domenica 25 febbraio 2007

OPERA, L'INTOLLERANZA PAGA. NEL SILENZIO DI MEDIA E PARTITI.

Qualcuno ha detto, non senza una punta di ironia, che i “No-Rom” di Opera sono stati l’unico movimento “locale” degli ultimi tempi che non sia stato combattuto, contestato o represso dalle forze dell’ordine e dalle istituzioni. E che – soprattutto - abbia ottenuto ciò che voleva: ovvero la cacciata del gruppo di famiglie Rom che ad Opera avrebbe dovuto trovare una sistemazione per l’inverno - per l’esattezza fino al 31 marzo.

Riepiloghiamo la vicenda per i più distratti:
il 14 dicembre scorso viene sgomberato a Milano il campo nomadi di Via Ripamonti; 77 persone (34 delle quali bambini) vengono trasferite in un accampamento di tende riscaldate allestito ad Opera, piccolo centro dell’hinterland milanese governato dal centrosinistra. Subito l’opposizione di destra scatenata la bagarre. Il sindaco viene duramente contestato in comune da esponenti leghisti e di An, che soffiano sul fuoco del malcontento dei cittadini. Dal fuoco metaforico si passa subito a quello reale. Durante la notte tra il 21 e il 22 dicembre alcuni ignoti (presumibilmente neofascisti) aizzati dai discorsi dell’opposizione appiccano il fuoco alle tende dei Rom, spargendovi sopra diverse taniche di benzina.
L’opposizione festeggia ma il fatto suscita riprovazione e il parroco del paese nega addirittura l’eucaristia natalizia alla cittadinanza (che in buona parte ha guardato con benevolenza al grave atto vandalico). Ciò nonostante il sindaco diessino Alessando Ramazzotti ribadisce la ferma intenzione di ospitare le famiglie Rom e già il 29 dicembre viene allestita una nuova struttura.
Ma il clima di ostilità non cessa. Davanti alla recinzione che protegge la nuova tendopoli si installa un presidio permanente di cittadini ed esponenti di Lega e An. I Rom (ed i volontari che li assistono quotidianamente) sono fatti oggetto di provocazioni ed insulti (a volte perfino sputi). Più volte si rischia l’incidente. Interviene nuovamente il sindaco Ramazzotti che chiede addirittura l’intervento dei vigili. Ma è tutto inutile.
Il 10 febbraio, con una lettera perentoria, le famiglie Rom annunciano la loro decisione di abbandonare la tendopoli di Opera, causa il violento clima di provocazione ed intolleranza incontrato: «Siamo il gruppo di persone, uomini, donne, bambini che da mesi vivono nelle tende ad Opera in una situazione d’emergenza, con un presidio di gente che non ci vuole, con la polizia che è sempre all’entrata del campo. Non ce la facciamo più. Soprattutto i nostri bambini hanno paura. Per questo non vogliamo più stare neanche un’ora in più perché siamo stanchi. Ci sentiamo offesi e siamo offesi continuamente. […] Quando passiamo al presidio noi salutiamo sempre, ma loro ci trattano male. Passiamo ogni giorno attraverso cartelli che ci offendono. Siamo persone come voi e molti, anche cittadini di Opera, lo possono affermare. Ora non abbiamo più il coraggio di uscire dopo le 17 per prendere da mangiare. Chi viene a trovarci, deve essere riconosciuto dalla polizia, spesso non passa. Ma perché? Avevamo detto che saremmo rimasti quel gruppo e così è. Siamo intimiditi ed impauriti. Non ce la facciamo più. […]». Grazie all’intervento dell’infaticabile Don Virginio Colmegna e della sua Casa della carità ora le famiglie Rom verranno trasferite in una nuova struttura all’interno del Parco Lambro, periferia nord-est di Milano.

La prima considerazione che il triste epilogo di questa storia spinge a fare è quasi banale: l’intolleranza e la violenza pagano. Pagano e rimangono impunite - ad oggi infatti, malgrado i sopralluoghi delle forze dell’ordine, nessuno è stato arrestato o semplicemente inquisito per l’incendio appiccato lo scorso 22 dicembre.

