domenica 30 dicembre 2007

USQUE TANDEM PERMITTERE, NAPOLITANE, HOC SCELUS?

«Tutti si preoccupano del Kosovo ma non capiscono che la vera bomba a orologeria è la Padania. Le battaglie per liberare il Nord e ridare dignità e diritti al cittadino padano non possono passare dai venditori di padelle o dalle autoreggenti delle rosse di turno. Purtroppo questa battaglia passerà attraverso il rosso del sangue» (Roberto Calderoni, la Padania 29 dicembre).
Dalla “striscia rossa” dell’Unità di oggi.


Non è abbastanza per dichiarare indegno e incompatibile con la vicepresidenza del Senato il rivoltante autore del porcellum, caro presidente della Repubblica?

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venerdì 28 dicembre 2007

AUGURI DI BUON ANNO...TRA POVERTA' E DISGUSTO


Apprendo da un articoletto on-line che sono già esaurite le prenotazioni per il cenone di capodanno più esclusivo d’Italia, quello del ristorante Alla Pergola dell’Hilton di Roma. Costo - decisamente “invitante” - della serata: 1110 euro.

Al di là dell’ovvio e sentito disprezzo per coloro che – potendo - spendono così i propri soldi, mi sorprendo a fare strane associazioni di idee. Mi viene in mente, per esempio, che la stessa cifra equivale allo stipendio annuale di un lavoratore boliviano.

E allora - non so bene neanche io per quale strano motivo - mi viene voglia di rivolgere i miei più sentiti auguri di buon anno agli avventori del sunnominato Pergola dell’Hilton. Il mio augurio (dal profondo del cuore) è quello che possano svegliarsi l’l mattina, dopo le loro squisite degustazioni di San Silvestro, in una delle migliaia di case di adobe (mattoni crudi) di El Alto, con la prospettiva di vivere per un anno intero con i soldi che hanno dilapidato la sera prima. Che possano svegliarsi al freddo, a 4000 metri, senza riscaldamento, con la necessità di lavorare una decina di ore al giorno per 100 dollari scarsi al mese.

E poi magari, se gliene rimane il tempo e la voglia, che posano fermarsi un secondo a riflettere sul legame che intercorre tra le aragoste nei piatti di un lussuoso ristorante di Roma e la catasta di lamiere e il groviglio di fili elettrici che delimita lo skyline El Alto, tra la loro volgarità di insipidi figli del benessere e la dignità del milione di persone che giorno dopo giorno vivono, soffrono e combattono nella capitale più alta del mondo.

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lunedì 24 dicembre 2007

NIGERIA, PFIZER SOTTO ACCUSA PER ESPERIMENTI SUI BAMBINI

Continuano ad essere tutt’altro che idilliaci i rapporti tra le multinazionali occidentali e la Nigeria. Se da anni – dai tempi dell’uccisione di Ken Saro-Wiwa - imprese estrattrici come la Shell o la nostra Eni sono sul banco degli imputati per la loro politica poco trasparente rispetto ai diritti umani e alle questioni ambientali e se è di pochi giorni fa’ la notizia di un’accusa di corruzione miliardaria rivolta alla Siemens, un’altra vicenda dai contorni assolutamente sinistri rischia di passare sotto silenzio sui nostri media, dopo un qualche interesse iniziale. Si tratta del processo intentato da un tribunale dello stato di Kano, nei confronti della Pfizer, grande corporation americana del farmaco, accusata di aver utilizzato circa 200 bambini nigeriani come cavia, per la sperimentazione di propri farmaci.


