giovedì 28 febbraio 2008

L'ITALIA E' UN PAESE DEMOCRATICO

Credo di non aver mai fatto copia e incolla su questo spazio di articoli altrui. Per questa volta farò un'eccezione. L'articolo di Massimo Calandri, eccellente giornalista della Repubblica di Genova infatti riporta per filo e per segno quanto denunciato dai pm Vittorio Rinieri Miniati e Patrizia Petruzzello nel corso del processo contro le violenze nella caserma di Bolzaneto, nei giorni seguiti al G8 genovese del luglio 2001. Racconti che lasciano allibiti e di fronte ai quali qualunque commento è superfluo.


"Umiliazioni, pestaggi, sputi: ecco l'inferno della Bolzaneto"

di Massimo Calandri


Qualcuno dovrà pure spiegare l'odio e la violenza, la barbarie, la crudeltà gratuita. L'accanimento. Gli insulti, le umiliazioni, le botte. I capelli tagliati a colpi di forbice, gli sputi, i volti marchiati, le dita spezzate. Qualcuno dovrà spiegare, ed assumersene le responsabilità.
Nella seconda udienza dedicata alla requisitoria del processo per le violenze e i soprusi nella caserma di Bolzaneto, i pubblici ministeri si sono concentrati sull'attendibilità dei testi. Spiegando che non furono solo le 209 vittime a raccontare nei dettagli l'orrore di quei tre giorni, ma che gli stessi imputati generali, funzionari di polizia, ufficiali dell'Arma, guardie carcerarie, poliziotti, carabinieri, medici hanno più o meno direttamente confermato quegli sconcertanti resoconti.

Vale allora la pena di riportare alla lettera una parte dell'intervento di Vittorio Ranieri Miniati, a nome anche dell'altro pm, Patrizia Petruzziello. Un breve elenco... di fatti specifici accaduti nel "carcere del G8". Una esemplare tessera del mosaico. Miniati cita ad esempio "le battute offensive e minacciose con riferimento alla morte di Carlo Giuliani o di alcuni motivi parafrasati a scopo di scherno". "Per la giornata di venerdì, in particolare: il malore di Angelo Rossomando e quello di Karl Schreiter. Il taglio di capelli di Taline Ender e Saida Teresa Magana. Il capo spinto verso la tazza del water a Ester Percivati. Lo strappo della mano di Giuseppe Azzolina. le ustioni con sigaretta sul dorso del piede a Carlos manuel Otero Balado, percosso tra l'altro sui genitali con un grosso salame. Le percosse con lo stesso grosso salame sul collo di Pedro Chicarro Sanchez".
"Per la giornata di sabato, in particolare: il malore di Katia Leone per lo spruzzo in cella di spray urticante. Il malore di Panagiotis Sideriatis, cui verrà riscontrata la rottura della milza. Il pestaggio di Mohammed Tabbach, persona con arto artificiale. Gli insulti a Massimiliano Amodio, per la sua bassa statura. Gli insulti razzisti a Francisco Alberto Anerdi per il colore della sua pelle. Le modalità vessatorie della traduzione di David Morozzi e Carlo Cuccomarino, che vengono legati insieme e le cui teste vengono fatte sbattere l'una contro l'altra".
"Per la domenica, in particolare: il malore di Stefan Brauer in seguito allo spruzzo di spray urticanti, lasciato con un camice verde da sala operatoria al freddo. Il malore di Fabian Haldimann, che sviene in cella ove è costretto nella posizione vessatoria. L'etichettatura sulla guancia, a mo' di marchio, per i ragazzi arrestati alla Diaz nel piazzale al momento dell'arrivo a Bolzaneto. La sofferenza di Anna Julia Kutschkau che a causa della rottura dei denti e della frattura della mascella non è neppure in grado di deglutire. Il disagio di Jens Herrrmann, che nella scuola Diaz per il terrore non è riuscito a trattenere le sue deiezioni e al quale non è consentito di lavarsi. La particolare foggia del cappellino imposto a Thorsten Meyer Hinrrichs: un cappellino rosso con la falce ed un pene al posto del martello, con cui è costretto a girare nel piazzale senza poterlo togliere".

