stato italiano e della sua giustizia o la ridefinizione dei sui rapporti con il grande alleato a stelle a striscie… roba seria insomma che è meglio tacere e lasciar stare (e magari vietar per legge, previo ceppalonico decreto) per poter così tornare ad occuparsi di impronte sugli spazzolini da denti, macchie di sangue sul parquet e analisi del Ris di Parma. O anche, all’uopo, delle feci trovate in un bagno di Perugina.

Riuscite voi ad immaginare una definizione più calzante ed esatta per un giornalismo che ruota intorno a delle feci in un water di Perugia, di quella di “giornalismo di merda”?

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venerdì 2 novembre 2007

LUTTO, SENZA RAZZISMO

La vicenda della morte di Giovanna Reggiani, aggredita selvaggiamente qualche giorno fa’ da un delinquente romeno a Roma (nella foto) è un fatto gravissimo e inaudito. Ai genitori e ai parenti di Giovanna va rinnovata tutta la nostra solidarietà e vicinanza più sincera ed incondizionata per il dolore tremendo ed insensato al quale sono stati sottoposti.

Nessuna vicinanza e nessuna solidarietà merita invece chi si è gettato ancora una volta a capofitto su questa dolorosissima vicenda per rinfocolare campagne d’odio nei confronti di uno specifico gruppo etnico presente in Italia. In queste ore, drammatiche per una famiglia rimasta tragicamente priva di uno dei suoi cari, si sono sentite e lette su tv e giornali troppe insopportabili “lombrosaggini” che dovrebbero essere bandite da qualunque paese che voglia considerarsi democratico e anti-razzista.


A tutti coloro che più o meno strumentalmente ed in cattiva fede hanno dato credito a questo genere di considerazioni, propongo la lettura di queso bell’articolo dell’amico rumeno Mihai Mircea Butcovan, scritto in tempi non sospetti (lo scorso luglio) per la rivista Internazionale.

P.s. Consiglio anche la lettura di questa stupenda lettera rivolta da Gennaro Carotenuto ai famigliari di Giovanna Reggiani, protagonisti di un “lutto esemplare”.

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martedì 30 ottobre 2007

ARGENTINA, LA VITTORIA DI CRISTINA FERNANDEZ IN KIRCHNER

E’andato tutto come previsto alla fine in Argentina. Cristina Fernández in Kirchner, primera dama (cioè first lady) del presidente uscente Nestor Kirchner si è imposta con il 43% dei consensi nelle elezioni presidenziali, evitando quindi, secondo quanto dispone la legge argentina, perfino il ballottaggio – il premio di maggioranza consente a qualunque candidato superi il 40% con almeno il 10% di vantaggio sul secondo di entrare direttamente alla Casa Rosada.


Nessuna sorpresa quindi, a parte quella di non vedere per la prima volta sulla scheda le sigle storiche che da più di mezzo secolo si rimpallano il potere nelle paese australe: il PJ (il Partido Justicialista, il partito che raccoglie l’eredità peronista) e l’UCR (Unión Civica Radical, il Partito che da sempre si configura come alternativa moderata agli eredi del colonnello Peron). Sorpresa per la verità solo “nominale”, dal momento che la contesa si è comunque giocata tutto sommato su un classico schema peronismo vs anti-peronismo – anche se quello dei Kircner è pur sempre un peronismo fondamentalmente di (centro)sinistra. Ne si è avuto il tanto temuto effetto Macri, vale a dire l’influenza sulla consultazione del neo-governatore dello stato di Buenos Aires (leggasi il Berlusconi argentino) grande cliente una quindicina d’anni fa del governo ultraliberista di Carlos Menem ed alfiere di una nuova destra affarista, populista e spaccona – al nostro Silvio lo accomuna anche la proprietà di un club calcistico, nientemeno che il Boca Juniors, la squadra in cui esordì Diego Armando Maratona.

