giovedì 31 gennaio 2008

BOLIVIA, VERSO LA STRATEGIA DELLA TENSIONE? - UN AGGIORNAMENTO

Un rapido e (ahimè) tardivo aggiornamento a un post di qualche tempo fa’, sulla inquietante, ancorché incruenta, successione di attentati che ha colpito la Bolivia negli ultimi mesi. Lo scorso 24 gennaio un ordigno è esploso – provocando ancora una volta, per fortuna, solo danni materiali – nella sede della Repac, la rappresentanza presidenziale per l’Assemblea Costituente, a La Paz, poco prima che Evo Morales si recasse in Parlamento per tenere un discorso di bilancio sui suoi primi due anni di governo.
L’obbiettivo scelto non poteva essere più simbolico: come a dire, con le buone o con le cattive questa Costituzione non “s’adda fare”. In ogni caso il prosequio dei negoziati tra prefetti e governo – malgrado l’intenzione del Comitè Civico di Santa Cruz di indire un incostituizionale referendum sullo statuto autonomico – fa sperare in una qualche forma di risoluzione, o perlomeno, di distensione della crisi.


Nel frattempo sempre nella capitale boliviana è stato condannato a ben trent’anni di carcere Tristan Jay Amero, il terrorista statunitense responsabile di due attentati in due hotel di La Paz nel marzo 2006, assieme alla compagnia e complice uruguaiana Alda Costa. Pare che il giovane americano prima di giungere in Bolivia avesse cambiato più volte documenti e identità, mantenendo il nome Lestat Claudius de Orleans y Montevideo, il vampiro protagonista di un racconto di Anne Rice. Gli attentati per i quali è stato condannato hanno causato due morti e una decina di vittime. Il legale dello stesso Amero ha lamentato presunte irregolarità nel processo. Qui e qui due link a brevi sulla notizia.

Ti piace questo post? Votalo su OkNotizie

mercoledì 30 gennaio 2008

COLOMBIA, IL PAESE DELL'ECCESSO E DELL'"INDIGNAZIONE A SENSO UNICO"

Diverse strane notizie arrivano in questi giorni dalla Colombia, mentre proseguono le schermaglie sul dopo rilascio degli ostaggi tra Chàvez e Uribe. Quest’ultimo, fresco protagonista di una tournee trionfale in Europa (dove ha incassato il no di Zapatero e Solanas alla rimozione dalla lista delle organizzazioni terroristiche delle Farc), ha appena ordinato una rischiosa manovra di accerchiamento militare delle zone nelle quali si troverebbe la maggiorparte degli ostaggi sequestrati dalla guerriglia. Manovra che non ha, ovviamente, trovato molto consenso tra i familiari degli stessi ostaggi.
Nel frattempo alla periferia di Bogotà è scoppiata una bomba vicino ad una caserma lasciando una decina di feriti ed un aereo, che avrebbe dovuto trasportare da Medellin a Bogotà Mancuso, il leader delle discioltesi e non discioltesi Autodefensas Unidas de Colombia (leggasi i paramilitari), per testimoniare in un processo nell’ambito dello scandalo della Parapolitica – lo scandalo che ha scoperchiato il pentolone dei molteplici intrecci tra politica, paramilitarismo e narcotraffico colombiano – non è decollato “per ragioni di sicurezza” – effettivamente con un personaggio di quel tipo a bordo di sicurezza non ce n’è mai abbastanza…

Ma la notizia più importante riguarda la denuncia-choc fatta lo scorso dicembre alla procura di Ocana (dipartimento del Norte de Santander) – riportata dalla puntuale rivista “Semana” –da parte di Alexander Rodriguez Sanchez, ex-sergente di stanza nella regione - 17 anni di carriera alle spalle. Sanchez racconta di aver assistito all’uccisione di svariati civili, tutti camuffati, una volta morti da guerriglieri delle Farc o dell’Eln. Una pratica che secondo lo stesso Sanchez sarebbe comune nell’esercito colombiano e che verrebbe premiata – quando le operazioni “vanno bene”, cioè comportano un certo saldo di vittime – con tanto di licenza di 5 giorni.
Il giudice incaricato di indagare sul caso, il generale Joaquin Cortes – questo genere di cause non varca i confini della giustizia militare (sic!) - si è subito premurato di dire ai microfoni di Caracol Tv , che il sergente Sanchez ha accumulato in passato mancanze disciplinari e debiti non rimborsati. Ma è un dato di fatto che la denuncia di Sanchez collima con quella di diverse Ong, che segnalano almeno 19 uccisioni di civili nella zona in cui opera la divisione (la 15esima Brigata Mobile) dell’ex-sergente e affermano che la macabra pratica non si limiterebbe solo alla regione del Norte de Santander. Notizie che rendono ancora più tangibili i retroscena inquietanti della “guerra al terrorismo”condotta dall’esercito colombiano, con l’ausilio di uomini e mezzi Usa.