Ma soprattutto l’intolleranza e la violenza destano meno scandalo delle beghe matrimoniali di un ex-presidente del Consiglio o di un qualsiasi altro caso di cronaca. Con buona probabilità in un qualunque altro paese europeo un episodio simile avrebbe suscitato fiumi d’inchiostro, editoriali veementi e sarcastici, polemiche roventi. Niente di tutto questo in Italia. E neppure grandi manifestazioni della società civile o prese di posizioni da parte degli esponenti del centrosinistra – esclusa quella dignitosissima dell’amministrazione comunale di Opera o l’impegno encomiabile dei volontari della Casa della Carità.
Anzi è il modo in cui tutta la vicenda è stata trattata dalla stampa a gridare vendetta. Finchè si trattava di dare voce al malcontento e alla protesta dei cittadini di Opera (comprensiva di vandalismo ed incendio doloso), giù servizi sulla prime pagine della stampa nazionale e finanche all’interno dei telegiornali Rai e Mediaset. Ma quando si è consumato il triste epilogo della cacciata delle famiglie Rom, la notizia non ha varcato i confini della cronaca locale ed ha paradossalmente trovato più spazio sulle pagine di testate come la Padania o Libero. Ma non già, ovviamente, per denunciarne lo scandalo, quanto per rivendicare la “vittoria” dei cittadini indignati.

E così si celebra il paradosso (che purtroppo paradosso non è)
che ciò che non riescono ad ottenere decine di migliaia di cittadini pacifici e civili, lo possono ottenere poche centinaia di incivili ed intolleranti.
E’ davvero una pagina triste della nostra storia più recente. La lega Nord (ed in subordine altri raggruppamenti politici di destra) incassano nel silenzio generale l’agognato frutto di un lavoro “culturale” che dura da anni. Un lavoro capillare che mira a reintrodurre in Italia idee e concetti razzisti e intolleranti, che si sperava fossero definitivamente consegnati alla spazzatura della storia.
Gianni Barbacetto sulle pagine di Diario – l’ unica grande pubblicazione a diffusione nazionale che abbia dato il giusto peso alla vicenda – ha definito l’episodio il primo piccolo «pogrom italiano».Un pogrom bianco perché senza morti. Ma non per questo meno grave. Ed ha aggiunto: «D’ora in poi si sa che “la lotta vince” , che bruciare un campo nomadi resta impunito, che assediare e insultare uomini, donne e bambini nati in un paese diverso porta ai risultati sperati. Quando ci sarà il prossimo pogrom, quando ci scapperà il morto, i giornali e le tv si chiederanno come sia stato possibile – come hanno fatto con gli stadi e gli ultrà». Speriamo che la storia dia torto al giornalista di Diario.

(Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari)

domenica 18 febbraio 2007

ANTI-AMERICANI

Parlando di Vicenza, il prode Berluscone ha definito la giornata di ieri assai «triste» perché - a suo dire - migliaia di persone avrebbero sfilato «contro gli Stati Uniti» e la sinistra italiana avrebbe dato un’ennesima prova del suo inveterato anti-americanismo.


Un anti-americanismo assai strano quello che si è respirato ieri a Vicenza.
Non solo infatti non si è vista alcuna bandiera Usa data alle fiamme né si è udito alcuno slogan offensivo verso gli Stati Uniti, ma addirittura si sono scorte parecchie bandiere a stelle e strisce tra le mani degli stessi manifestanti – come dimostra la foto qui sotto – e alla fine del corteo diversi pacifisti americani sono stati invitati a parlare dal palco.

Viene allora il dubbio che l’unico vero anti-americano in circolazione altri non sia che lo stesso Berlusconi, il quale si augura sanità e servizi scadenti per milioni di cittadini statunitensi, in cambio di una politica estera inutilmente bellicosa e del mantenimento di centinaia di basi militari.

venerdì 16 febbraio 2007

LETTERA RANCOROSA AI “COMPAGNI” DEL CENTRO SOCIALE VITTORIA

Pubblico qui una lettera aperta ai “compagni” del Centro Sociale Vittoria di Milano che nei giorni scorsi hanno diffuso un inopinato comunicato di solidarietà agli arrestati di lunedì. Segnalo anche quest'intervista del premio Nobel Dario Fo, che esprime dolorosamente la medesima preoccupazione nei confronti di un gesto tanto irresponsabile.