Può essere tuttavia utile a comprendere l’entità del successo della presidenta riepilogare le forze in campo nella contesa elettorale. Cristina Fernández e il suo Frente para la victoria hanno sconfitto in prima istanza Elisa Carriò, candidata della Coalición Civica, principale erede del UCR e paladina dell’opposizione “cristiano-sociale”, attestasi su un magro 22%. Al terzo posto (19%) Roberto Lavagna, ex-ministro dell’economia del governo Kirchner passato nelle file dell’opposizione “radicale” e sostenuto da personaggi sinistri della “prima repubblica argentina” come Raul Alfonsín e Eduardo Duhalde. In ordine sparso gli altri candidati: Alberto J. Rodriguez Saa (capofila del “peronismo dissidente”) al 7%, il regista Fernando Solanas (maestro del cinema sudamericano e portavoce di una sinistra più radicale e filo-chavista) al 1,6 e López Murphy (già ministro dell’economia nei gabinetti Menem e sostenitore del neoliberismo più puro e selvaggio, oggi fortunatamente caduto in disgrazia) a poco meno dell’1,5.

Un primo equivoco va sciolto subito. Cristina Fernández in Kirchner non salirà alla Casa Rosada solo in quanto moglie del titolare uscente e come marionetta nelle sue mani. La presidenta ha alle sue spalle una militanza nelle file del partito peronista anche più lunga di quello del marito e una sua personalità forte e decisa. Sbaglia chi crede che la sua sia stata un’elezione per interposta persona. E’ pero altresì vero che dietro alla sua candidatura e alla sua vittoria sta la volontà di proseguimento di un progetto e di una modalità di gestione della cosa pubblica che ha caratterizzato gli ultimi anni della politica argentina. E’ probabilmente nelle cifre e nei risultati del governo del marito – eletto quasi per caso nel 2003 in un Argentina ancora sconvolta dal crack del settembre 2001 – che stanno le vere cause della vittoria schiacciante di Cristina Fernández

Negli anni della gestione Kirchner l’Argentina è cresciuta a “ritmi cinesi” con un tasso intorno al 9% annuo. Il tasso di popolazione sotto la soglia di povertà è passata nel giro di 5 anni dal 54% a poco più del 25%. Malgrado un’inflazione che negli ultimi due anni ha ripreso a galoppare oltre il 10% le classi meno abbienti hanno visto crescere il loro potere d’acquisto, ricevuto importanti sussidi, osservato innalzarsi i salari minimi. La politica di moderata ma ferma ri-statalizzazione di parte dell’economia argentina (tra i settori ritornati sotto il controllo dello stato ricordiamo le poste, l’acqua, parte della ferrovie) ha fatto recuperare sovranità al paese australe, mettendo fine alla vera e propria svendita degli anni del neoliberismo sfrenato di Menem&De la Rua e dando così solidità alla ripresa. Le esportazioni hanno ricominciato a crescere, seppur confinate – e questo si è un fattore di debolezza – a settori tradizionali come la carne o i cereali.

Anche i diritti umani hanno conosciuto finalmente una loro inaspettata primavera, grazia alla nuova e virtuosa politica dell’amministrazione Kirchner. Abrogate le leggi di Obbedienza Dovuta e di Punto Finale, le leggi che avevano perpetuato l’impunità dei militari (probabilmente per un tacito accordo) durante tutta l’era menemista, si è incominciato a “svuotare gli armadi” e a celebrare a ritmo incalzante i processi nei confronti dei torturatori e degli aguzzini degli anni della dittatura militare – ultimo in ordine temporale, ma non di importanza, quello al “cappellano della morte” Von Wernich. Un impegno straordinario – vero fiore all’occhiello del presidente uscente e del suo governo - che è riuscito addirittura a conquistare le Madres de Plaza de Mayo ed a far dire alla loro storica portavoce, Hebe de Bonafini che “el enemigo ya no està en el gobierno”.