Per chi lo avesse dimenticato, i responsabili di questi episodi sono uomini dello Stato. Quello che ci dovrebbero proteggere dai criminali.

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sabato 23 febbraio 2008

PERU', TLC E PALLOTTOLE

Quando lo scorso 4 dicembre il Senato americano approvò definitivamente il Trattato di Libero Commercio con il Perù di Alan Garcia, i non pochi paventarono pesanti ricadute sull’agricoltura peruviana ed un inasprimento delle tensioni sociali nel paese andino, dovuto all’impari concorrenza tra prodotti come il mais, il frumento e la soia peruviana ed i loro (sussidiatissimi) omologhi americani. Preoccupazioni giustificate soprattutto dal fatto che la ratifica del Trattato appariva (ed appare) come la manifestazione più eclatante ed inequivoca di un complessivo orientamento economico iperliberista, che ha portato il governo di Lima a negoziare analoghi accordi con svariati altri partner commerciali (Canada, Ue, Corea, Cina, Cile) e a perseguire la privatizzazione (leggasi svendita) di gran parte delle risorse naturali dal paese – dalle miniere di oro, zinco e rame, a milioni di ettari dell’Amazzonia peruviana. Corollario temuto di questa apertura a 360 gradi dell’economia pareva a molti analisti un’involuzione autoritaria e repressiva (volta a spianare la via agli investitori stranieri), preannunciata lo scorso luglio da una serie di decreti liberticidi approvati dallo stesso Alan García - grazie a una speciale delega ottenuta per legiferare in materia di sicurezza e (sic!) lotta al terrorismo – tra i quali spicca il famigerato decreto 982 che depenalizza gli omicidi compiuti dalle forze dell’ordine in caso di proteste e manifestazioni.


Le previsioni più nefaste paiono purtroppo aver trovato una funerea conferma negli ultimi giorni. Il comparto agricolo aveva infatti dichiarato a partire da lunedì scorso un paro (sciopero) a tempo indefinito, proprio per protestare contro gli effetti negativi del Trattato di Libero Commercio. Tra le rivendicazioni degli agricoltori, oltre a sussidi e compensazioni per l’impatto del Tlc, vi era anche la ricerca di una soluzione al rincaro dei prezzi dei fertilizzanti e dell’acqua per le irrigazioni.
I manifestanti avevano dato vita a marce e blocchi stradali in diverse parti del paese, tanto nel Nord che nel Sud, bloccando la Panamericana in diversi punti.

La risposta del governo non si è purtroppo fatta aspettare. Il presidente del Consiglio dei ministri, Jorge del Castillo, ha dichiarato lo stato d’emergenza in 8 provincie (Huaura, Huarral e Barranca nel dipartimento di Lima, Huarney, Casma e Santa nel dipartimento di Ancash, Viru e Trujillo, nel dipartimento la Libertad), annullando di fatto le garanzie costituzionali ed autorizzando così le forze dell’ordine a detenzioni arbitrarie, perquisizioni senza mandato, precettazioni, proibizione di scioperi e cortei, restrizioni al libero transito. Nei violenti scontri che ne sono scaturiti (soprattutto nella zona di Ayacucho) hanno perso la vita almeno 5 persone, quattro delle quali per evidenti ferite d’arma da fuoco – nel corso di due differenti giornate di sciopero. Centinaia sono stati anche i feriti e gli arrestati – che ora in base ai decreti liberticidi di Alan García rischiano anche svariati anni di carcere, solo per aver bloccato una strada.

