lunedì 25 dicembre 2006

CARITA' CRISTIANA E SPIRITO NATALIZIO

domani alle tre
nella fossa comune sarà
senza il prete e la messa perché d'un suicida
non hanno pietà

domani Michè
nella terra bagnata sarà
e qualcuno una croce col nome la data
su lui pianterà
e qualcuno una croce col nome e la data
su lui pianterà

Fabrizio de Andrè

(da la La Ballata del Michè, 1967)


A Pier Giorgio Welby

(che comunque non è neppure suicida...)

venerdì 15 dicembre 2006

FINANZIARIA E CONTRADDIZIONI: PIU' SOLDI PER LE SPESE MILITARI

Cosa succede se il governo dell’Unione stanza più fondi per le forze armate di quello della Cdl..

Uno strano spettro s’aggira all’interno della Finanziaria in via di approvazione al Senato, la finanziaria dipinta dall’opposizione come la finanziaria dei tagli, delle tasse e della “proletarizzazione dei ceti medi”. Lo spettro del militarismo. Uno spettro inquietante, soprattutto perché partorito da un governo che aveva messo al centro del proprio programma il disimpegno italiano da un teatro di guerra come quello iracheno e l’incentivazione di politiche di disarmo (vedi pagine 90, 91 e 109 del programma dell’Unione). E invece nella manovra compare un aumento di circa 2 miliardi di euro sui fondi destinati alle spese belliche. Si va dai 18 miliardi e 862 milioni di spesa militare del 2006 (di cui 17.782 milioni dal bilancio della Difesa e 1.080 aggiunti dalla vecchia finanziaria), ai 21 miliardi e 144 milioni previsti per il 2007 (di cui 18.134 milioni sempre dal bilancio preventivo della Difesa e 3.010 dalla manovra 2007). Qual è il motivo di un tanto inatteso e sorprendente aumento degli stanziamenti?

Andando a spulciare si scopre che, detratte le spese di mantenimento del personale – i circa 193 mila uomini al servizio delle forze armate – che coprono il 72 % del bilancio, rimangono più di 4 miliardi di euro (spalmati su 3 anni) destinati a finanziare un fantomatico “Fondo per il sostegno dell'industria nazionale ad alto contenuto tecnologico”.

In parte si tratta di progetti già avviati dai precedenti governi, come la partecipazione al faraonico progetto (a guida americana) di costruzione del cacciabombardiere del futuro, l’F35-lightning II, e la parallela collaborazione al suo omologo europeo, l’Eurofighter Typoon, a fianco di Germania, Inghilterra e Spagna. Progetti molto discutibili ma che non esauriscono il quadro degli spese previste nei 4 miliardi del succitato fondo.

Ecco allora comparire – come rivela Carlo Bonini in un articolo su Repubblica di qualche tempo fa - una commessa (del maggio scorso) ad Oto Melara per 49 veicoli blindati su ruota “Freccia”, muniti di torrette per il lancio di missili anti-carro. Piccolo particolare: i veicoli monteranno missili “Spike”, costosissimi apparecchi di fabbricazione israeliana, del valore cinque volte superiore al loro omologo americano, il “Tow”. Perché l’esercito italiano dovrebbe munirsi di queste apparecchiature, considerate troppo costose perfino dall’esercito americano e ignorate pressoché da tutti i paesi della Nato è un mistero che può sciogliere solo l’ex-ministro della Difesa Martino, l’inventore di questa geniale trovata. Un capriccio su cui l’Unione però, dal canto suo, non ha trovato nulla da ridire. Valore dell’operazione 310 milioni di euro.

Assemblati sempre da Oto Melara (seppur fabbricati in Germania) risultano anche 72 obici semoventi (per il valore di 650 milioni di euro) che verranno acquistati per la difesa delle nostre frontiere. Questo malgrado siano pezzi d’artiglieria immaginati per combattere conflitti di posizione lungo linee anche di centinaia di chilometri; conflitti che, per nostra fortuna, non sono previsti a breve scadenza lungo i confini italiani.

Spese alquanto imbarazzanti ma fortemente richieste dagli stati maggiori dell’Esercito e che serviranno – assicurano dalla Difesa – all’«ammodernamento delle nostre forze armate». E che, soprattutto, porteranno grandi proventi, attraverso Oto Melara (ed altre controllate come Vitrocisnet) nientemeno che a Finmeccanica. I cui vertici, guarda caso, provengono tutti dagli stati maggiori delle forze armate. Il tutto in barba alla legge 185 del 1990 che impedirebbe il travaso di personale dall’Esercito all’industria degli armamenti.

Qualche esempio? L’ammiraglio Guido Venturosi da capo di stato maggiore della Difesa alla Vitrociset, il generale Giulio Fraticelli da capo di stato maggiore dell’Esercito all’Oto Melara, il generale Mario Arpino dal medesimo stato maggiore alla Marconi (altra società Finmeccanica). E poi il generale Sandro Ferracuti e l’ammiraglio Marcello de Donno, rispettivamente dagli stati maggiori di Aeronautica e Marina ad Ams e Agusta (altre due società Finmeccanica, impegnate nella produzione di radar ed elicotteri). Molti degli impegni di spesa assunti da questa finanziaria con Finmeccanica risalgono all’epoca dei loro incarichi all’interno delle forze armate e, come sottolinea sempre Bonini: «portano anche le loro firme. Da generali, naturalmente».