La vicenda risale al 1996. Allora nel paese centrafricano scoppiò una gigantesca epidemia di meningite (ed in subordine altri gravi focolai di colera e morbillo). La Pfizer si recò volontariamente in Nigeria per assistere i bambini ammalati, nel quadro di un programma di emergenza lanciato dall’Oms. Tuttavia secondo le carte depositate dall’accusa il suo intervento non si limitò alla sola assistenza dei contagiati. La multinazionale avrebbe infatti selezionato 200 bambini e li avrebbe ospitati in apposite strutture alle quali potevano accedere solo i suoi dipendenti. Quindi li avrebbe suddivisi in due gruppi di 99 e 101 unità, somministrando ai primi un alto dosaggio di Trovan ed ai secondi un basso dosaggio di Ceftriaxone, ambedue farmaci allora in sperimentazione. Queste attività “altamente segrete” sarebbero state, secondo l’accusa, il vero movente dell’intervento della Pfizer in Nigeria e sarebbero alla base del decesso di 11 dei 200 bambini e dei danni permanenti (malformazioni, cecità, paralisi) subiti da gran parte degli altri.

Ora il tribunale di Kano chiede alla Pfizer un indennizzo di 2,7 miliardi di dollari, all’interno dei quali rientrano 25 milioni di dollari come rimborso per le spese sostenute dallo stato nigeriano per curare i bambini usati come cavia, 350 milioni di dollari per le spese in aiuto alle vittime e ulteriori 200 milioni per sradicare i pregiudizi che l’episodio ha causato tra la popolazione del paese. Proprio questa vicenda è infatti alla base del fallimento di alcune campagne di vaccinazione contro la poliomielite promosse dall’Oms negli ultimi anni – fenomeno tutt’altro che trascurabile se si considera che la Nigeria è il paese con la percentuale più alta di abitanti affetti da poliomielite di tutto il mondo. Va peraltro ricordato che il Trovan, uno dei due medicinali somministrati è bandito dalla Comunità europea e viene considerato pericoloso addirittura dalla stessa Food and Drug Amministration americana per la sua alta tossicità epatica e, pertanto, non somministrabile ai bambini.

Di fronte a queste pesantissime accuse la strategia di difesa scelta dalla multinazionale appare straordinariamente debole. La corporation continua a sostenere da una parte che i decessi sarebbero stati causati dalla meningite e non dai i farmaci (cosa che tuttavia è stato messa in discussione nel 2001 dal rapporto di un comitato di esperti pubblicato l’anno scorso dal Washington Post ) e dall’altra che comunque il protocollo della sperimentazione era conforme alla legge nigeriana. Come a dire, che se anche la Pfizer fosse responsabile dei crimini imputatigli, comunque non li avrebbe commessi “illegalmente”.
Il succitato rapporto del 2001 usa peraltro parole piuttosto franche e inequivocabili: parla di “sfruttamento dell’ignoranza” delle persone coinvolte e di “test illegale di un farmaco non registrato”, dal momento che il Trovan non era mai stato somministrato in precedenza a persone affette da meningite.

E’ proprio sulla base di questo dossier che alcune famiglie nigeriane presentarono nel 2001 a New York un’azione legale, denunciando il colosso farmaceutico per "trattamento crudele, inumano e degradante". Tuttavia il giudice non diede luogo a procedere sostenendo di non aver giurisdizione sulla materia.
Ora invece a Kano il processo si è finalmente messo in moto, malgrado il boicottaggio aperto della multinazionale, la quale è riuscita a rimandare la prima udienza di alcuni mesi (da luglio a ottobre) per vizi di forma.
Nel frattempo però la stessa Pfizer è finita nel mirino anche dello stesso governo nigeriano. Quest’ultimo lo scorso giugno, ha intentato causa alla multinazionale presso una Corte Federale di Abuja (la capitale del paese), chiedendo una cifra più di due volte superiore a quella richiesta dal tribunale di Kano: 7 miliardi. Le ragioni addotte dal governo sono le stesse così come uguale appare la strategia ostruzionistica della corporation: quest’ultima ha infatti presentato un’ingiunzione presso il tribunale di Lagos (seconda città della Nigeria) che di fatto impedisce alla polizia di portare in tribunali i funzionari della compagnia.
La corte Federale di Abuja ha cosi aggiornato il caso al prossimo 28 gennaio.

E’ difficile prevedere quale sarà l’esito dei due processi ed in particolare di quello intentato dal governo. Un verdetto di condanna della multinazionale potrebbe davvero configurarsi come un precedente storico e di certo la corporation americana farà di tutto per evitarlo. In ogni caso il danno di immagine subito non è certamente sottovalutabile e si auspica che almeno quest’ultimo possa davvero fungere da precedente e rafforzare la vigilanza sull’operato delle multinazionali occidentali nei paesi dell’Africa subsahariana.

Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari

domenica 23 dicembre 2007

ACTEAL, DIECI ANNI DOPO


Dieci anni dopo quel tremendo 23 dicembre 1997, quando ignoti sicari, affiliati probabilmente al gruppo paramilitare "La maschera rossa" entrarono in una chiesa del municipio chapaneco di Acteal sparando all'impazzata e facendo ben 47 morti, nessuna giustizia sembra profilarsi all'orrizonte. E a nulla sembra valere la dignitosissima protesta delle Abuelas di Acteal. Anzi c'è chi, come il vescovo emerito di San Cristobal de las Casas, Samuel Ruiz, crede che eventi simili possano ripetersi.
Da Acteal a Oaxaca passando per la frode di luglio dell'anno scorso, il Messico sembra sprofondare sempre più nel baratro.

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venerdì 14 dicembre 2007

E SE LO SCIOPERO DEGLI AUTOTRASPORTATORI CONTINUASSE TUTTI I GIORNI?

Anche se non ha paralizzato un paese come lo sciopero dei camionisti nel Cile di Allende, lo sciopero (o serrata?) dei giorni scorsi degli autotrasportatori ha causato i suoi buoni disagi. Impossibilità di far rifornimento di benzina, lunghe code, negozi senza merci, prodotti alimentari marciti per i ritardi, ecc…

Tutte cose scomparse nel giro di due giorni ma che hanno procurato i loro danni all’economia nostrana. E i loro fastidi alla popolazione.

Ma…riuscite a immaginare cosa sarebbe successo se fossero durati giorni, settimane, forse mesi? Per giorni le merci che non arrivano al supermercato, per giorni i prodotti alimentari che marciscono per i blocchi, per giorni le code che impediscono le consegne e i trasporti d’urgenza … Riuscite a immaginare, tutto questo? Riuscite a farlo? E se tutto questo da qualche parte esistesse?

Tutto questo da qualche parte esiste, eccome….

Nella striscia di Gaza. Esiste nei blocchi umilianti degli israeliani che impediscono ai palestinesi di raggiungere il lavoro, che non permettono alle merci di raggiungere i mercati, che fanno sì che i prodotti agricoli marciscano bloccati ai valichi dei territori…esiste nei morti che muoiono perchè qualcuno impedisce loro di arrivare in tempo all’ospedale, nel carburante che non arriva alle stazioni di rifornimento, nella pancia della gente che rischia la fame perché non le arriva farina, riso, pane…

E così si va avanti giorno dopo giorno mentre altrove si permette che qualche decina di risoluzioni Onu rimanga carta straccia chiusa in un armadio…

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TUTTO IL MONDO E' PAESE ...NEL PEGGIO

Tutto il mondo è paese…nel peggio.
Mentre oggi in Italia i funerali dei quattro metalmeccanici morti a Torino hanno commosso il paese, il Perù in questi giorni è sconvolto dalla morte di nove operai uccisi dal crollo di un muro di cemento, in un cantiere de La Victoria, uno dei quartieri più degradati del centro di Lima – lì si trova la famosa huerta perdida, divenuto uno dei più grandi centri dello spaccio limeño…
Come chi ha visto la puntata di ieri sera di Anno Zero sa, gli operai della Thyssen Krupp avevano più volti denunciato i rischi che correvano, senza ottenere risposta…ugualmente avevano fatto i muratori del cantiere di Lima, anch’essi senza suscitare più di tanto l’interesse dell’impresa edilizia per cui lavoravano.