La violenta repressione pare aver sortito l’effetto sperato: le associazioni del comparto agricolo Convención Nacional del Agro (Conveagro), Junta de Usuarios del Riego (JUR) e Confederación Nacional Agraria (CNA) hanno sospeso lo sciopero ed i blocchi stradali - anche se in alcune regioni il paro è stato prolungato per protestare contro la morte dei cinque manifestanti. Il governo intanto sembra, almeno formalmente, intenzionato a riaprire il dialogo con gli agricoltori, anche se sarà difficile aspettarsi un cambio di rotta.
Il gabinetto di Alan García si trova peraltro impegnato in questi stessi giorni ad affrontare almeno altre due massicce proteste: quella degli insegnanti che protestano contro la contestata legge del tercio superior – che riduce drasticamente (su presunta base meritocratica) gli insegnanti all’’interno della scuola pubblica – e quella dei cittadini di Cusco, preoccupati per una legge (chiamata eufemisticamente “Legge di promozione dello sviluppo sostenibile dei Servizi turistici” ) che facilita la concessione di licenze ai privati per costruire hotel e strutture turistiche anche nelle adiacenze di monumenti storici (come i siti archeologici inca), rischiando di danneggiare gravemente il patrimonio storico-artistico della regione.
L’opposizione humalista ha subito chiesto che il ministro dell’Interno Luis Alva Castro (vecchia volpe dell’Apra e personaggio molto discusso negli ultimi tempi) venisse in Parlamento a riferire sui cinque decessi – cosa che avverrà il prossimo mercoledì, 27 febbraio - e intende presentare una mozione di censura nei suoi confronti.
Alva Castro, da parte sua, si è subito smarcato dai fatti responsabilizzando dei decessi i dirigenti delle stesse organizzazioni degli agricoltori, trovando in questo – manco a dirlo - una formidabile spalla nel presidente García. Il vecchio Alan, con l’insensibilità che pare contraddistinguere gran parte delle sue ultime uscite, non solo ha riaffermato il proprio appoggio nei confronti del ministro e scartato qualunque ipotesi di commissione d’inchiesta sugli scontri, ma al contrario ha espresso la sua piena approvazione riguardo all’operato della polizia. “La polizia ha agito con grande convinzione e decisione e io mi congratulo con la Polizia, è un ottima cosa che difenda il Perù ed ora vogliamo vedere questo tradursi nel giudizio dei colpevoli” ha dichiarato il mandatario peruviano. Ed ha aggiunto “Che serva da lezione in modo che quando qualcuno promuove pubblicamente e agitatamente uno sciopero, sappia dove sta portando queste persone, sappia a chi sta aprendo le porte. Da ora in avanti [..] chiunque convochi questo tipo di mobilitazioni deve sapere che è direttamente responsabile di qualunque cosa accada, della distruzione e della morte di qualunque persona.” Un atteggiamento pilatesco ed auto-assolutorio, iconicamente rappresentato nella beffarda copertina di La Republica di ieri (vedi foto in alto). Ma anche un atteggiamento con il quale il discusso presidente sudamericano sembra mettere le mani in avanti relativamente ad eventuali nuove escalation repressive, se necessarie a mantenere quella pace sociale, funzionale al suo progetto di stato iperliberista.

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lunedì 18 febbraio 2008

LA CULTURA SPAGNOLA SCENDE IN CAMPO PER ZAPATERO

E così la cultura spagnola si mobilita per Zapatero. Se da una parte - forse complice la discesa in campo massiccia della Conferenza episcopale iberica - sembra che il PP stia recuperando spazio sul PSOE, dall’altra un gruppo di artisti, intellettuali, e uomini di cultura in senso lato da vita alla PAZ, la Platoforma de Apoyo por Zapatero, con l’obbiettivo di influenzare il voto del prossimo 9 marzo in favore del presidente uscente..
C’è anche un inno, cantato da vari personaggi e composto su alcuni versi del grande poeta uruguayano Mario Benedetti (che forse come autore, come fa notare l’amico Tanoka, è un po’ più consistente di Andrea Vantini…)


Le idealizzazioni sono sempre fuorvianti e certamente Zapatero non è la panacea di tutti i mali, né per la Spagna, né per l’Europa, né tantomeno per la sinistra europea sempre più carente di idee e proposte forti. Ma in ogni caso vi immaginereste una cosa simile in Italia? Sarebbero subito spuntati fuori una Lucia Annunziata o un Capezzone qualsiasi a dire di stare attenti “perché così si favorisce Berlusconi”…

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venerdì 15 febbraio 2008

DA ALAN GARCÍA A HUGO CHÁVEZ, QUANTO E' CAMBIATO L'ATTEGGIAMENTO DELLA "SOCIALDEMOCRAZIA" EUROPEA VERSO IL SUDAMERICA!