Purtroppo la notizia non sembra aver avuto molto peso e difficilmente potrà aprire uno spiraglio di verità sui crimini commessi dall’esercito colombiano e dai gruppi paramilitari, fintamente smobilitati con La Ley de Justicia y Paz del 2006 e di fatto reintegrati nella società civile e regolarizzati. Nulla peraltro sembra smuovere la società colombiana e l’opinione pubblica internazionale (con molti distinguo ovviamente) da quell’”indignazione a senso unico” che colpisce sempre ed unicamente le Farc - complice il sequestro eccellente di Ingrid Betancourt - e tralascia invece le enormi violazioni dei diritti umani nell’altro campo. Se il fanatismo di alcuni apologeti dell’anacronistico movimento di guerriglia di Marulanda rasenta spesso il patetico, l’incuranza (che a volte sfocia nel negazionismo) sui crimini (para)governativi è funzionale ad una visione distorta del conflitto colombiano che non permette alcuna via d’uscita, proprio perché esclude il riconoscimento dei gruppi guerriglieri come parte belligerante, prima e fondamentale mossa per giungere ad accordi di pace.

Di quest’ultimo orientamento è probabilmente espressione la mobilitazione mondiale “Un milione di voci contro le Farc” (ovviamente non contro i paramilitari e Uribe), prevista per il 4 febbraio e veicolata dal network web Facebook, che si presta a più di un sospetto di strumentalizzazione e sulla cui misteriosa genesi fioriscono interpretazioni contrastanti – come spiega l’ottimo post riassuntivo del amico Doppiafila.

Insomma mentre lo scontro diplomatico tra le cancellerie colombiane e venezuelane si irrigidisce, tra alcune sparate inopportune di Chávez e soprattutto un ritorno di fiamma della politica intransigente e repressiva di Uribe – complice forse anche la recente visita nel paese andino di Condoleeza Rice, che deve probabilmente aver subordinato l’appoggio di Washington e la ratifica del Trattato di Libero commercio alla fine delle aperture di credito alla mediazione di Chàvez – la pace per la Colombia si allontana ancora.


p.s. “Colombia, il paese dell’eccesso”, richiamato nel titolo del post, è il titolo di un libro sul conflitto colombiano di Guido Piccoli.

Ti piace questo post? Votalo su OkNotizie

MI SONO ASSOLTO DA SOLO!

Oggi Silvio Berlusconi è stato assolto. Non perchè innocente, non per mancanza di prove. Ma semplicemente perchè il reato di cui era imputato (falso in bilancio) non costuisce più reato dopo una delle tante leggi ad personam approvate nel quinquennio di governo della Casa della Libertà.

Cantava Fabrizio De Andrè nel lontano 1973 in "Storia di un impiegato":

"una volta un giudice come me giudicò chi gli aveva dettato la legge: prima cambiarono il giudice e subito dopo la legge".

Ti piace questo post? Votalo su OkNotizie

domenica 27 gennaio 2008

27 GENNAIO - PERCHE' L'ORRORE NON TORNI MAI PIU'...


Prima vennero per i comunisti
E io non alzai la voce
Perché non ero un comunista.

Poi vennero per i socialdemocratici
E io non alzai la voce
Perché non ero un socialdemocratico.

Poi vennero per i sindacalisti
E io non alzai la voce
Perché non ero un sindacalista.

Poi vennero per i ebrei
E io non alzai la voce
Perché non ero un ebreo.

Poi vennero per me
E allora non era rimasto nessuno
Ad alzare la voce per me.

Pastore Martin Niemöller

sabato 26 gennaio 2008

CILE, OCCUPATA SEDE DELL'ORGANIZZAZIONE INTERNAZIONALE DEL LAVORO DI SANTIAGO IN SOLIDARIETA' A PATRICIA TRONCOSO

E’ stata occupata l’altro ieri a Santiago del Chile la sede dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, in solidarietà a Patricia Troncoso, donna mapuche in carcere in sciopero della fame da oltre cento giorni per protestare contro la sua ed altre condanne detentive, comminate ad attivisti mapuche sulla base di leggi anti-terrorismo risalenti ai tempi di Pinochet. Patricia e gli altri attivisti mapuche si battono per la smilitarizzazione del loro territorio e contro il continuo esproprio delle loro terre da parte di aziende e multinazionali straniere. Il Cile è ad oggi l’unico paese Sudamericano che non possieda nella sua costituzione alcun riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni presenti sul suo territorio.

Alcuni link utili in italiano per approfondire la questione:

Residui di dittatura di Stella Spinelli
Finalmente si parla di Patricia di Maurizio Campisi
Mapuche cilena allo stremo dopo 95 giorni di sciopero della fame di G. Carotenuto

Nella foto, uno striscione eloquente in una manifestazione in solidarietà a PatriciaTroncorso ad Iquique.

Ti piace questo post? Votalo su OkNotizie

giovedì 24 gennaio 2008

UNA BRECCIA NEL MURO DELL'INGIUSTIZIA GLOBALE

lunedì 21 gennaio 2008

LA SAGRA DEL FARISEO

A settembre a San Vito lo Capo c’è quella del Cous Cous, a Lariano quella del fungo porcino, ieri a Roma è andata in scena la Sagra del Fariseo. A dir la verità si tratta di una pietanza piuttosto indigesta, e decisamente poco genuina, ma a quanto pare in Italia va per la maggiore. Soprattutto tra le classi dirigenti.