Idioti irresponsabili. Oggettivamente non credo esista un altro modo per definirvi, cari “compagni” del Vittoria dopo che, nel clima di allarmismo strumentale e strumentalizzato degli ultimi giorni, avete deciso bene di esprimere solidarietà a quei quindici deficenti paranoici arrestati nei giorni scorsi.

Mi domando con quale coraggio verrete (se verrete) in piazza a Vicenza, a parlare di pace e di disarmo, quando implicitamente giustificate chi nel padovano, a quanto pare, nascondeva un arsenale militare. Vi sento già dire: come fai a dirlo, ti fidi dell’informazione “borghese”? Che elementi hai per giudicare gli arrestati?

Già, e voi che elementi avete per scagionarli? Ne avete qualcuno? Spero proprio che non li abbiate perché se ne aveste qualcuno sarebbe preoccupante…

E’ mai possibile, cari compagni del Vittoria, che non vi rendiate conto di lavorare sempre e solo per il Re di Prussia? E’ mai possibile che non vi rendiate conto di essere l’alibi del potere e delle sue politiche di repressione?

E’ mai possibile che non vi rendiate conto che la violenza di queste fantomatiche nuove Br è prima di tutto rivolta contro tutti noi, contro le nostre speranze di cambiamento, contro quella partecipazione alla manifestazione di Vicenza, che voi dite di augurarvi, sia di massa? Non vi rendete conto che è proprio questo estremismo dei modi – che non centra nulla con la legittima radicalità delle posizioni e delle idee – che fa fallire in Italia ogni movimento che voglia consapevolmente essere popolare e condiviso?

Dalle lotte che in questi ultimi anni hanno sconvolto il pianeta ho imparato una cosa fondamentale: l’illusione tutta novecentesca che un’”avanguardia” potesse cambiare con la forza lo stato delle cose portandosi dietro le masse è una scorciatoia miope e votata al fallimento. Il socialismo del XXI secolo che va in scena nelle terre depredate del Sudamerica e il movimento planetario contro la globalizzazione hanno dimostrato un’unica inconfutabile verità: nessun vero cambiamento dello status quo, dell’ordine mondiale neo-liberista, è possibile senza la partecipazione. Sì, proprio quella partecipazione che voi vi augurate per la manifestazione di sabato, ma che ogni politica autoreferenziale – e il “colpirne uno per educarne cento” ne è la sua massima espressione - nega implicitamente.

Le Br infatti con il loro gesto violento, progettato da un piccolo nucleo e imposto con la forza agli altri, gesto non partecipato né condiviso, rappresentano la negazione assoluta di questo desiderio di partecipazione. Il loro gesto è fatto per separare, non per unire. Il loro gesto è im-popolare, nel senso che non appartiene al popolo, e non fa gli interessi del popolo, ma anzi fornisce al potere un alibi comodo per perpetuare lo sfruttamento e la sottomissione del popolo. E difenderlo o giusticarlo vuol dire andare consapevolmente contro gli interessi del popolo.

Spero – “compagni” del Vittoria – che riusciate a rendervi conto delle contraddizioni e della pochezza ideologica e politica di ciò che “a caldo” avete affermato, che riusciate a capirne l’inutilità e la controproducenza.

Spero (o voglio sperare) che la vostra sia stata solo una sparata infelice in un momento di grande tensione e non rappresenti un credo politico, un desiderio di omertà e appoggio nei confronti di un pugno di imbecilli che vogliono riportare indietro le lancette della storia e colpire – prima dello stato – tutti noi.

p.s. Lo sapete tra l’altro, cari amici del Vittoria, che il giudice per le indagini preliminari all’arresto dei 15 probabili brigatisti è nientemeno che Guido Salvini, l’uomo che forse più di tutti ha contribuito a far luce sulla strage di Piazza Fontana? Credete davvero che lui, che tanto si è impegnato in sede legale a smascherare le strategie terroristiche fasciste abbia propiziato un’“ondata di arresti […] terroristica” come la chiamate voi?