Quando più di vent’anni fa nel 1985 Alan García andò al potere in Perù, era l’ “idolo” della socialdemocrazia europea, da Craxi a Felipe Gonzales. Era giovane (a 36 anni il più giovane presidente della repubblica sudamericana), colto, aveva studiato all’estero, la sua retorica incantava i peruviani durante i celebri balconazos. Soprattutto era fautore di una politica eterodossa nei confronti del Fondo Monetario Internazionale e credeva, a ragione, che se il Perù non avesse rallentato i pagamenti al grande organismo monetario e non si fosse allontanato dal piano di aggiustamento strutturale che invece il suo predecessore Balaunde aveva seguito pedissequamente, il Perù non si sarebbe mai rialzato dalla recessione

Conobbe il suo trionfo nel giugno del 1986, quando il congresso dell’Internazionale Socialista si tenne proprio a Lima ed egli, per non rovinarsi la festa con i suoi omologhi europei, diede probabilmente carta bianca ai suoi generali per reprimere con la violenza alcune rivolte carcerarie senderiste che avrebbe potuto offuscare il ritorno di immagine del vertice – furono i massacri di El Frontón, Lurigancho e Santa Barbara, i più gravi del suo primo mandato.
Fu a quei tempi, quando per l’opinione pubblica mondiale era l’astro nascente della sinistra sudamericana, che Alan García, per far fronte alla scarsità di latte e al rincaro del suo prezzo nel paese, nazionalizzò la leche Gloria, l’azienda casearia nazionale peruviana, di proprietà della Nestlè (che ovviamente rispose per le rime). Fu una decisione importante e coraggiosa, una delle tante prese dal presidente peruviana in quel primo scorcio del suo mandato, prima che molte sconfitte e ed una corruzione dilagante finissero per ammorbidire la sua politica sino a tornare nei canoni dell’”ortodossia”, in mezzo alla più grande crisi economica recente della storia del Perù. Una fine ingloriosa lontana dalle premesse e dalle aspettative del primo bennio (1985-1987) del suo governo. Quel primo biennio del suo mandato, il cui esperimento eterodosso riuscì a portare effettivi – ancorché effimeri - benefici al Perù (una notevole ripresa economica) e garantì al mandatario peruviano, una stima senza eguali nell’ambito socialdemocratico europeo.

Vent’anni dopo la storia si ripete, con protagonisti diversi e con alleanze completamente cambiate. Un governo, quello venezuelano - di cui ovviamente si può dire tutto e il contrario di tutto - traccia da un decennio (dal 1998) la strada per i paesi che hanno deciso di non riconoscersi più nella politica dell’ortodossia fondomonetarista, degli aggiustamenti strutturali e delle privatizzazioni ad ogni costo. Lo fa con molta più costanza e convinzione dell’Alan García di vent’anni fa ed ottenendo risultati – almeno per ora – decisamente confortanti: crescita intorno al 10%, sanità pubblica e gratuita per tutti, scomparsa pressoché totale dell’analfabetismo, inclusione sociale. Ma non gode assolutamente, presso gli ambienti bene della socialdemocrazia europea, di un decimo dei favori di cui godeva, con le stesse parole d’ordine, il vecchio Alan Garcìa – ora peraltro trasformatosi in arcicorrotto fondamentalista neoliberale.
E proprio in questi giorni, alla stregua di quel lontano 1986 in Perù, il Venezuela si trova a dover far fronte alla scarsità di latte. Prospettiva per scongiurare la quale, Chàvez minaccia di nazionalizzare gli stabilimenti venezuelani della Parmalat e della Nestlè (ancora la Nestlè!), per mettere fine alla loro politica speculativa. Nestlè e Parmalat infatti si avvantaggiano dei “bassi costi di produzione” venezuelani per poi esportare il latte all’estero, lasciandone privo il mercato interno. E soprattutto ostacolando la produzione delle imprese statali e delle cooperative venezuelane.