Si può naturalmente dubitare della solidità di questo modello sul lungo periodo. Un modello che si è basato su un misto di pragmatismo e rigore, ma anche su una congiuntura economica positiva e su un’accorta politica di alleanze – prima tra tutte quella con il Venezuela di Hugo Chávez che si è impegnato addirittura nell’acquisto dell’ingente debito estero del paese. E’ lecito quindi ogni dubbio nei confronti della tenuta del “miracolo economico argentino” negli anni a venire, ma è innegabile tuttavia che dietro al successo elettorale di domenica di Cristina Fernández in Kirchner ci siano i numeri e la sostanza di un paese che da quando ha messo fine alla politica neoliberista esasperata del suo passato prossimo e dato il benservito ai cattivi e interessatissimi consigli del Fondo Monetario Internazionale ha inaugurato un circolo virtuoso dalle possibilità insperate. Passeggiare oggi per le vie di Buenos Aires vuol dire passeggiare per una città ricca e prospera lontana anni luce dalla città invasa dai cartoneros nell’autunno di sei anni fa – e che paradossalmente oggi volta la spalle proprio agli artefici della sua ripresa, imponendosi come roccaforte di Elisa Carriò.
Non è tutto rose e fiori ovviamente e le sacche di povertà che resistono nel paese, dalle villas miserias del Gran Buenos Aires (l’hinterland della capitale) alle provincie del nord andino sono lì a dimostrarlo. Ed è proprio questa la sfida che attende Cristina Fernández che dovrà passare dalla vuotezza di una campagna elettorale condotta vivendo sugli allori conquistati dal marito nella legislatura precedente ad una politica energica che sappia dare fondamenti stabili alla crescita argentina ed infondere maggiore radicalità nella lotta alla povertà - superando magari in questo anche la parziale moderazione in campo economico del marito. Per tacitare così tutti coloro che hanno visto nel “passaggio del testimone in famiglia” delle elezioni di domenica scorsa scarsa limpidezza democratica ed un retaggio del passato e presunto paternalismo peronista.

Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari.

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domenica 28 ottobre 2007

BOLIVIA: DOPPIO ATTENTATO A SANTA CRUZ DELLA SIERRA.

La notizia è di qualche giorno fa, ma purtroppo ne vengo a conoscenza solo ora. Nella notte tra domenica e lunedì scorso, 22 ottobre, due bombe sono esplose a Santa Cruz della Sierra, seconda città della Bolivia e capitale dell’opposizione oligarchica, separatista e filo-razzista al governo di Evo Morales.
Più che simbolici i luoghi colpiti (fortunamente senza danni alle persone): il consolato venezeuelano della città e una casa abitata da alcuni medici cubani impegnati in un progetto di cooperazione nell’ambito dell’ALBA (Alternativa Bolivariana para las Américas).
Non è difficile pensare a chi possa esserci dietro a questi due attentati o chi, se non autore materiale, possa averli in qualche modo ispirati. Santa Cruz è infatti da sempre la patria della destra “bianca” del paese, violentemente razzista nei confronti degli andini e dei movimenti indigeni che hanno portato al potere Evo Morales. Da mesi guida una fronda anti-Morales che mira a far naufragare l’ambizioso progetto della costituente impiantata a Sucre e a far prevalere un progetto separatista che punta a rendere autonome ed indipendenti le ricche e fertili zone dell’Oriente boliviano dal resto del paese andino. Insomma una vera azione di sabotaggio volta ad impedire ogni reale processo di cambiamento nel paese sudaericano, scongiurando politiche di redistribuzione, riforma agraria ed ogni altro provvedimento che possa mettere in forse decennali privilegi.