Ti piace questo post? Votalo su OkNotizie

sabato 19 gennaio 2008

MESSICO, NUOVO ANNO TRA CENSURA E AUTORITARISMO

Tra palesi restrizioni della libertà d’informazione, lesioni ripetute dei diritti umani e leggi poliziesche, la deriva autoritaria del Messico di Calderón si fa sempre più preoccupante


Un nuovo gravissimo caso di censura arriva nei primi giorni del 2008 dal “nuovo” Messico delle frodi elettorali e delle polizie federali preventive di Felipe Calderón, confermando tutte le preoccupazioni sullo stato della libertà d’informazione del paese centroamericano.
La vittima è questa volta Carmen Aristegui, voce popolare della radio messicana e conduttrice del programma “Hoy por Hoy”, su W Radio, una delle emittenti di Televisa Radio, branca radiofonica del gruppo Televisa.
Nel corso della trasmissione dello scorso 4 gennaio, la Aristegui ha annunciato che, dopo 5 anni di lavoro, il gruppo ha deciso di non rinnovarle il contratto per il nuovo anno, per una non meglio precisata “incompatibilità editoriale”.
La Aristegui era (ed è) una voce libera (e scomoda) all’interno del sempre più asfittico e controllato panorama radiotelevisivo messicano. Nelle sue trasmissioni aveva affrontato tutti i temi più scottanti dell’attualità messicana degli ultimi anni (facilmente rimossi altrove): dai brogli elettorali alle ultime elezioni alla sistematica violazione dei diritti umani durante i fatti di Oaxaca, dalle denunce contro il cardinal Rivera per aver coperto dei sacerdoti accusati di pedofilia al caso Lydia Cacho (la giornalista arrestata arbitrariamente per aver denunciato una rete di sfruttamento di minori in cui erano coinvolti personaggi importanti) ed ancora le conseguenze della cosidetta “Ley Televisa”, la legge che ha favorito la concentrazione in pochissime mani dei mezzi d’informazione messicani. Proprio le prese di posizione della giornalista rispetto alle questioni attinenti il mondo dell’informazione sono state probabilmente il casus belli del suo licenziamento. In settembre infatti il parlamento messicano – pur tra mille ostacoli – ha approvato una riforma che priva i mezzi radiotelevisivi dalle entrate miliardarie provenienti dai contratti di propaganda politica durante le tornate elettorali – questione non peregrina, se, come pare, durante la campagna elettorale del 2006, furono trasmessi ottantamila spot al giorno a favore di Felipe Calderón. La Aristegui si era più volte dissociata da molti colleghi che criticavano la riforma, con lo spauracchio della perdita di risorse da parte delle emittenti radiotelevisive .Di qui probabilmente la sua cacciata
La questione non è tuttavia solo “messicana”. Televisa Radio è infatti in mano al 50% al gruppo spagnolo Prisa, gruppo editoriale che vanta in Europa una fama progressista per via della proprietà del giornale “El pais”, ma che si dimostra editore tutt’altro che indipendente o liberale dall’altro lato dell’Atlantico (dove ha interessi amplissimi dal Messico alla Bolivia, passando per Colombia e Cile). Secondo il presidente dell’Associazione messicana per il Diritto all’Informazione (AMEDI), l’ex-senatore Javier Corral Jurado (che certo non può essere accusato di faziosità essendo stato nella legislatura precedente senatore per il partito di governo del PAN) i dirigenti del gruppo editoriale spagnolo si sono dimostrati “miserabili e codardi come il peggiore degli impresari messicani […] hanno sacrificato la Aristegui perché i suoi contenuti editoriali scomodavano il potere di fatto. Questo conferma il carattere autoritario della struttura mediatica nel paese e nel mondo, alla quale non interessano nè gli operatori della comunicazione né il loro pubblico”.

La scelta illiberale del Gruppo Prisa s’iscrive infatti in una situazione di restrizione della libertà di stampa e di controllo dei media che rappresenta uno degli elementi più preoccupanti dell’involuzione autoritaria in atto da parte governo Calderón. Solo nel 2007 sono stati almeno 3 i giornalisti e operatori dell’informazione uccisi in Messico, mentre altri 84 hanno denunciato attacchi, intimidazioni e minacce. Se il paese centroamericano non ha ripetuto il funereo record dell’anno scorso (9 giornalisti ammazzati e 3 desaparecidos, seconda nazione più pericolosa in assoluto per gli operatori dell’informazione dopo l’Iraq), tuttavia il Messico continua a essere lo stato dell’America Latina in cui informare risulta più rischioso e difficile – insieme alla Colombia dei paramilitari e della guerra civile. E non solo per i giornalisti che mettono il naso negli affari dei narcos.
A destare particolarmente preoccupazione è la concentrazione dei media elettronici e radiotelevisivi in pochissime mani – sulla carta stampata esiste, fortunatamente, un po’ più di pluralismo. La cosiddetta “ley Televisa”, approvata in fretta e furia negli ultimi mesi della presidenza Fox, nell’aprile 2006, ha consegnato a costo zero, il novanta per cento delle frequenze al duopolio formato da Televisa e Tv Azteca, entrambe legate più o meno direttamente all’oficialismo del PAN - allo stato attuale 9 spettatori su 10 guardano i canali di Televisa e Tv Azteca, le quali controllano peraltro le principali emittenti radiofoniche del paese. Il tutto con un consenso più o meno unanime, dato che anche la maggioranza dei rappresentanti del PRD ha votato a suo tempo la “Ley Televisa”.