mercoledì 14 febbraio 2007

SERE NERE

E cosi sia: ieri sera il buon Vespa ha parlato in seconda serata del ritrovamento dei diari di Mussolini. Con due ospiti d’eccezione: Alessandra Mussolini e Marcello dell’Utri. Ed ecco subito venire fuori i lati inediti del Duce: il Duce non voleva la guerra, il Duce cercava di frenare Hitler. Gli storici in studio - invitati più per scrupolo di par condicio che per etica giornalistica - ripetevano che si tratta ormai di cose assodate, che anche il dittatore degenere che ci ha guidato per oltre vent’anni si accorgeva che alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, l’Italia era pronta a malapena a combattere la Prima di Guerra Mondiale. Ma nulla da fare: la costruzione del santino era incominciata. E così via, allora, con il flusso di coscienza della Mussolini che sciorinava i ricordi di famiglia del caro nonnino, il quale casualmente è stato anche uno dei peggiori tiranni del ‘900 nonchè l’uomo che ha portato alla rovina l’Italia.
A tenerle bordone Dell’Utri, a cui non pareva vero far dimenticare la sua condanna a 9 anni per associazione a delinquere di stampo mafioso, accreditando l’improbabile immagine di erudito filologo e storico. Dall’altro lato dello studio, peraltro, a completare il ritratto di “famiglia” in un interno, sedeva il senatore Andreotti il cui concorso esterno in associazione mafiosa non è mai stato smentito, ma solo prescritto.
Il tutto con buona pace di Don Puglisi, al quale era stata dedicata la prima serata, con la messa in onda del bel film di Roberto Faenza Alla Luce del Sole. Ma siccome bisogna imparare a convivere la mafia, ecco che par condicio è fatta: prima serata all’antimafia, seconda serata a Cosa Nostra.
E poi già che ci siamo, meglio imparare a convivere anche con i fascisti, nonni e nipoti(ne).


Niente male davvero per la programmazione serale della rete ammiraglia della Rai. Anche se a dire il vero, forse, è mancato un po’ di brio, un po’ di sano divertimento, qualche effetto in più per allietare gli spettatori del Bel Paese. Che so io, un’ entrata in studio degli ospiti dietro ai fasci littori o una conduzione di Vespa vestito da Balilla, od ancora, per cambiare versante, una mezza testa di cavallo mozza per Rita Borsellino, o un presidente della regione Sicilia con la coppola in testa (.....ooops mi sa che quest’ultima non è un idea molto originale…)

domenica 11 febbraio 2007

CARTA CANTA

Oggi pomeriggio, durante la trasmissione di Lucia Annunziata, l’autosospesosi consigliere regionale del Veneto (della Margherita!) Achille Variati ha ricordato che l’allargamento della base di Vicenza va contro quanto scritto a pag. 109 del programma dell’Unione. Il quale recita testualmente: «reputiamo necessario arrivare ad una ridefinizione delle servitù militari che gravano sui nostri territori, con particolare riferimento alle basi nucleari. Quando saremo al governo daremo impulso alla Seconda Conferenza nazionale sulle servitù militari, coinvolgendo l’Amministrazione centrale della Difesa, le Forze Armate, le Regioni e gli Enti Locali, al fine di arrivare a una soluzione condivisa che salvaguardi al contempo gli interessi della difesa nazionale e quelli altrettanto legittimi delle popolazioni locali». Più chiaro di così…

venerdì 9 febbraio 2007

LA CANDIDATURA DI RIGOBERTA MENCHÚ: UNA SPERANZA PER IL GUATEMALA E PER TUTTO IL CENTROAMERICA

La notizia è di quelle che sorprendono sin dalla prima lettura: Rigoberta Menchu si candiderà per le prossime elezioni presidenziali guatemalteche. Informandosi meglio si scopre purtroppo che la cosa non è ancora completamente ufficiale: Rigoberta non ha un vero partito che la sostenga e i movimenti politici che le hanno proposto una candidatura, le hanno in realtà offerto solo un posto di vicepresidente.
Ma qualcosa comunque si è mosso, e non è detto che da qui alla data delle elezioni non si possano trovare le condizioni più adatte ad una vera candidatura. In ogni caso si tratta di un segnale fortissimo per il paese centroamericano. Per capirne esattamente la portata bisogna ricordare cos’è il Guatemala attuale e quale è stata la sua storia negli ultimi cinquant’anni. Esiste infatti un solo modo per definire il Guatemala odierno: il paese dell’impunità. E della dimenticanza, dell’assenza di memoria, dell’omertà storica. Qualche esempio?