Viene quindi da chiedersi se questo aumento delle spese militari non sia soprattutto un gran bel regalo a Finmeccanica, con la quale le forze armate italiane hanno rapporti a dir poco “osmotici”. Il che sarebbe non solo un gigantesco conflitto d’interessi, ma anche una seria minaccia nei confronti delle politiche di disarmo e pace previste nel programma dell’Unione.

mercoledì 13 dicembre 2006

OAXACA, MESSICO. DEMOCRAZIA DAL BASSO E REPRESSIONE.

A Oaxaca procede la sanguinosa repressione del movimento che richiede le dimissioni del governatore Ulises Ruiz. Con l’appoggio di Città del Messico. Ma da dove nasce questo movimento e perché anche il governo federale lo combatte con tanta durezza?


La morte di Bradley Will, giornalista americano di Indymedia ucciso da un poliziotto in borghese, ha acceso per un attimo i riflettori della stampa mondiale sulle vicende di Oaxaca in Messico. Vicende che si protraggono ormai da cinque mesi, ma che sono stato a lungo eclissate dalle controversie legate ai molto probabili brogli occorsi nelle elezioni presidenziali dello scorso 2 luglio – le quali hanno visto, per inciso, la riconferma del PAN, il partito di destra che governa il paese da 6 anni.

Lo stato di Oaxaca (di cui è capitale la città omonima) è il penultimo stato più a Sud della Confederazione messicana – appena prima del Chiapas – ed è anche uno dei più poveri dell’intera nazione. Oltre a ciò è la regione a più grande popolazione indigena del paese. Quasi due anni fà vi andò al potere come governatore, Ulises Ruiz Ortiz, del PRI - il partito che ha monoliticamente controllato la politica messicana per oltre settant’anni, prima dell’avvento del PAN nel 2000. Secondo la maggior parte degli oppositori e di molti osservatori internazionali, si trattò di un anticipazione, su scala locale, del “golpe elettorale” che sarebbe poi andato in scena, quest’estate, a livello nazionale. La notte delle elezioni tre sospettosissimi black-out sospesero lo scrutinio per ore. Qualche tempo dopo a Ampliación Santa Lucía (una quartiere periferico di Oaxaca) furono trovate migliaia di schede trafugate ed incenerite. Malgrado questo sospetto “peccato originario” sulla sua ascesa al ruolo di governatore – ruolo che in Messico, dato l’ordinamento fortemente federale del paese consente ampi margini di potere in svariati campi – Ruiz si è sempre negato ad ogni dialogo con le molte associazioni indigene e di base della società civile oaxaqueña, dedicandosi invece a una gestione privatistica delle cosa pubblica. Con appalti e commesse distribuiti a pioggia ad amici ed ad amici di amici, secondo la peggior tradizione clientelare e “caciquistica” del Messico. Per far tutto ciò, il neo-governatore non si è peraltro fatto molti scupoli a reprimere ogni genere di protesta, spesso sbattendo in carcere leader di movimenti sociali avversi alla sua politica. Per due anni il suo operato ha generato malcontento nella regione, senza tuttavia che questo si canalizzasse in uno scontro frontale.

A giugno però, uno sciopero dei maestri della regione, represso nel sangue dalle forze di polizia locali, ha fornito l’occasione propizia. Il motivo dello sciopero, indetto dalla SNTE (Sindicato Nacional de Trabajadores de la Educación) era eminentemente salariale – i maestri locali guadagnano poco più di 250 euro al mese e sono una delle categorie più deboli della società oaxaqueña; tuttavia la violenza della repressione ha riproposto la questione dell’illegittimità del ruolo ricoperto da Ruiz, oltrechè quello della sua gestione autoritaria e corrotta.
In poco tempo la protesta dei soli insegnanti si è trasformata in un movimento di massa. Centinaia di organizzazioni di base, sindacati e associazioni del tessuto sociale oaxaqueño si sono infatti confederati in una sigla, l’Appo (Asociación Popular de los Pueblos de Oaxaca) il cui primo obbiettivo sono le dimissioni del governatore. Quest’ultimo, ovviamente, ha risposto nella maniera più scontata e crudele possibile: attraverso repressione poliziesca, arresti arbitrari, utilizzo di sicari e paramilitari per uccisioni mirate. Alla fine di ottobre, rientrata nei ranghi la situazione a Città del Messico, dopo le proteste per i brogli, è giunta dalla capitale anche la famigerata PFP, la Policia Federal Preventiva. Secondo molti analisti, Fox, in procinto di lasciare la residenza de Los Pinos al compagno di partito Calderon, era tutt’altro che favorevole a chiudere con un bagno di sangue il proprio sestennato. Tuttavia nella delicata situazione istituzionale creatasi dopo l’elezione “fraudolenta” di luglio aveva bisogno, come tutto il PAN, dell’appoggio del vecchio PRI. E non poteva quindi esimersi da una difesa incondizionata di uno dei suoi più importanti governatori locali. L’arrivo della PFP – che forte di 4000 effettivi ha praticamente cinto d’assedio la città - ha generato come era prevedibile, una situazione di instabilità e violenza ancora più generalizzata, con continui scontri tra manifestanti e forze dell’ordine e brutali lesioni dei diritti umani da parte di quest’ultime. Il bilancio delle vittime dall’inizio del conflitto è già salito a venti – tra i quali, oltre a Bradley Will, alcuni maestri, un professore universitario e due ragazzi di dodici anni. Diverse organizzazioni non governative per i diritti umani (come Amnesty International Messico o il Centro de Derechos Humanos "Miguel Agustín Pro Juárez") denunciano la presenza di centinaia di persone detenute illegalmente (molte delle quali probabilmente sottoposte a tortura) oltrechè di decine di desaparecidos. Solo negli scontri dello scorso 25 novembre che hanno coinvolto gran parte delle vie del centro della città e portato alla “liberazione” da molti dei presidi e delle barricate erette dalla Appo, sono state arrestate 141 persone (di cui 35 donne) e altre 6 hanno perso la vita.