E parte del PRD è coinvolta anche in un’altra delle manovre (tra le più contestate degli ultimi tempi), che fanno gridare all’allarme democratico in Messico. Lo scorso dicembre dapprima la Camera e poi il Senato messicano (quest’ultimo con un paio di modifiche di poco conto) hanno approvato una riforma del sistema giudiziario che permette la perquisizione di abitazioni e l’arresto senza mandato, le intercettazioni e il fermo fino a 40 giorni di qualunque persona considerata sospetta. PAN e PRI hanno incassato i voti favorevoli di diversi esponenti del PRD per via dello stralcio all’ultimo momento di una norma che equiparava di fatto le mobilitazioni sociali al crimine organizzato. La riforma dovrà essere nuovamente ratificata dalla Camera in febbraio e non è ancora quindi definitiva – anche se difficilmente ci si potrà aspettare nuove modifiche - ma si tratta, secondo molti analisti e rappresentanti della sinistra messicana, di un’ulteriore passo verso l’instaurazione di un vero e proprio stato di polizia.

Il 2007 consegna peraltro un bilancio ben più che inquietante quanto alla situazione dei diritti umani in Messico. Come ha scritto Victor Ballinas su “La Jornada” dello scorso 27 dicembre, l’anno appena conclusosi può davvero essere archiviato come l’“año negro para los defensores de derechos humanos”: nel corso degli ultimi dodici mesi le aggressioni e le intimidazioni nei confronti degli attivisti per i diritti umani nel paese centroamericano sono continuate senza sosta e ad un ritmo impressionante. Anche organizzazioni celebri come il Ciepac (Centro di indagine economica e politiche di azione comunitaria) di San Cristobal de Las Casas o il Centro per i Diritti umani Fray Bartolomè de las Casas sono stati oggetto di gravi intimidazioni. Durante la sua visita in Messico, lo scorso aprile, Florentín Melèndez, presidente del CIDH (la Commissione Interamericana per i diritti umani) aveva sottolineato l’”allarmante indice d’impunità nei confronti dei difensori delle garanzie individuali” nel paese, accogliendo le denunce di molte organizzazioni per i diritti umani. Ciò nonostante la situazione nei mesi successivi non è affatto migliorata, ma anzi ha mostrato piuttosto un’ intensificazione dei casi di aggressione, intimidazione e in un paio di casi anche desapareción di attivisti, che ha fatto parlare a molti di un ritorno alla guerra sucia degli anni ’70.

Lo scorso ottobre il vescovo emerito di San Cristobal de las Casas, Samuel Ruiz (direttore dello stesso Centro Fray Bartolomè de las Casas) ha letto un comunicato sottoscritto dalla Red por la Paz (una rete che unisce 17 organizzazioni per i diritti umani) dai toni duri e inequivoci sui rischi di una deriva relativamente al rispetto dei diritti umani nello stato del Chiapas. Secondo Ruiz e la Red por la Paz durante il primo anno di governo di Calderón (e del governatore dello stato chiapaneco Sabines) i territori indigeni hanno subito una vera e propria offensiva, diretto risultato di “una strategia repressiva” che “implica azioni concordate tra i circa 80 accampamenti militari permanenti, le autorità locali, le istituzioni agrarie e i gruppi segnalati come paramilitari che si nascondono dietro le sigle d’organizzazioni contadine”. Una situazione molto grave, testimoniata da almeno dieci provati casi di minacce, sgomberi ed aggressioni. Una situazione che peraltro - sempre secondo la Red por la Paz - si inscrive in un più ampio “contesto nazionale, nel quale si è dispiegata un’ampia militarizzazione e una tendenza alla repressione di fronte ai processi organizzativi della società civile”

Se l’anno appena conclusosi non ha infatti visto la lunga scia di sangue che ha attraversato nell’anno precedente il paese (da Atenco a Oaxaca, passando per il Michoacán), tuttavia la politica della “mano dura” con la quale Calderón è andato al potere nel 2006 non sembra aver subito nessuna correzione di rotta. Questo malgrado i dati ufficiali riguardo la lotta alla criminalità – punto su cui il presidente del PAN aveva puntato tutto – non paiano mostrare alcun significativo miglioramento – nel corso degli ultimi dodici mesi si sono verificati infatti quasi 3000 omicidi. L’impressione – confermata dalle frequenti risposte repressive in diversi stati della confederazione (a partire da Oaxaca) in occasione di proteste e mobilitazioni – è quindi che il governo Calderón punti soprattutto a utilizzare la cosiddetta “mano dura” nei confronti dei movimenti, in un periodo in cui l’effervescenza sociale rischia di essere massima. Dalle ricadute dell’ampliamento del TLCAN, il trattato di Libero Commercio con Usa e Canada (con la completa liberalizzazione di prodotti agricoli come mais e fagioli) all’incremento stratosferico dei prezzi della tortilla dovuto alla “febbre dell’etanolo”, tutto sembra infatti concorrere ad un accrescimento delle tensioni sociali nel paese. E la risposta del governo centrale di fronte a tutto questo pare non essere altro che l’accentuazione di una linea autoritaria che, mentre allontana irreparabilmente il Messico dalla primavera democratica di molti altri paesi del Sudamerica, lo fa assomigliare, giorno dopo giorno, sempre più alla Russia di Putin.