Insomma dalle Alpi alle Ande, dal Po al Pacifico le cose non sembrano cambiare un granchè.
Già, ma sfugge qualcosa. L’Italia è una potenza economica mondiale, il Perù un paese in via di sviluppo. Il Perù esce da una dittatura di dieci anni e ha leggi sul lavoro discutibili approvate durante i governi autocratici di Fujimori, l’Italia – nonostante tutto – ha lo Statuto dei lavoratori e una legislazione sindacale avanzata. Il Perù, nella classifica Onu dell’Indice di sviluppo umano occupa l’85esima posizione, l’Italia la 17esima. E potremmo andare avanti a lungo di questo passo con le comparazioni, ma ci fermiamo qui.
Nell’epoca della globalizzazione neoliberale tutto il mondo è paese…ma al ribasso.

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mercoledì 12 dicembre 2007

BOLIVIA: APPROVATA LA NUOVA COSTITUZIONE!

La historia acaba de empezar...

martedì 11 dicembre 2007

PERU', LA FURIA LIBERALIZZATRICE

Continua la furia liberalizzatrice del governo Alan Garcia. L’uomo che più di vent’anni fa nazionalizzava la leche Gloria provocando le ire della Nestle e metteva sotto controllo banche e istituti assicurativi, sembra oggi puntare a rendere il Perù la cattedrale del neoliberismo sudamericano, in tempi in cui tutto il resto del continente va (fortunatamente) da tutt’altra parte.

A sole 48 ore dalla ratifica da parte del Senato americano del trattato di libero commercio con gli Stati Uniti, la camera cilena ha dato luce verde ad un progetto di ampiamento del protocollo ACE n° 38, l’accordo che regola dal 1998 i rapporti commerciali tra il Perù e il paese australe, configurando di fatto un ulteriore trattato di libero commercio. E le manovre in senso liberista non si fermeranno qui, dal momento che il Perù ha in fase di discussione accordi analoghi con Canada e Singapore.
Quali possano essere gli effetti di tali provvedimenti sulla fragile economia peruviana è facile immaginarlo, soprattutto alla luce di un precedente illuminante come quello messicano.

Rimanendo nell’ambito del Tlc con il Cile preme ricordare l’asimmetria tra le economie dei due paesi. Allo stato attuale il Cile investe nel paese andino qualcosa come 166 volte tanto quanto investe il Peru in Cile e, soprattutto, riesporta a prezzo maggiorato circa il 60 % delle merci provenienti del Perù, piazzandole sul mercato cinese.
Secondo Alain Fairlie, analista economico peruviano e professore all’università di Lima, l’anomalo Tlc rischia di creare un sorta di rapporto Nord-Sud tra Perù e Cile, dal momento che il primo esporta nel secondo materie prime e il secondo inonda (e inonderà sempre di più dopo l’ampliamento dell’accordo commerciale) il primo di prodotti finiti.
A quale dei due contraenti possa giovare un tale accordo dovrebbe apparire chiaro a chiunque, tranne a quanto pare, ai ministri del governo Garcìa. La manovra sembra peraltro inserirsi in un preciso progetto “espansivo” da parte del governo cileno, che sta portando in questo periodo alla ratifica di un analogo Tlc con il Guatemala e, più in generale, a un’intensificazione dei rapporti commerciali del paese australe con il Centroamerica.

Ben più ingenti tuttavia rischiano di essere gli effetti negativi per il Perù del Tlc con gli Stati Uniti soprattutto in campo agricolo. I prodotti agricoli peruviani rischiano di perdere qualunque competitività rispetto a quelli Usa, sostenuti da enormi sussidi statali (al contrario di quelli del paese andino) e soprattutto prodotti in maniera industriale su larga scala. Questo, secondo molti analisti, rischia di allargare ulteriormente la già enorme ed evidente polarizzazione nella distribuzione della ricchezza tra aree rurali ed urbane, portando all’esclusione di centinaia di migliaia di cittadini peruviani.

Insomma, a quanto pare, ci sono tutte le buone condizioni perché il “nuovo” Alan Garcia possa riuscire a far fracasar nuovamente l’economia peruviana come già una ventina di anni fa, al tempo del paquetazo.

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domenica 9 dicembre 2007

MESSICO, GIORNALISTI SEMPRE PIU' A RISCHIO

E’ stato ucciso ieri, nella città di Uruapan (stato del Michoacan), con 45 colpi di pistola, Gerardo Garcìa Pimentel un giornalista messicano del quotidiano La Opinion. Le prime indiscrezioni parlano di un omicidio compiuto da narcotrafficanti.