A che Stati pensate se si parla di desaparecidos? Facile: all’Argentina, al Cile, magari i più informati anche all’Uruguay. Eppure nel Cile di Pinochet i desaparecidos furono poco più di 3000, nell’Argentina di Videla 30000, mentre furono quasi 50000 nel Guatemala dei governi militari tra gli anni ’50 e ‘80. Se incrociate il dato con quello relativo alla popolazione dei vari paesi potrete capire ancora di più l’entità della tragedia.

Tra il 1954 e il 1986 in Guatemala si sono succeduti una serie ininterrotta di governi militari culminati nella sanguinaria dittatura del presidente Efrain Ríos Montt nei primi anni ’80. Il peccato originale è stato lo stesso di molti altri paesi latinoamericani: l’ascesa al potere negli anni ’50 di un paio di presidenti di sinistra (Juan Josè Arevalo e Jacobo Arbenz Guzmàn) che diedero il via ad una (timida) politica socialista mettendo a rischio i privilegi delle multinazionali nordamericane nel paese (la United Fruit in particolare). Nella logica della Dottrina della Sicurezza Nazionale e del feroce anticomunismo di quegli anni - e dell’altrettanto feroce imperialismo statunitense in Centroamerica - tutto ciò era inconcepibile. Gli Stati Uniti patrocinarono un colpo di stato che nel 1954 spazzò via l’effimera primavera democratica guatemalteca ed iniziò una serie ininterrotta di governi militari o pseudo-democratici che, nel corso degli anni, pianificarono l’eliminazione di ogni opposizione e il genocidio dei popoli indigeni del paese. Vale la pena ricordarne le cifre, visto che poche altre tragedie del ventesimo secolo hanno conosciuto un silenzio simile: oltre 200000 morti, 120000 sfollati in Messico, 400 villaggi maya cancellati dalle carte geografiche, oltre 1100 religiosi assassinati. Tutto ciò è passato sotto il nome di guerra civile, poichè data l’impossibilità di ogni dialettica politica nel paese, molti gruppi scelsero la lotta armata innescando un conflitto perso in partenza. Ma si trattò a tutti gli effetti di genocidio, di pulizia etnica ante-litteram, condotta con l’avallo e il supporto tecnico-militare del potente alleato nordamericano.

Dal 1996 il Guatemala è tornato ufficialmente ad essere una democrazia. Accordi di pace molto compromissori hanno sancito la fine di ogni ostilità e stabilito che il 95 % dei crimini contro l’umanità è avvenuto per responsabilità di esercito e paramilitari. Ad oggi, dieci anni dopo, praticamente nessuno dei “grandi mandanti” è stato condannato per i crimini del genocidio- la Spagna richiede da tempo l’estradizione di Rios Montt senza tuttavia ottenerne nulla.

Il vescovo Juan Gerardi, direttore della commissione d’investigazione sui i crimini del genocidio è stato barbaramente ucciso nel 1998, solo due giorni dopo la pubblicazione del suo rapporto, ed i colpevoli sono ancora impuniti. Il Guatemala di oggi è uno stato allo sbando che risputa fuori tutta la violenza che ha dovuto ingoiare in 40 anni di abominio: ogni anno nel paese si registrano intorno ai 6000 omicidi e il 98 % di essi rimane impunito. Il 15% della popolazione controlla oltre il 70% della ricchezza, e il 45% vive sotto la soglia di povertà (il 75% tra gli indigeni). La United Fruit (ora Chiquita) e le altre multinazionali americane continuano a controllare saldamente l’economia del paese e si avvantaggiano del Cafta (il trattato di libero commercio che il governo di centrodestra guatemalteco ha stipulato, insieme ad altri paesi dell’area, con gli Stati Uniti) in virtù del quale le corporations a stelle e striscie possono riempire il paese centroamericano di prodotti inutili sbaragliando ogni concorrenza in loco. Gli indigeni vengono ancora discriminati in tantissimi contesti della vita pubblica e il riconoscimento delle loro lingue avviene più de iure che de facto.