Si spera che l’avvenimento sia un fatto isolato anche se è difficile crederlo, dal momento che sembra inscriversi in una strategia plurale di innalzamento della tensione nei confronti del governo di Evo Morales (e visti gli obbiettivi colpiti, anche della sua politica estera). Strategia di cui citiamo in questa sede perlomeno altri due episodi salienti degli ultimi tempi: il violento sabotaggio messa in atto recentemente dall’organizzazione neofascista di Santa Cruz, Union Juvenil Cruceñista dell’Assemblea Costituente a Sucre e la scoperta da parte delle autorità di un pampleth redatto da ignoti oppositori contenente un Plan para tumbar el Indio de mierda [Piano per far cadere l’indio di merda] sul quale ogni commento è superfluo.

Alcuni analisti attribuiscono l’attentato al consolato venezuelano ad alcune inopportune dichiarazioni del presidente Chavez che aveva affermato qualche giorno prima che, in caso di golpe o rovesciamento di Evo Morales, il Venezuela sarebbe stato pronto a “vietnamizzare la Bolivia”. Giustificazioni puerili, dal momento che da tempo si conosce la pericolosità dell’opposizione secessionista contro il governo di Evo Morales e la forza contundente di alcune sue frange paramilitari (come la già citata Union Juvenil Cruceñista).
L’auspicio è che la fragile primavera boliviana possa non interrompersi per l’ennesima cospirazione proveniente da Santa Cruz e continuare nel suo cammino di giustizia sociale.

Oggi in ogni caso – lo ricordo a chi non ne fosse informato – Evo Morales sarà a Rimini per ritirare un premio assegnatogli dalla Fondazione Pio Manzù e domani incontrerà a Roma il presidente del consiglio italiano Romano Prodi.

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venerdì 26 ottobre 2007

"GUATEMALA IL PAESE SENZA SINISTRA". INTERVISTA A DANTE LIANO.

Dante Liano è uno dei più importanti intellettuali e scrittori guatemaltechi. Da anni vive in Italia e insegna lettura ispanoamericana all’Università Cattolica di Milano. Ma continua a seguire con passione le vicende del suo paese. In passato infatti ha collaborato a lungo con Rigoberta Menchú, di cui ha curato diverse pubblicazioni.
E’ quindi la persona ideale per commentare il risultato del primo turno delle recenti elezioni guatemalteche. Elezioni che hanno visto, come noto, il fallimento della candidatura di Rigoberta Menchú, non andata oltre il 3% dei voti e quindi la delusione rispetto alla possibilità di un riscatto indigeno alle elezioni. Possibilità, forse rimandata alle prossime consultazioni, previste per il 2012.
Nel frattempo al ballottaggio del 4 novembre, si sfideranno Álvaro Colom dell’Unidad Nacional de la Esperanza (UNE) partito di centro che ha ottenuto il 28,9 dei consensi e Otto Pérez Molina attestatosi, con il suo Partido Patriota (PP) al 23, 5 delle preferenze. Quest’ultimo, candidato della destra e personaggio dal passato oscuro - è stato membro della Direzione di intelligence militare e dello Stato maggiore nei primi anni novanta, nonché informatore della Cia - è stato protagonista di una grande rimonta, verosimilmente grazie alle sue promesse di ordine e sicurezza.
Altro elemento preoccupante è l’elezione a deputato di Efraín Ríos Montt, il sanguinario dittatore a capo del paese nei primi anni ottanta, tra i maggiori responsabili del genocidio degli indios perpetrato durante i quarant’anni della guerra civile.

- Innanzitutto, qual è il suo giudizio sui risultati dal primo turno? Si aspettava il testa a testa tra Colom e Pérez?

Si era ampiamente prevedibile. Bastava avere un’idea generale del Guatemala per aspettarsi un risultato di questo tipo. L’unico dato forse un po’ sorprendente è che il partito di governo, la Gran Alianza Naciónal (GANA) del presidente uscente Óscar Berger non sia andata oltre il terzo posto, seppur con molti più volti di quelli che si aspettava. [per l’esattezza 526 000, il 17, 2 delle preferenze n.d.r.]