Chávez per ora minaccia, ma esproprierà davvero? Difficile dirlo. Molto probabilmente troverà un accordo, esattamente come è accaduto, malgrado i toni forti usati da ambo le parti, nel campo estrattivo, dove - complici gli alti prezzi del greggio attuale - quasi tutte le multinazionali hanno accettato le nuove condizioni poste del governo (il caso attuale della Exxon è fortunatamente – ancora – poco più che un’eccezione).
Ma in ogni caso la sua minaccia, ancora non concretizzatasi, viene vista e descritta da tutti i media internazionali come l’ennesima offensiva statalista e non trova alcun appoggio internazionale fuori dall’America Latina – come del resto tutta la sua politica.

La socialdemocrazia europea che vent’anni fa coccolava Alan Garcia quando portava avanti – e non minacciava soltanto – gli stessi provvedimenti, ora descrive il governo venezuelano come statalista e populista. Che cosa ha fatto cambiare così tanto opinione su medesime soluzioni economiche, riproposte peraltro oggi in maniera molto più moderata? Un altro esempio può chiarire meglio di cosa parliamo.

Nel 1987 Alan García nazionalizzò a sorpresa l’intero sistema bancario peruviano. Fu un’operazione condotta male e che probabilmente fu causa del successivo tracollo finanziario del Perù – Alan García peraltro fece retromarcia l’anno successivo.
Vent’anni dopo esatti Chávez ha riproposto una manovra simile, benché molto più oculata, (la nazionalizzazione della banca centrale) e l’ha sottoposta però a referendum popolare – dimostrando quindi maggior prudenza dell’Alan García degli anni ottanta. Perso il referendum l’ha accantonata.
Viene da chiedersi: chi dei due è l’estremista, chi il moderato? Chi è il socialdemocratico e chi lo statalista?
Perché la socialdemocrazia che all’epoca sosteneva l’interventismo un po’ disordinato di Alan García oggi si dissocia e si distingue da quello tutto sommato moderato di Chávez? Cosa è successo e cosa è cambiato nel frattempo, nella socialdemocrazia europea? Perché ciò che vent’anni fa appariva riformista e socialdemocratico, oggi viene descritto come massimalista?

E’ probabile che nella risposta a queste domande – molto retoriche e volutamente provocatorie - stia non già la soluzione dei problemi cronici dell’America Latina, ma quasi sicuramente qualche buona indicazione sulle ragioni della crisi irreversibile della socialdemocrazia europea.

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mercoledì 13 febbraio 2008

LEZIONI D'INGLESE

Uso affermativo e negativo del verbo modale can. Esempi:

Yes, we can.


No, we can't.


Nella foto in alto il candidato alle primarie del Partito democratico americano, in costante ascesa dopo la vittoria anche negli stati del Maryland, della Virginia e del District of Columbia.

Nella foto in basso il leader del Pd Walter Veltroni, coraggiosamente deciso ad immolare il suo paese natale, l'Italia, ad un nuovo governo berlusconiano, per permetterle di "diventare finalmente un paese normale" e per consolidare il Partito Democratico come grande forza socialdemocratica europea (sul modello del Labour Party inglese di Tony Blair?).

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domenica 10 febbraio 2008

ARGENTINA, VERSO UNA SOLUZIONE ALLA CRISI CON IL VATICANO?

Come è ormai noto il Vaticano ha negato il placet al nuovo ambasciatore argentino presso la Santa Sede, Alberto Iribarne, cattolico fervente ed ex-ministro della giustizia nel governo di Nestor Kirchner. La ragione? Iribarne è divorziato. E quindi sgradito in Vaticano.