Gerardo Garcia Pimentel è il sesto giornalista ucciso dall’inizio dell’anno nello stato centroamericano.
Anche se probabilmente non verrà uguagliato il record negativo dell’anno scorso – 9 giornalisti uccisi e il secondo posto nella classifica mondiale di questa barbarie – il Messico si avvia a essere per il secondo anno consecutivo il paese latinoamericano più pericoloso per i giornalisti – come già ricordavamo in un articolo di qualche mese fa. Oltre che uno dei paesi meno democratici e più a rischio di autoritarismo dell’intero subcontinente.


Ma tutto questo ovviamente non turba i sonni delle masse di giornalisti liberal della nostra stampa occidentale, costantemente impegnati piuttosto a denunciare i “tremendi” rischi per la democrazia che starebbero maturando nei paesi sudamericani retti da governi “populisti”. Amen.

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IL MINISTRO MELANDRI E LO SPIRITO OLIMPICO


Piccolo siparietto dal domenicale della televisione generalista italiana. Il ministro Giovanna Melandri “agnus in fabula”, intervistato tra campioni, giornalisti sportivi ed immancabili nani e ballerine dice – cito quasi testualmente - : “Le olimpiadi, da sempre, storicamente, sono state un occasione per portare pace e rispetto dei diritti umani”.

Mi piacerebbe sapere cosa ne penserebbero di un affermazione del genere i parenti delle vittime di Tlatelolco… Anche se dubito che la signora Melandri abbia mai sentito parlare di Tlatelolco..


p.s. Prima di intervenire il ministro aveva detto di voler dire una “rapidissima parola” sulla questione. Forse se fosse stata "ancora più rapida" sarebbe stato meglio. Che pena...Mai fare zapping di domenica pomeriggio.