Ma è davvero solo l’eventuale destituzione di Ruiz il motivo di un tale dispiego di forze poliziesche, favorito addirittura da Città del Messico? La domanda è retorica. Ovviamente no. Ciò che probabilmente spaventa l’establishment priista locale e quello panista nazionale è il modello che l’Appo può rappresentare agli occhi di tutto il paese. Un modello di democrazia diretta, partecipata, basata sulla confederazione orizzontale delle forze della società civile, sull’assamblearismo – l’Appo ha più di mille delegati – e sul rifiuto di ogni imposizione calata dall’alto, soprattutto se da parte di una dirigenza corrotta e autoritaria come quella di Ulises Ruiz. Un modello che ricorda da vicino quello dei municipi autonomi zapatisti del Chiapas ed altre esperienze di democrazia partecipativa dell’America Meridionale. Un modello che, ovviamente, i poteri forti messicani vogliono scongiurare a tutti i costi.

domenica 10 dicembre 2006

“FIDUCIOSI” A SENSO UNICO

Dopo l’approvazione della finanziaria alla camera, il solito Schifani ha definito vergognoso l’utilizzo della fiducia da parte della maggioranza. E a ragione. Nulla infatti è più vergognoso che veder un governo aspettar tanto a metter la fiducia, provocando il parziale snaturamento di una manovra che aveva una sua qualche coerenza interna.

A Schifani ha fatto poi eco il sempre savio e moderato Casini parlando di «esproprio dell'aula» e dimostrando così un’indiscutibile conoscenza del voto di fiducia. Conoscenza che nasce, senz’ombra di dubbio, dall’esperienza diretta: quando erano al potere lui e i suoi amici, la fiducia fu posta addirittura 46 volte - perfino sulla legge anti-droga Fini-Giovanardi e sulla riforma universitaria.

Infine è giunta l’attesa chiosa berlusconiana: «Il ricorso al voto di fiducia sulla finanziaria è una cosa che non appartiene ai metodi di una vera democrazia». Niente male da parte di un veterano del voto di fiducia come lui. Ma alla luce delle accuse di brogli di Deaglio, che cos’è quest’ennesima uscita berlusconiana, un auto-confessione?


(Corsivo scritto per Vulcano, la rivista degli studenti dell’Università Statale di Milano).

martedì 5 dicembre 2006

SIAMO TUTTI POPULISTI

L’altra sera, in una trasmissione condotta dall'ex-direttore di un giornale che si definisce secessionista, ho visto una nota giornalista ex-comunista, ora sul libro-paga del giornale del Biscione più noto d’Italia, definire le inchieste di Report o quelle di Diario giornalismo “populista”. Mmm...Aveva sbagliato termine? Forse voleva dire popolare, civico, sociale, al servizio del cittadino? E allora perchè gli è uscito populista? Forse in quel momento pensava inconsciamente al suo datore di lavoro? Mah...Tutto questo mi ha spinto per associazione di idee dall’altra parte dell’Oceano, in Sudamerica, dove da qualche tempo sull’onda di grandi movimenti popolari, sono andati al potere governi che stanno attuando importantissime riforme. Riforme di svilluppo, redistribuzione, alfabetizzazione, partecipazione democratica, lotta alla fame, accesso alle cure sanitarie. Tutti – chi più chi meno (con sfumature diverse legate alla loro diversa caratura politica) – sono stati definiti “populisti”. A quel punto mi son venute mente le parole di uno dei più grandi religiosi del secolo scorso, Helder Camara. Il quale diceva: “Se do da mangiare ai poveri, mi chiamano Santo, se chiedo perchè hanno fame mi chiamano comunista”. Aggiornato alla caduta del Muro di Berlino, forse, il suo motto suonerebbe :“Se do da mangiare ai poveri mi chiamano santo, se chiedo perchè hanno fame mi chiamano populista”.

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