In molti, da entrambe le parti dell’oceano – ma suppongo più da questa – hanno considerato l’evento come l’ennesima recrudescenza nella politica intransigente in fatto di morale, da parte del pontificato ratzingeriano, già impegnato in più fronti contro l’aborto, i Pacs, ecc....

Ma si tratta di una spiegazione che non convince. Soprattutto considerando lo status matrimoniale dei politici più coccolati dalla Santa Sede negli ultimi tempi: i vari Fini, Casini, Berlusconi, tutti divorziati e conviventi (seppur tutti, ovviamente, convinti assertori della famiglia tradizionale).

Con buona probabilità quella del Vaticano è una ritorsione per un precedente preciso. Nel 2005 Kirchner desitituì il cappellano militare Baseotto. Baseotto personaggio dalla storia sinistra, tre anni fa disse che a suo parere il ministro Ginés González García – che si era pronunciato a favore dell’aborto – era da “tirar al mar atado a una piedra” (tr. “gettare a mare legato a una pietra”). Una frase che in Argentina è “impronunciabile” e che dimostra insensibilità e disprezzo per la sofferenza di migliaia di madri, padri, fratelli, figli delle persone fatte sparire durante l’ultima dittatura militare.

Kirchner chiese al Vaticano il ritiro di Baseotto. La Santa Sede e la Conferenza Episcopale argentina inizialmente temporeggiarono poi presero le difese del vescovo apologeta dei crimini della dittatura. Allora il governo argentino unilateralmente lo ricusò, provocando un conflitto con il Vaticano.

Un conflitto che è continuato latente in seguito, ma che evidentemente preoccupa non poco il governo di Buenos Aires, data l’enorme influenza che la Chiesa Cattolica (intesa come gerarchia e non come chiesa di base) ha ancora in Argentina e che può, all’occorrenza, veicolare in funzione anti-governativa. Esiste perlomeno un precedente illuminante.

L’anno scorso nella provincia di Misiones, profondo Nord del paese al confine con il Paraguay, il governatore Carlos Eduardo Rovira, fedele kirchnerista, propose una revisione della carta costituzionale della regione per poter essere rieletto indefinitamente – in maniera simile a quanto proposto da Chávez in Venezuela. Secondo molti si trattò di un test su scala regionale per sondare l’impatto sull’opinione pubblica di una analoga manovra su scala nazionale, (volta a permettere la ricandidatura indefinita di Kirchner). A guidare il fronte del No, contro la proposta del governatore fu Joaquín Piña, vescovo emerito di Puerto Iguazu, che diede vita a un vero e proprio movimento “politico”, il Frente Unidos por la Dignidad. E vinse, facendo ottenere al no un vantaggio in termini di voti del 13%.

Si trattava di una rivendicazione – quella di mantenere un tetto massimo di due legislature alla ricandidatura del governatore – assolutamente condivisibile, ma che nondimeno mostrò la capacità d’intervento nella sfera politica argentina da parte delle gerarchie cattoliche e che quindi spiega perfettamente la ricerca da parte del governo di Buenos Aires, di una via d’uscita “pacifica” dal contenzioso. Evitando così, dopo gli anni del gelo diplomatico dell’amministrazione Kirchner, l’escalation di uno scontro frontale.

Il difficile rapporto dell’oficialismo kirchnerista con la Chiesa cattolica è peraltro dimostrato da un altro caso recente che riguarda addirittura la roccaforte della coppia presidenziale, la patagonica provincia di Santa Cruz, vero trampolino di lancio dell’ex presidente (lì è stato in passato governatore per 12 anni, essendo riuscito ad abolire il famoso limite di due mandati alla ricandidatura). Anche qui un movimento contro il governatore kirchnerista locale Daniel Peralta - per chiedere salari più equi per i maestri della regione - è stato guidato da un vescovo Juan Carlos Romanín ed ha rischiato di influenzare le elezioni regionali – tenutasi ad ottobre in concomitanza delle elezioni presidenziali, con la riconferma dello stesso Peralta.