Ti piace questo post? Votalo su OkNotizie

mercoledì 16 gennaio 2008

LEZIONI DI DEMOCRAZIA


In una "zerbinosissima" intervista al "generalissimo" Mons. Bagnasco, andata in onda questa sera sul sempre libero ed indipendente - come da ferrea e riottesca tradizione anglosassone - Tg1, l'attuale presidente della Cei ha parlato di atto "anti-democratico" rispetto alle annunciate contestazioni contro la visita di Ratzinger all'università la Sapienza, che hanno causato, come noto, la rinuncia del pontefice ad inaugurare l'anno accademico dell'ateneo romano.

Si può ovviamente discutere a lungo sull'opportunità o meno delle contestazioni. Quello che però è sicuramente fuori discussione è che il Vaticano (nella persona di Ratzinger, Ruini, Bagnasco, Bertone o chi per loro), unico paese non democratico dell'intera Europa, possa dare lezioni di democrazia a chicchessia.

Ti piace questo post? Votalo su OkNotizie



BANANA REPUBLIC


sabato 12 gennaio 2008

PICCOLA NOTAZIONE SULL'IMMORALITA' DEI MEDIA ITALIANI


Piccola notazione sull’immoralità dei media italiani. Ieri il presidente della Camera Bertinotti, in visita in Sudamerica, ha visitato un pueblo joven di Lima, Huaycan. Per chi non li conoscesse,i pueblos jovenes sono le estreme periferie di Lima, aggregati urbani eufemisticamente chiamati “villaggi giovani”, formati da migliaia di baracche ammassate nella sabbia, spesso senza acqua, luce, strutture sanitarie e servizi di base.


Al di là delle diverse opinioni che si possono avere sul personaggio, credo che sia una cosa di cui andare orgogliosi il fatto che la terza carica del nostro paese abbia visitato un progetto di cooperazione italiana nel pueblo joven di Huaycan (similmente a quanto aveva fatto qualche giorno fa ad El Alto, in Bolivia), dimostrando così, durante questo suo viaggio ufficiale in Sudamerica, interesse non soltanto per le cancelliere, ma anche per la società civile in tutte le sue articolazioni.

Ma tutto questo ovviamente ai nostri media non interessa. Povertà ed esclusione sociale e, dall’altro lato, cooperazione e aiuti allo sviluppo sono temi che non bucano lo schermo. Ma a questo siamo abituati.

C’è una cosa però che - pur con tutta la buona volontà - non riesco davvero a sopportare. E’ questo infame braccare i personaggi italiani in visita nei paesi stranieri (per giunta nel sud del mondo) per chiedergli egoisticamente pareri inutili su italianissime questioni, mostrando così un insultante eurocentrismo e un disinteresse totale per le faccende al di fuori del nostro spicchio di mondo, frutto di un persistente e larvato colonialismo mentale.

Guardate quest’articolo. Porta in calce l’indicazione geografica Huaycan, ma poi non spreca una riga, dico una riga (!) per far sapere al lettore che razza di posto sia Huaycan e cosa Bertinotti ci sia andato a fare. Dall’articolo sembra che Bertinotti sia andato a visitare un pueblo joven solo per rilasciare dichiarazioni su questioni sindacali italiane! E’ morale secondo voi un giornalismo così? E’ morale braccare una persona in una baraccopoli del Sud del mondo, fottendosene allegramente del suo stato di baraccopoli, per far sapere al pubblico italiano delle trascurabili dichiarazioni su questioni che con quella baraccopoli non hanno assolutamente niente a che vedere?

Guardate la foto in alto e datevi una risposta. E, se vi viene voglia, spegnete la televisione.

Ti piace questo post? Votalo su OkNotizie

IL PAPA DELLE SMENTITE

E così ieri in giornata è arrivata anche la smentita dell’ultima uscita di Papa Ratzinger. Come fa notare Padellaro sull’Unità, per qualche insondabile miracolo della fede Roma nel giro di una notte è passata da capitale del degrado a città “bella e accogliente”.


Ricapitoliamo: in principio fu la retromarcia su Ratisbona e Michele Paleologo, poi venne la boutade sul cattolicesimo mai imposto con la forza nelle Americhe (con affettuosa censura dei nostri media e nuova prevedibile palinodia), infine la sparata sul degrado romano – del quale sicuramente Papa Ratzinger è un fine conoscitore, dal momento che, come tutti sanno, passa la sue giornate girando per le borgate ed informandosi in prima persona dei loro problemi … Insomma Ratzinger dovunque va, fa danno. Qualunque cosa dice è fuori luogo.