Rigoberta Menchù è il simbolo vivente della resistenza e dell’opposizione a tutto questo. Una sua elezione alla presidenza in Guatemala potrebbe significare molte cose. Potrebbe significare la fine (o più realisticamente l’inizio della fine) dell’impunità per più generazioni di massacratori centroamericani. (Quella impunità che, per inciso, è sancita anno per anno anche all’interno delle Nazioni Unite, attraverso il sabotaggio sistematico di ogni risoluzione di condanna del genocidio guatemalteco da parte degli Stati Uniti). Potrebbe significare l’avvio di una politica dei diritti umani simile a quella che paesi come l’Argentina (in primis) e l’Uruguay hanno intrapreso negli ultimi anni. Potrebbe significare anche la fine di cinque secoli d’inferiorità e sottomissione delle popolazioni indigene - in maniera similare a quanto sta avvenendo nella Bolivia di Evo Morales. Potrebbe significare soprattutto un ripensamento globale della politica economica del Guatemala e della sua decennale sottomissione agli interessi delle multinazionali straniere. Insomma potrebbe essere davvero un primo passo verso un Centroamerica non più “cortile di casa” degli Stati Uniti.

(Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari)

martedì 6 febbraio 2007

PANE AL PANE, MAIS AL MAIS

Riuscite a immaginare cosa succederebbe se domani, andando a comprare il vostro quotidiano mezzo chilo di pane, scopriste che è aumentato dal solito euro o poco più, a quasi 2 euro? Se ci riuscite potete capire cosa stanno passando milioni di messicani in questi giorni, e che cosa gli ha spinti a riversarsi a migliaia per le strade di Città del Messico, mercoledì scorso. L’aumento del 40% del prezzo della tortilla (alimento che sta alla base della cucina messicana quanto il pane sta alla base della nostra) è il primo avvelenato frutto della politica ultra-liberista del presidente Calderon, il “golpista democratico” andato al potere in elezioni molto probabilmente truccate, il luglio scorso.


Per ulteriori informazioni sulla questione, vi rimando al bell'approfondimento di Antonio Pagliula di qualche giorno fa sul blog Verosudamerica.

domenica 4 febbraio 2007

NOT IN MY NAME

Mi piace pensare che Carlo Giuliani avrebbe detto queste parole - che da Genova ad oggi tutti noi abbiamo ripetuto tante volte – se avesse visto le infami scritte comparse l’altra notte sui muri di Livorno e Piacenza ad opera di un gruppo di imbecilli che vive fuori dal mondo. Not in my name, non uccidete per me, non ammantate di nessun delirante contenuto politico, quella che è solamente brutalità e follia omicida.

venerdì 2 febbraio 2007

LE CLASSIFICHE STRAMPALATE DELLA FREEDOM HOUSE

Sul blog di Beppe Grillo, stamane, ho avuto modo di vedere finalmente la classifica annuale di Freedom House sulla libertà di stampa. Per il comico genovese è l’ennesima occasione per criticare giustamente lo stato della libertà d’informazione e satira del belpaese: l’Italia risulta infatti solo 79esima..

Ora senza volontà di assolvere l’Italia per le sue non lievi colpe, siamo propri sicuri che la classifica sia attendibile?

L’Italia esce da un periodo di gravi attacchi alla libertà di stampa, cominciati con l’editto bulgaro di Berlusconi e culminati con i casi di censura sulla Rai della Guzzanti e di Paolo Rossi - quest’ultimo si vide censurare addirittura un testo di Tucidide solo perchè ai dirigenti Rai (che ovviamente non sapevano che si trattasse di un brano del celebre storiografo greco) parve un attacco all’ex-presidente del Consiglio…

Tuttavia questo giustifica il nostro posizionamento dopo paesi come la Giamaica, il Benin o le isole Fiji (dove tra l’altro di recente c’è stato un colpo di stato?). Nutro seri dubbi al proposito.