Si tratta di personaggi diversi e non raggruppabili in un unico calderone. Romanín o Piña non possono essere accostati al “videliano” Baseotto o all’eminenza grigia Bergoglio, o Martín de Elizalde e cosi via. Ma quel che è certo è che di fronte a questi precedenti, il governo argentino, che pure ha osato sfidare frontalmente la Chiesa nel caso di Baseotto, si trova a dover correre ai ripari e a cercare una mediazione che gli salvi la faccia, ma che al contempo permetta di non aggravare i rapporti con la Conferenza Episcopale argentina ed il Vaticano.


P.s. Un’ultima considerazione non lusinghiera nei confronti del Vaticano. Se la santa Sede ha mostrato subito le sue rimostranze nei confronti dell’ambasciatore divorziato, a 3 mesi dalla condanna, non si è ancora espressa sul caso dell’ex-cappellano militare Christian Von Wernich, colpevole dimostrato – preme ricordarlo – di 7 omicidi, 31 casi di tortura e 42 sequestri durante la dittatura di Videla & soci. Dopo un primo imbarazzante comunicato di basso profilo dal tono salomonico-cerchiobottista, da parte della Conferenza Episcopale argentina (per voce del vescovo Martín de Elizalde), la Chiesa non ha più ritenuto necessario pronunciarsi sulla questione, né punire il sanguinario cappellano. Il che significa che, per il Vaticano, Von Wernich, pur con la sua non invidiabile fedina penale, può continuare ad essere sacerdote nel pieno delle sue funzioni, senza temere alcunchè dal diritto canonico. Con buona pace delle sue vittime. Qualcosa fa pensare che se in Sudamerica la Chiesa non sostiene più dittatori sanguinari e tiranni non è perché sia cambiata, ma perché ad essere cambiato è lo stesso Sudamerica.


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sabato 9 febbraio 2008

UOMINI TUTTI D'UN PEZZO

«Berlusconi con me ha chiuso, non pensi di recuperarmi, io al contrario di lui non cambio posizione. Se vuole fare il premier deve fare i conti con me, che ho pure vent'anni di meno. Mica crederà di essere eterno...Lui a Palazzo Chigi non ci tornerà mai. Per farlo ha bisogno del mio voto, ma non lo avrà mai più»

Gianfranco Fini, 18 novembre 2007 (l'ora delle decisioni irrevocabili?)


p.s. Un ringraziamento alla Striscia rossa dell'Unità.

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domenica 3 febbraio 2008

BOLIVIA, AL VIA LA RENTA DIGNIDAD

Dall'altro ieri in Bolivia, 582 agenzie di oltre 46 organismi finanziari hanno incominciato ad erogare La Renta Dignidad, una pensione universale di 25 dollari mensili, rivolta a tutti le persone oltre i sessant'anni. Una misura che è stata resa possibile solo dall'incremento degli introiti statali derivanti dall'IDH, l'imposta sugli idrocarburi, nazionalizzati dal governo di Evo Morales il 1 maggio del 2006.

Può sembrare poca cosa - 25 dollari al mese - ma in un paese in cui la maggioranza della popolazione vive con uno o due dollari al giorno e la speranza di vita è di 68 anni (la seconda più bassa dell'America Latina) può servire a condurre una vecchiaia decorosa alle migliaia di anziani che vivono nelle baracche di El Alto, o di Oruro o di Potosi. E si tratta quindi di una misura rivoluzionaria che consolida il processo redistributivo in corso dopo la larga noche de los quinientos años e gli ultimi vent'anni di indecoroso saccheggio neoliberale.

D'altronde la historia acabò de empezar hace un rato...