Ma di che stupirsi? Ratzinger pensa e ragiona con un armamentario teologico, sociale e religioso fermo a cinquant’anni fa e largamente preconcilare. Ma negli ultimi cinquant’anni l’opinione pubblica mondiale (anche cattolica) è largamente maturata e - malgrado la devastante controriforma in atto da un trentennio nella Chiesa cattolica – ha recepito e fatto sue le innovazioni del Concilio Vaticano II. In quest’ottica è ovvio che qualunque dichiarazione di Ratzinger non possa che apparire distonica, fuori luogo e desueta.

Ti piace questo post? Votalo su OkNotizie

venerdì 11 gennaio 2008

LA VITTORIA DELL'INTEGRAZIONISMO LATINOAMERICANO

Alla fine contro le previsioni di molte interessate cassandre e nonostante la miopia politica della “banda di imbecilli” delle Farc e il doppio gioco di Uribe (che ha portato avanti inizialmente azioni militari nella zona destinata al rilascio dei prigionieri) l’Operazione Emmanuel-senza-Emmanuel si è risolta nel modo migliore e cioè con la liberazione incondizionata delle due prigioniere Clara Rojas e Consuelo Gonzáles de Perdomo.


L’evento è epocale. Non si tratta soltanto di una grande vittoria personale di Chàvez (e di una sconfitta di Uribe) ma anche di una vittoria dell’integrazionismo sudamericano, del quale lo stesso Chàvez è stato sin qui il principale fautore – e questo dovrebbe aver il coraggio di riconoscerlo anche chi, legittimamente, dissente dalle scelte politiche del presidente venezuelano.
Mai nella storia dell’America Latina si era infatti visto uno spiegamento unitario della diplomazia di così tanti paesi (ben sei: Venezuela, Argentina, Ecuador, Bolivia, Cuba e Brasile), senza l’interferenza di Washington.

La liberazione di Clara e Consuelo è anche e soprattutto questo: la dimostrazione che l’America Latina può farcela da sola se prosegue nella sua crescente unità, lontano dall’unilateralismo delle antiche “relazioni carnali” con gli Stati Uniti, in viaggio sempre più verso un’integrazione che non sia solo economica e commerciale (o monetaria), ma anche fortunatamente politica. Un’integrazione che può così significare anche soluzione politica condivisa dei conflitti, affermazione dei diritti umani, rafforzamento della sovranità dei singoli paesi e realizzazione piena di quella “segunda independencia” che il subcontinente ricerca da due secoli e che solo ora comincia a vedere vicina.

Naturalmente si può relativizzare questo successo, disconoscerne la portata storica o addirittura con il solito paternalismo “primomondista” attribuirne– come ha fatto quest’oggi il Tg1 – il successo a Sarkosy (sic!). Ma le cose stanno cambiando e – come diceva qualcuno tanto tempo fa – non serve un metereologo per capire dove soffia il vento.

Ti piace questo post? Votalo su OkNotizie

domenica 6 gennaio 2008

¡NO AL TLC!

Un momento dalle proteste contro l'estensione ai prodotti agricoli (mais e fagioli) del Trattado di Libero commercio tra Stati Uniti, Canada e Messico.

venerdì 4 gennaio 2008

CHÁVEZ, GLI OSTAGGI COLOMBIANI E L'INTERESSE PELOSO DEI MEDIA ALLE CAUSE DEL FALLIMENTO DEL PIANO EMMANUEL

Alla fine la verità è venuta galla, al di là delle molteplici fandonie governative spacciate dalla propaganda uribista. Il piano Emmanuel non è fallito per una sua intrinseca debolezza, ma a causa di operazioni dell’esercito colombiano nella zona di Villavicencio, dove avrebbe dovuto avvenire il rilascio degli ostaggi.
A testimoniarlo non è solo la lettera rivolta dalle Farc al presidente venezuelano Chàvez, ma anche fonti dell’esercito colombiano, il quale ammette in due diversi comunicati (datati 26 e 31 dicembre) di aver svolto operazioni nella zona in cui avrebbero dovuto aver luogo la consegna degli ostaggi.


Nel frattempo a causa del ritardo e della mancanza di informazioni precise, la stampa internazionale e i media mainstream si sono lanciati come api sul polline in analisi ed opinioni di vario genere e dubbissimo acume, pressoché tutte volte a ridicolizzare Chàvez e il suo piano. C’è perfino chi ha parlato di duro colpo per la sinistra sudamericana e per il socialismo del XXI secolo.

Tutte opinioni rigorosamente non suffragate da dati certi o (peggio ancora) basate sulle veline del regime uribista – l’ultima delle quali (quella sulla presunta presenza sotto falso nome del piccolo Emmanuel in un collegio di Bogotà), quandanche fosse vera, pare essere stata gettata apposta nella mischia solo ora con il preciso scopo di deviare l’attenzione dei media dai reali motivi del fallimento dell’operazione. Scopo, manco a dirlo, centrato in pieno – pressoché nessun organo di stampa “mainstream” riporta infatti la notizia dei due comunicati.