Andando a scavare si scopre infatti che quest’anno l’Italia si piazza peggio che negli anni scorsi: nel 2005 eravamo 77esimi, nel 2004 74esimi, e nel 2003 e 2002 - secondo un calcolo approssimativo (dal momento che, all’epoca, la chart era organizzata per raggruppamenti e non per posizioni vere e proprie) intorno alla 60esima posizione. Inutile ricordare che erano gli anni di Berlusconi e del siluramento dei vari Biagi-Luttazzi-Santoro, mentre ora in parlamento risiede una maggioranza di centro-sinistra e diversi dei “rimossi” del quinquennio 2001-2006 sono stati reintegrati – il che ovviamente non rende l’Italia un paese modello, ma perlomeno un po’ meno squallido che negli ultimi tempi.

Ma per la Freedom House no. L’Italia sta peggiorando. Perché?

Forse una risposta la si può trovare andando ad analizzare più da vicino cos’è la Freedom House: nient’altro che un’organizzazione organica alla Cia e alla cricca neo-con che governa gli Stati Uniti da 7 anni a questa parte. Qualche prova? Il presidente della Freedom House è stato tra il 2003 e il 2006 nientemeno che l’ex direttore della Cia James Woolsey. All’interno del board of trustees della stessa figurano poi l’Ex-ambasciatore Usa Thomas Foley (direttore della commissione Trilateral) , l’ex ambasciatrice di Reagan all’Onu Jeane Kilkpatrick e la moglie di Negroponte, Diana Villiers; oltre a Malcom Forbes e David Nastro - a capo rispettivamente di Forbes magazine e della Morgan Stanley ( due istituzioni notoriamente impegnate nella difesa dei diritti umani…)

Sorge allora il dubbio che la Freedom House, più che alla diffusione della democrazia sul globo, sia interessata alla diffusione di capitale e interessi statunitensi. Soprattutto in considerazione del fatto che la classifica annuale di Freedom House viene poi solitamente utilizzata dal governo e dal congresso Usa per stabilire a quali paesi assegnare aiuti allo sviluppo e, più in generale, per impostare tutta la politica estera statunitense.

In quest’ottica allora, può aver pesato sulla cattiva considerazione dell’Italia la pur lieve discontinuità (Vicenza docet) esercitata sullo scacchiere internazionale dal governo Prodi, il quale ha fatto una vaga scelta di campo europeista, ha dato via ad un progetto multilaterale d’intervento in Libano e soprattutto - cosa intollerabile per gli Stati Uniti - si è astenuto nella diatriba per l’assegnazione del seggio Onu dell’America Latina.

Proprio l’America Latina infatti è una buona cartina di tornasole della scarsa imparzialità della classifica di Freedom House. Cuba per esempio è al quart’ultimo posto seguita solo da Libia, Turkmenistan e Nord Corea. Ora non ci sono dubbi che Cuba sia una dittatura e che sul suo territorio avvengano limitazioni della libertà di stampa abbastanza gravi. Detto questo però è oggettivamente improbabile poter considerare stati come la Birmania, la Cina o il Sudan più democratici e pluralisti di Cuba.

E ancora: il penultimo classificato dei paesi latinoamericani per Freedom House è il Venezuela, paese che risulta 152esimo, ben 24 posizioni più in basso della vicina Colombia e preceduto perfino da Haiti. Tutto questo malgrado nel 2006 in Colombia siano stati uccisi ben 9 giornalisti (in Venezuela solo uno), e la stampa sia costantemente sotto la minaccia dei paramilitari. In Venezuela invece più della metà della carta stampata e dei media conduce una continua campagna contro il presidente Chàvez (usando non di rado toni molto duri ed espressioni al limite dell’insulto) ed ha in passato sostenuto il golpe del 2002, senza tuttavia incappare in sanzioni o censure governative. Ma tutto questo per la Freedom House non conta, come evidentemente contano poco i 9 reporter uccisi in Messico nel corso dell’ultimo anno, dal momento che lo stato centroamericano può vantare senza problemi un immeritato 103esimo posto in classifica. Con buona pace di tutti gli “esportatori di democrazia” del mondo.

E’ abbastanza per destituire pressoché di ogni credibilità la classifica di Freedom House, caro Beppe Grillo?

P.S. Un ultimo utile esercizio: provate a tradurre (letteralmente) Freedom House in italiano…

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