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venerdì 7 dicembre 2007

BOLIVIA, SULLA VIA DEL REFERENDUM

Alla fine è praticamente ufficiale: Evo Morales si sottoporrà, insieme ai prefetti dei sei dipartimenti in lotta contro il suo governo, a un referendum revocatorio simile a quello venezuelano del 2004. Con una fondamentale differenza: se nel 2004 fu infatti l’opposizione a chiedere in Venezuela, secondo il dettato costituzionale, il referendum contro Chàvez, in questo caso è il governo boliviano a premere per la consultazione. Una manovra che qualcuno definisce disperata, nel tentativo di uscire da quella situazione di stallo in cui la Bolivia sembra precipitata da ormai troppo tempo.
I prefetti della media luna, in tournee trionfale negli Stati Uniti con la scusa di lagnarsi un po’ con l’Oea (gli Usa sono luogo deputato per tutti i personaggi sinistri del paese andino, a cominciare dal latitante “genocida” Sanchez de Losada) hanno accolto la notizia con soddisfazione, probabilmente convinti di poter dare la spallata definitiva al presidente indio, dopo il fallimento dei vari progetti secessionisti, del plan para tumbar el indio dei mierda e forse anche di qualche oscuro piano golpista.
Qual che possa essere l’esito della sfida, fortunamente ora aperta, democratica ed elettorale, è utile ripercorrere le fasi con cui si è arrivati a questo aut aut, ultima ratio, a quanto pare, contro la minaccia di una guerra civile strisciante.
In principio era la costituente e la costituente avrebbe dovuto essere l’occasione per una rifondazione completa del paese andino e per una tardiva ma finalmente piena uscita dallo stato neocoloniale.
Le oligarchie cruceñe (ma non solo) non hanno mai accettato la prospettiva della stesura di un nuovo testo costituzionale e hanno ritardato, grazie alle loro rappresentanze politiche in seno alla costituente, i lavori della stessa con una lunga controversia a proposito delle modalità di votazione (due terzi o maggioranza assoluta). Superato questo lungo contenzioso hanno deciso di passare a una strategia che si potrebbe definire “sabotativo-aventiniana”: da una parte hanno volontariamente abbandonato i lavori dell’assemblea in segno di protesta, dall’altra hanno deciso comunque a priori che non avrebbero riconosciuto il testo finale proprio a causa della loro assenza.
Nel mentre hanno assecondato, aiutato e favorito il movimento “campanilista” sureño per la capitalia plena (cioè per riportare la capitale a Sucre) nel tentativo di destabilizzare o bloccare completamente i lavori della costituente. Hanno quindi permesso e agevolato lo svilupparsi di quell’inferno che è stata la città di Sucre negli ultimi mesi, messa a ferro e fuoco da studenti e manifestanti vari (tra cui con buona probabilità anche frange neofasciste cruceñe dell’UJC).
Chi scrive si trovava a Santa Cruz proprio nei giorni in cui a Sucre nasceva e prendeva slancio il movimento per la capitalia plena – che avrebbe portato poi per riflesso all’immensa manifestazione pro – La Paz del 20 luglio, con due milioni di persone in piazza – un quinto del popolo boliviano). Sulla centralissima Piazza 24 Septiembre (a Santa Cruz, non a Sucre!) comparve l’immensa bandiera riportata nella foto qui sotto. Basterebbe questo particolare per far capire quanto il movimento sureño sia stato manipolato e veicolato in una funzione anti-governativa, nel tentativo di far saltare il tavolo e bloccare sine die la costituente.
Dapprima i lavori dell’assemblea sono stati bloccati dalla presidentessa Silvia Lazarte per un mese per l’evidente clima ostile, quindi a fronte di proteste sempre più violente e cruente spostati in una caserma di Sucre – altro pretesto per l’opposizione per gridare vanamente all’illegittimità. Infine, mentre il testo veniva firmato, le vie della ciudad blanca si coloravano di rosso per gli scontri tra polizia e manifestanti lasciando sul terreno diverse vittime e tanti dubbi sulla paternità degli omicidi– a quanto pare perlomeno in un caso le pallottole con cui è stato ucciso un manifestante non sarebbero del calibro in dotazione alle forze dell’ordine.
Malgrado una città sotto assedio, i costituenti costretti a fuggire nella notte scortati all’aeroporto dall’esercito, un membro di Podemos fermato con una mitragliatrice in macchina, un carcere assaltato, e una situazione ingovernabile, Evo ha deciso di andare avanti per giungere ad una approvazione del testo costituzionale entro i tempi stabiliti.
I prefetti di sei stati hanno indetto uno sciopero generale – with a little help dei bastonatori dell’UJC che hanno costretto con la violenza in molti casi i cittadini ad aderire – per sabotare l’approvazione della costituzione, adducendo come al solito la questione dell’illegittimità della “costituzione macchiata di sangue” e le rivendicazioni autonomistiche che – oramai lo capiscono anche i bambini – nascondono interessi e latifondi immensi cumulati in decenni di parassitismo all’ombra dei governi Washington consensus. Uno sciopero che ricorda quindi molto quello venezuelano della primavera 2003 e che più “bianco” non si può. In ogni caso attorno ad esso sono riusciti a convogliare un certo consenso risvegliando anche le rivalità etniche e campanilistiche che, purtroppo, ancora dividono lo stato andino.
Di qui la fuga in avanti, pienamente democratica però, di Evo Morales di sottoporre il proprio e i mandati dei prefetti allo strumento elettorale. La battaglia ora è tutta aperta – e, pensando retrospettivamente viene da chiedersi per esempio perché un simile strumento non sia stato adottato anche per risolvere la questione di Cochabamba dello scorso gennaio, culminata in scontri in cui hanno perso la vita ben tre persone.
Quello che tuttavia non può che risultare ridicolo è vedere un’opposizione vassalla del grande fratello a stelle e strisce, stringersi alla corte del monarca in disarmo, a lamentare, a fronte del proprio costante e spesso violento tentativo di destabilizzazione filo-separatista, il carattere dittatoriale (!) di un presidente che decide addirittura di sottomettere il proprio mandato a consultazione elettorale.
Sin vergüenza, como siempre
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