Quale scenario possa aprirsi ora è difficile dirlo, dato che la situazione muta di ora in ora, in quella complessa partita a scacchi che è il conflitto colombiano. In ogni caso non aspettatevi alcun mea culpa, palinodia o rettifica da parte della stampa mainstream: sparita la possibilità di parlare male di Chàvez, scomparirà anche il pelosissimo interesse dei media per per le cause del fallimento del piano Emmanuel.

Ti piace questo post? Votalo su OkNotizie

mercoledì 2 gennaio 2008

PERU': ALAN GARCIA DIFENDE BERMUDEZ PER DIFENDERE SE STESSO

Com’era ipotizzabile parte del Perù non ha preso molto bene la richiesta di estradizione italiana dell’ex presidente Morales Bermudez, accusato di partecipazione al Piano Condor durante gli anni della sua presidenza (1975-1980). Un sentimento che ha trovato, manco a dirlo, come interprete privilegiato il presidente Alan Garcia che ha considerato ingiuste le imputazioni rivolte all’ex-presidente e offensive nei confronti del Perù, che, a suo dire, sarebbe (e sarebbe stato all’epoca) “uno stato di diritto”. Dopo l’ambiguità e l’equidistanza nei confronti del processo Fujimori ecco la difesa (non tanto d’ufficio) verso il predecessore (golpista) Bermudez.
Relativamente a questa ennesima uscita dell’ondivago presidente peruviano si impongono almeno un paio di considerazioni.


La prima: il Perù ha partecipato, illo tempore, in maniera molto relativa al Piano Condor, ma era pur sempre una dittatura (per quanto meno sanguinaria di quelle dei paesi confinanti) e tutto fuorchè uno stato di diritto. In ogni caso la sua pur esigua partecipazione all’internazionale del terrore anni ’70 è provata da almeno un caso di azione congiunta dell' intelligence peruviana con quella argentina, nel 1980, per la cattura di alcuni montoneros riparatisi in Perù ed è testimoniata perfino da alcuni documenti declassificati della Cia e quindi difficilmente smentibile.

La seconda: è ovvio che Alan Garcia non difende Morales Bermudez per patriottismo, né per senso dello stato e neppure per particolare piaggeria nei confronti del predecessore. Difendendo Morales Bermudez, il cinquattottenne mandatario peruviano difende soprattutto se stesso e parafrasando le sue parole viene da dire che la sua vera convinzione sia non che il Perù è uno stato diritto, ma che – purtroppo per lui - il Perù stia diventando uno stato di diritto. Il che significa che presto e tardi anche le gravissime lesioni dei diritti umani avvenute durante il suo primo mandato (vedi repressioni nei carceri di santa Barbara, Lurigancho e El Fronton e guerra sporca contro Sendero nella zona di Ayacucho) potrebbero finalmente uscire dal cono d’ombra della storia e finire nel mirino delle autorità giudiziarie.
Dopo Fujimori in patria e Brumudez qui da noi, potrebbe prima o poi arrivare anche il turno di Alan Garcia, malgrado il processo già scampato in passato.
Un’eventualità che il più craxiano dei presidenti sudamericani vuole evitare a tutti i costi e rispetto alla quale, un rinvio a guidizio di Morales Bermudez potrebbe essere un precedente molto significativo.

A questo proposito appare significativa dell’umore di un certa parte dell’opinione pubblica peruviana, ormai insofferente nei confronti della piega presa dall’amministrazione in carica – che tra l’altro ha rafforzato nel recente rimpasto la presenza filo-fujimoriana in seno al governo - la vignetta comparsa qualche giorno fa su Republica, il principale quotidiano di centro-sinistra del paese, che ritrae il presidente nel ruolo di avvocato di Fujimori (ed implicitamente di sé stesso) durante il processo attualmente in corso a Lima.

Ti piace questo post? Votalo su OkNotizie

martedì 1 gennaio 2008

BOLIVIA: VERSO LA STRATEGIA DELLA TENSIONE?

Anche se non ha causato nessuna vittima, l’attentato che, esattamente una settimana fa, il 24 dicembre, ha devastato la sede centrale della Cob (la Confederacion obrera boliviana) a La Paz è un segnale molto più che preoccupante. Tanto più se si considera che avrebbe potuto tranquillamente avere un esito molto più tragico. L’esplosione è avvenuta infatti vicinissimo alla camera da letto del dirigente sindacale Pedro Montes (che vive nella stessa sede della Cob), che ha quindi rischiato di rimanere colpito dall’esplosione.


“La ola de atentatodos llega a La Paz” titolava la Razon, il principale quotidiano boliviano, l’indomani, la mattina di Natale.
Lungi dall’essere un caso isolato, l’attacco terroristico si inscrive infatti in una lunga ed inquietante serie di episodi, che pongono una serie ipoteca sulla democraticità e la pacificità del confronto in atto nel paese tra “oficialismo” ed autoproclamatisi autonomisti della medialuna.