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venerdì 1 febbraio 2008

ARGENTINA, REPORTAGE DI PAGINA/12 FA SCOPPIARE UNO SCANDALO SULLA MARINA

L’edizione domenicale del sempre ottimo Pagina/12 è tornata a “colpire”, esattamente come negli anni ’90, quando i suoi reportages smascheravano le trame e il malaffare degli ambienti menemisti. Il quotidiano argentino lo scorso 27 gennaio ha infatti rivelato che il contrammiraglio Roberto Pertusio, agli arresti domiciliari dal 2006 per sequestri, torture e omicidi durante gli anni della dittatura, figura ancora come consigliere del Centro Estudios Estrategicos de la Armada (uno degli organismi che ai tempi di Videla operava nel famigerato edificio dell’ESMA, ora Museo della Memoria). Il sito web dello stesso Centro lo indicherebbe tuttora come membro permanente.

E non finisce qui: secondo il quotidiano argentino il prefetto Hèctor Febres, già condannato per violazioni dei diritti umani e morto lo scorso dicembre in circostanze ancora non chiare - per avvelenamento - nella lussuosa prigione del Destacamento Delta, avrebbe goduto di uno strano privilegio per un carcerato: quello di poter trascorrere, per tre anni di seguito, le vacanze assieme alla famiglia, nella base navale di Azul. Tale privilegio avrebbe avuto con tutta evidenza l’obbiettivo di convincerlo a non parlare: lo stesso Febres infatti aveva più volte mostrato l’intenzione di fare i nomi degli altri ufficiali coinvolti nelle violazioni dei diritti umani ai tempi della dittatura, in modo da non dover essere l’”agnello sacrificale” che garantisse l’impunità a tutti gli altri militari colpevoli di crimini contro l’umanità. Un’intenzione che probabilmente gli è costata la vita.

La ministra della Difesa Nilda Garrè - riconfermata di recente dal nuovo governo di Cristina Fernandez - ha immediatamente ordinato all’ammiraglio Jorge Godoy di destituire e cacciare dalla Marina il contrammiraglio Roberto Pertusio, e di preparare inoltre un informe sulle altre denunce di Pagina/12. Godoy ha immediatamente rimosso Pertusio ma ha tuttavia negato ogni responsabilità nei trattamenti di favore concessi a Febres.

In questo clima s’inserisce anche un episodio dell’ultim’ora: a seguito di una chiamata anonima è stato completamente evacuato per un allarme bomba il Ministero della Difesa a Buenos Aires. Gli artificieri, a quanto si apprende, stanno ancora perlustrando l’edificio alla ricerca di eventuali esplosivi. Si spera che l’episodio non sia in alcun modo collegato con le vicende che hanno interessato la Marina negli ultimi giorni – va segnalato che un allarme simile, fortunatamente senza fondamento, si era registrato anche lo scorso settembre.

Insomma Malgrado i molti passi avanti ed il corposo lavoro di diverse procure argentine – a quasi un anno e mezzo di distanza dalla desaparición di Julio Lopez – le crescenti difficoltà ed insidie che la lotta per la fine dell’impunità e la piena giustizia rispetto agli orrori della dittatura sembra incontrare sul suo cammino non possono che destare grande preoccupazione.

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¡SIN MAÍZ NO HAY PAÍS!

Continuano a Città del Messico le manifestazioni contro l'estensione del TLCAN (il Trattato di Libero Commercio) ai prodotti agricoli più importanti del paese - come mais e fagioli. Lo scorso sabato è arrivata nello Zocalo di Città del Messico, dopo un percorso di oltre 300 chilometri, la carovana "Sin maíz no hay país" (lett. "Senza mais non c'è paese") con una gigantesca offerta simbolica (nella foto) per la divinità mesoamericana Oméotl, affinchè appoggi la lotta per la rinegoziazione del Trattato di Libero Commercio e freni così l'invasione del mais transgenico statunitense.

Ieri invece, sempre nella capitale messicana, si sono ritrovati circa 200 000 persone per un grande corteo lungo l'arteria principale della città, il Paseo della Reforma, dalla celebre statua dell'Angelo sino allo Zocalo. A questo link una foto del fiume umano. ¡La lucha sigue!

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