Come giudica il risultato modesto di Encuentro por Guatemala, il partito di Rigoberta Menchú?

Purtroppo non è molto sorprendente che Rigoberta abbia preso solo il 3% dei voti che, in termini concreti, sono circa 100 000 voti. Ciò che stupisce semmai è il divario con alcuni sondaggi fatti l’anno scorso, secondo i quali il 71% dei guatemaltechi avrebbe visto bene Rigoberta come presidente. Questo significa che un conto è la simpatia per un personaggio in vista, e un conto sono le reali intenzioni di voto.
Il vero dato preoccupante è che Rigoberta abbia preso meno voti del suo acerimmo nemico, il generale Ríos Montt. Cosi come il fatto che con queste elezioni siano praticamente scomparsi gli unici due partiti di sinistra guatemaltechi – Encuentro por Guatemala di Rigoberta Menchú è piuttosto un partito di centro-sinistra. Questo significa che in Guatemala oggigiorno non esiste una vera sinistra. E in una democrazia davvero compiuta è importante veder rappresentato tutto lo spettro politico.

Ma quali sono secondo lei le cause della sconfitta della Menchú?

Ci sono fondamentalmente due ragioni. La prima è il fattore-tempo: Rigoberta si è candidata a febbraio, e una campagna condotta in così pochi mesi ha scarse possibilità di successo. Poi c’è una questione economica: mentre i suoi avversari hanno potuto disporre di milioni di quetzales per la campagna elettorale, Rigoberta ne ha spesi solo 53000, l’equivalente di 5300 euro. Una cifra ridicola. Questo significa che non ha potuto realizzare tanti spot e apparizioni televisive. E purtroppo anche nei dibattiti a cui è stata invitata, non è riuscita a essere incisiva come quando parla dal vivo a grandi masse di persone.
Inoltre bisogna tener conto che Encuentro por Guatemala è un partito molto piccolo, poco radicato sul territorio. E poi c’è il fatto che in Guatemala le elezioni tradizionalmente si vincono con i regali. Camicie, sacchi di fertilizzante regalati alle popolazione nelle campagne. Rigoberta invece ha promesso dignità e non è scesa a compromessi con nessuno. Questo, in assenza di un’organizzazione partitica capillare, non ha pagato.

Crede che possa aver influito, in questo fallimento, l’atteggiamento della Menchú rispetto alla candidatura di Ríos Montt, il suo non averlo attaccato, e non aver preso parte alla denuncia del giudice spagnolo Santiago Pedraz?

Può essere un fattore. Qualcuno può averci visto una specie di tradimento. Ma di sicuro non è stato determinante – del resto Ríos Montt è stato eletto. Può invece aver influito il fatto che la Menchú fosse stato ambasciatrice per la pace nel governo di Berger. Il contatto con il potere a volte viene interpretato negativamente.

La campagna elettorale è stata la più violenta della storia guatemalteca. Quali sono state per lei le cause di quest’esplosione di violenza? E quanto può aver agevolato questo clima la rimonta di Pérez – il cui slogan era “Vota con mano dura”?

Purtroppo la violenza in Guatemala non è una novità. All’origine c’è la violenza della guerra civile. Finita la guerra si è trasformata in violenza comune, delinquenza. Molti di coloro che hanno preso parte alla guerra si sono riciclati, soprattutto nel narcotraffico. E tutto ciò ha generato grande insicurezza, tanto in città che nelle campagne. Oggi in Guatemala si può morire per il furto di un telefonino. La grande criminalità investe soprattutto sul narcotraffico – il Guatemala è paese di passaggio della cocaina che dalla Colombia va agli Stati Uniti –, sui migranti diretti verso gli Usa e sul traffico di bambini. Quindi la promessa di Pérez Molina di ristabilire immediatamente ordine e sicurezza fa grande presa. Il problema è che lui ipotizza risposte violente. Il che genera scenari terribili che in Guatemala già conosciamo. Ai tempi di Ríos Montt c’erano i tribunali speciali che condannavano e uccidevano i delinquenti. Hanno ammazzato un sacco di gente, ma non hanno risolto nulla e ora siamo daccapo.