La “miccia” viene innescata per la prima volta lo scorso luglio: una bomba casalinga viene lanciata da una jeep all’indirizzo della casa del costituente del Mas Saul Avalos. Poi il 22 ottobre è la volta di due ordigni che esplodono a Santa Cruz, rispettivamente presso la residenza di alcuni medici cubani impegnati in uno dei vari progetti di cooperazione tra l’isola caraibica e il paese andino e all’ambasciata venezuelana. Tutto lascia pensare a un avvertimento contro Evo Morales e la sua politica estera nel seno dell’Alba (l’Alternativa bolivariana para las americas che vede affianco alla Bolivia, il Venezuela di Chávez, Cuba e il Nicaragua di Daniel Ortega).

Ma la “strategia della tensione” cresce di livello nel mese di dicembre dopo l’approvazione della costituzione nel Liceo Militar di Sucre e in mezzo alle scorrerie della UJC e di gruppi parafascisti vari in giro per il paese (con l’obbiettivo di sollecitare la cittadinanza boliviana, con le buone o con le cattive, ad aderire agli scioperi convocati dai prefetti della Media luna).
Il 10 dicembre infatti vengono lanciate granate contro la casa dell’esponente del Mas Osvaldo Paredo: la figlia undicenne ne esce miracolosamente illesa. Il 15 è poi la volta di un attentato al sesto piano della Corte di giustizia di Santa Cruz. Infine a ridosso del Natale – malgrado la tregua invocata da Evo Morales – si registrano altri tre attentati relativamente all’Hotel “Casa blanca” di Santa Cruz (tre giorni dopo che vi avesse soggiornato lo stesso Evo Morales), all’abitazione del masista Carlos Romero e infine – come detto – alla sede della Cob di La Paz.
Attentati pressoché tutti incruenti, ma che paiono far parte, data la loro somiglianza e la loro progressione, di un’unica strategia e che molti sospettano essere riconducibili alla gia citata UJC (Union juvenil cruceñista), formazione neofascista, che rappresenta in qualche modo grupo de choque (cioè il braccio militante e – verrebbe da dire - armato) del Comitè civico di Santa Cruz, vero motore delle rivendicazioni filo-separatiste dell’ Oriente del paese

Tuttavia in molti sui media mainstream boliviani e non solo attribuiscono l’escalation ”terroristica” al clima avvelenato che si respira nel paese, che vede da una parte il tentativo del Mas di portare a termine il disegno costituzionale con una ampia vittoria al prossimo referendum e dall’altra la violenta opposizione dei dipartimenti orientali, che dallo scorso 15 dicembre si sono proclamati unilateralmente autonomi.
In questa ottica andrebbero attribuiti a questo clima avvelenato anche i più rari episodi di violenza ascrivibili a frange estremiste di sostenitori del Mas, cosi come l’attentato dello scorso agosto ai danni della sede dello stesso Comite civico di Santa Cruz . Episodi che tuttavia per la loro maggior sporadicità e minor virulenza, difficilmente possono suscitare il sospetto di una regia o di una strategia precisa come quelli ai danni di obbiettivi “governativi”.

La sfida per la vittoria referendaria è appena cominciata e non è ancora possibile dare giudizi definitivi sulla “ola de atentados” ed esprimersi definitivamente sul loro probabile inquadramento in una precisa strategia.
Allo stato attuale è difficile pensare ad una strategia realmente eversiva e golpista da parte dell’opposizione autonomista. La situazione complessiva del Sudamerica (mai come ora spostato a sinistra) ed in particolare l’alleanza del paese andino con il Venezuela di Chàvez (che ha più volte minacciato di “vietnamizzare” la Bolivia in caso di rovesciamento violento del governo di Morales), rende improbabile qualunque tentazione golpista “classica” – che pure deve aver fatto capolino nei pensieri dell’opposizione in passato. La stessa strategia autonomista è con buona probabilità da leggersi come un ripiego rispetto ai piani eversivi e golpisti convenzionali. Ma è proprio in quest’ottica che prende consistenza l'ipotesi di una strategia dietro agli attentati, volta non a sovvertire direttamente il governo boliviano, quanto a destabilizzarlo e alla lunga ad alterare il cammino verso il referendum e i risultati di quest’ultimo.

I prossimi mesi serviranno a capire la tenuta tanto del governo del Mas che della fragile democrazia boliviana. Così come le reali possibilità di cambiamento di un paese ancora vittima degli interessi di piccole oligarchie che non accettano – al di là di qualunque retorica sulla natura centripeta o centrifuga del futuro stato boliviano – la nazionalizzazione delle risorse energetiche e la radicale riforma agraria promosse dal governo di Evo Morales. Perché è inutile nasconderselo, dietro all’accelerazione subita dalle spinte separatiste nelle ultime settimane c’è il tentativo forsennato di un pugno di latifondisti di sfuggire agli effetti del famoso articolo 398 della costituzione, quello che prevede un limite – la cui entità (5000 o 10000 ettari) sarà decisa da un’ apposito referendum - alla concentrazione delle terre.

Ti piace questo post? Votalo su OkNotizie


Ricerca Google

Google