venerdì 9 febbraio 2007

LA CANDIDATURA DI RIGOBERTA MENCHÚ: UNA SPERANZA PER IL GUATEMALA E PER TUTTO IL CENTROAMERICA

La notizia è di quelle che sorprendono sin dalla prima lettura: Rigoberta Menchu si candiderà per le prossime elezioni presidenziali guatemalteche. Informandosi meglio si scopre purtroppo che la cosa non è ancora completamente ufficiale: Rigoberta non ha un vero partito che la sostenga e i movimenti politici che le hanno proposto una candidatura, le hanno in realtà offerto solo un posto di vicepresidente.
Ma qualcosa comunque si è mosso, e non è detto che da qui alla data delle elezioni non si possano trovare le condizioni più adatte ad una vera candidatura. In ogni caso si tratta di un segnale fortissimo per il paese centroamericano. Per capirne esattamente la portata bisogna ricordare cos’è il Guatemala attuale e quale è stata la sua storia negli ultimi cinquant’anni. Esiste infatti un solo modo per definire il Guatemala odierno: il paese dell’impunità. E della dimenticanza, dell’assenza di memoria, dell’omertà storica. Qualche esempio?

A che Stati pensate se si parla di desaparecidos? Facile: all’Argentina, al Cile, magari i più informati anche all’Uruguay. Eppure nel Cile di Pinochet i desaparecidos furono poco più di 3000, nell’Argentina di Videla 30000, mentre furono quasi 50000 nel Guatemala dei governi militari tra gli anni ’50 e ‘80. Se incrociate il dato con quello relativo alla popolazione dei vari paesi potrete capire ancora di più l’entità della tragedia.

Tra il 1954 e il 1986 in Guatemala si sono succeduti una serie ininterrotta di governi militari culminati nella sanguinaria dittatura del presidente Efrain Ríos Montt nei primi anni ’80. Il peccato originale è stato lo stesso di molti altri paesi latinoamericani: l’ascesa al potere negli anni ’50 di un paio di presidenti di sinistra (Juan Josè Arevalo e Jacobo Arbenz Guzmàn) che diedero il via ad una (timida) politica socialista mettendo a rischio i privilegi delle multinazionali nordamericane nel paese (la United Fruit in particolare). Nella logica della Dottrina della Sicurezza Nazionale e del feroce anticomunismo di quegli anni - e dell’altrettanto feroce imperialismo statunitense in Centroamerica - tutto ciò era inconcepibile. Gli Stati Uniti patrocinarono un colpo di stato che nel 1954 spazzò via l’effimera primavera democratica guatemalteca ed iniziò una serie ininterrotta di governi militari o pseudo-democratici che, nel corso degli anni, pianificarono l’eliminazione di ogni opposizione e il genocidio dei popoli indigeni del paese. Vale la pena ricordarne le cifre, visto che poche altre tragedie del ventesimo secolo hanno conosciuto un silenzio simile: oltre 200000 morti, 120000 sfollati in Messico, 400 villaggi maya cancellati dalle carte geografiche, oltre 1100 religiosi assassinati. Tutto ciò è passato sotto il nome di guerra civile, poichè data l’impossibilità di ogni dialettica politica nel paese, molti gruppi scelsero la lotta armata innescando un conflitto perso in partenza. Ma si trattò a tutti gli effetti di genocidio, di pulizia etnica ante-litteram, condotta con l’avallo e il supporto tecnico-militare del potente alleato nordamericano.

Dal 1996 il Guatemala è tornato ufficialmente ad essere una democrazia. Accordi di pace molto compromissori hanno sancito la fine di ogni ostilità e stabilito che il 95 % dei crimini contro l’umanità è avvenuto per responsabilità di esercito e paramilitari. Ad oggi, dieci anni dopo, praticamente nessuno dei “grandi mandanti” è stato condannato per i crimini del genocidio- la Spagna richiede da tempo l’estradizione di Rios Montt senza tuttavia ottenerne nulla.

Il vescovo Juan Gerardi, direttore della commissione d’investigazione sui i crimini del genocidio è stato barbaramente ucciso nel 1998, solo due giorni dopo la pubblicazione del suo rapporto, ed i colpevoli sono ancora impuniti. Il Guatemala di oggi è uno stato allo sbando che risputa fuori tutta la violenza che ha dovuto ingoiare in 40 anni di abominio: ogni anno nel paese si registrano intorno ai 6000 omicidi e il 98 % di essi rimane impunito. Il 15% della popolazione controlla oltre il 70% della ricchezza, e il 45% vive sotto la soglia di povertà (il 75% tra gli indigeni). La United Fruit (ora Chiquita) e le altre multinazionali americane continuano a controllare saldamente l’economia del paese e si avvantaggiano del Cafta (il trattato di libero commercio che il governo di centrodestra guatemalteco ha stipulato, insieme ad altri paesi dell’area, con gli Stati Uniti) in virtù del quale le corporations a stelle e striscie possono riempire il paese centroamericano di prodotti inutili sbaragliando ogni concorrenza in loco. Gli indigeni vengono ancora discriminati in tantissimi contesti della vita pubblica e il riconoscimento delle loro lingue avviene più de iure che de facto.

Rigoberta Menchù è il simbolo vivente della resistenza e dell’opposizione a tutto questo. Una sua elezione alla presidenza in Guatemala potrebbe significare molte cose. Potrebbe significare la fine (o più realisticamente l’inizio della fine) dell’impunità per più generazioni di massacratori centroamericani. (Quella impunità che, per inciso, è sancita anno per anno anche all’interno delle Nazioni Unite, attraverso il sabotaggio sistematico di ogni risoluzione di condanna del genocidio guatemalteco da parte degli Stati Uniti). Potrebbe significare l’avvio di una politica dei diritti umani simile a quella che paesi come l’Argentina (in primis) e l’Uruguay hanno intrapreso negli ultimi anni. Potrebbe significare anche la fine di cinque secoli d’inferiorità e sottomissione delle popolazioni indigene - in maniera similare a quanto sta avvenendo nella Bolivia di Evo Morales. Potrebbe significare soprattutto un ripensamento globale della politica economica del Guatemala e della sua decennale sottomissione agli interessi delle multinazionali straniere. Insomma potrebbe essere davvero un primo passo verso un Centroamerica non più “cortile di casa” degli Stati Uniti.

(Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari)

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