Pérez Molina, con i suoi trascorsi torbidi può essere un pericolo per la democrazia? Tra l’altro vuole tornare ad applicare la pena di morte, come Alan García in Perù…

No, non credo che sia una minaccia per la democrazia. In altri paesi dell’America Centrale si sono fatti esperimenti simili. In Honduras, per esempio, le bande giovanili sono state quasi sterminate. Ma poi si sono rigenerate e il paese non ha risolto nulla. Credo che Pérez Molina, se eletto, non possa durare più di una legislatura. Semmai il pericolo è che vuoti le casse dello stato. Perché spesso in Guatemala si entra alla casa presidenziale a mani vuote e se ne esci arricchiti – c’è stato anche chi ne è uscito proprietario di un’isola nell’Oceano Atlantico [Cerezo Arévalo, il primo presidente democratico del Guatemala, dopo la dittatura n.d.r.]

La grande stampa internazionale ha spesso omesso il fatto che Ríos Montt sia tornato in parlamento. Cosa significa la sua elezione, e quanto intralcerà la battaglia per la giustizia rispetto agli anni del genocidio?

Nulla. La sua impunità era di fatto già stata sanzionata negli accordi di pace del ’96. Personalmente non credo che la giustizia rispetto agli anni del genocidio possa fare passi avanti. La gente in Guatemala vuole guardare al futuro. La memoria storica è già stata giudicata ed è già stata data una sanzione politica e morale. Non bisogna dimenticare che la guerra civile l’hanno vinta i militari. Non l’hanno vinta le forze democratiche. E i militari continuano in qualche modo a essere al potere. La democrazia si esprime solo nelle elezioni. Ma per il resto il paese deve ancora camminare tantissimo. Certo, si sta meglio oggi che ai tempi della dittatura. Ma non abbiamo comunque una democrazia così come la intendete voi in Europa.

Cosa ne pensa di Colom? In caso di vittoria, quanto crede che cambieranno o non cambieranno le cose in Guatemala? Ci si può aspettare un avvicinamento del Guatemala ai governi progressisti dell’America Latina o il Guatemala rimarrà nell’orbita di Washington? A quanto pare infatti Colom non sembra disposto a mettere in discussione il Trattato di Libero commercio con gli Usa…

Credo che Colom rappresenti la continuità. Anche perché non ha un vero programma. Prevede qualche lieve riforma, ma non i cambiamenti radicali di cui un paese come il nostro avrebbe bisogno. Noi siamo tradizionalmente nell’orbita più stretta di Washington e non credo che nessuno abbia il coraggio di spostarsi di lì. Certo non Colom. Magari in futuro, ma non ora. In ogni caso io spero in una vittoria di Colom al ballottaggio, perché con Pérez Molina si rischia l’imbarbarimento, l’incancrimento dei nostri problemi.

Rispetto al 2012 vede qualche possibilità che anche in Guatemala possa nascere un movimento indigeno forte, come quello, per esempio, che ha portato alla vittoria di Evo Morales in Bolivia?

E’ molto probabile. Ci sono tanti intellettuali indigeni, che purtroppo non si conoscono fuori dal Guatemala, ma che stanno creando una coscienza forte all’interno del popolo maya. E la popolazione indigena è quella che da più speranza. Non è mai stata al potere, pur avendo una cultura solida e profonda. E’ l’unica che può proporre una vera alternativa. E in Guatemala abbiamo quanto mai bisogno di un profondo cambio di classe politica.

Intervista realizzata per il settimanale on-line Fusi Orari

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