mercoledì 13 dicembre 2006

OAXACA, MESSICO. DEMOCRAZIA DAL BASSO E REPRESSIONE.

A Oaxaca procede la sanguinosa repressione del movimento che richiede le dimissioni del governatore Ulises Ruiz. Con l’appoggio di Città del Messico. Ma da dove nasce questo movimento e perché anche il governo federale lo combatte con tanta durezza?


La morte di Bradley Will, giornalista americano di Indymedia ucciso da un poliziotto in borghese, ha acceso per un attimo i riflettori della stampa mondiale sulle vicende di Oaxaca in Messico. Vicende che si protraggono ormai da cinque mesi, ma che sono stato a lungo eclissate dalle controversie legate ai molto probabili brogli occorsi nelle elezioni presidenziali dello scorso 2 luglio – le quali hanno visto, per inciso, la riconferma del PAN, il partito di destra che governa il paese da 6 anni.

Lo stato di Oaxaca (di cui è capitale la città omonima) è il penultimo stato più a Sud della Confederazione messicana – appena prima del Chiapas – ed è anche uno dei più poveri dell’intera nazione. Oltre a ciò è la regione a più grande popolazione indigena del paese. Quasi due anni fà vi andò al potere come governatore, Ulises Ruiz Ortiz, del PRI - il partito che ha monoliticamente controllato la politica messicana per oltre settant’anni, prima dell’avvento del PAN nel 2000. Secondo la maggior parte degli oppositori e di molti osservatori internazionali, si trattò di un anticipazione, su scala locale, del “golpe elettorale” che sarebbe poi andato in scena, quest’estate, a livello nazionale. La notte delle elezioni tre sospettosissimi black-out sospesero lo scrutinio per ore. Qualche tempo dopo a Ampliación Santa Lucía (una quartiere periferico di Oaxaca) furono trovate migliaia di schede trafugate ed incenerite. Malgrado questo sospetto “peccato originario” sulla sua ascesa al ruolo di governatore – ruolo che in Messico, dato l’ordinamento fortemente federale del paese consente ampi margini di potere in svariati campi – Ruiz si è sempre negato ad ogni dialogo con le molte associazioni indigene e di base della società civile oaxaqueña, dedicandosi invece a una gestione privatistica delle cosa pubblica. Con appalti e commesse distribuiti a pioggia ad amici ed ad amici di amici, secondo la peggior tradizione clientelare e “caciquistica” del Messico. Per far tutto ciò, il neo-governatore non si è peraltro fatto molti scupoli a reprimere ogni genere di protesta, spesso sbattendo in carcere leader di movimenti sociali avversi alla sua politica. Per due anni il suo operato ha generato malcontento nella regione, senza tuttavia che questo si canalizzasse in uno scontro frontale.

A giugno però, uno sciopero dei maestri della regione, represso nel sangue dalle forze di polizia locali, ha fornito l’occasione propizia. Il motivo dello sciopero, indetto dalla SNTE (Sindicato Nacional de Trabajadores de la Educación) era eminentemente salariale – i maestri locali guadagnano poco più di 250 euro al mese e sono una delle categorie più deboli della società oaxaqueña; tuttavia la violenza della repressione ha riproposto la questione dell’illegittimità del ruolo ricoperto da Ruiz, oltrechè quello della sua gestione autoritaria e corrotta.
In poco tempo la protesta dei soli insegnanti si è trasformata in un movimento di massa. Centinaia di organizzazioni di base, sindacati e associazioni del tessuto sociale oaxaqueño si sono infatti confederati in una sigla, l’Appo (Asociación Popular de los Pueblos de Oaxaca) il cui primo obbiettivo sono le dimissioni del governatore. Quest’ultimo, ovviamente, ha risposto nella maniera più scontata e crudele possibile: attraverso repressione poliziesca, arresti arbitrari, utilizzo di sicari e paramilitari per uccisioni mirate. Alla fine di ottobre, rientrata nei ranghi la situazione a Città del Messico, dopo le proteste per i brogli, è giunta dalla capitale anche la famigerata PFP, la Policia Federal Preventiva. Secondo molti analisti, Fox, in procinto di lasciare la residenza de Los Pinos al compagno di partito Calderon, era tutt’altro che favorevole a chiudere con un bagno di sangue il proprio sestennato. Tuttavia nella delicata situazione istituzionale creatasi dopo l’elezione “fraudolenta” di luglio aveva bisogno, come tutto il PAN, dell’appoggio del vecchio PRI. E non poteva quindi esimersi da una difesa incondizionata di uno dei suoi più importanti governatori locali. L’arrivo della PFP – che forte di 4000 effettivi ha praticamente cinto d’assedio la città - ha generato come era prevedibile, una situazione di instabilità e violenza ancora più generalizzata, con continui scontri tra manifestanti e forze dell’ordine e brutali lesioni dei diritti umani da parte di quest’ultime. Il bilancio delle vittime dall’inizio del conflitto è già salito a venti – tra i quali, oltre a Bradley Will, alcuni maestri, un professore universitario e due ragazzi di dodici anni. Diverse organizzazioni non governative per i diritti umani (come Amnesty International Messico o il Centro de Derechos Humanos "Miguel Agustín Pro Juárez") denunciano la presenza di centinaia di persone detenute illegalmente (molte delle quali probabilmente sottoposte a tortura) oltrechè di decine di desaparecidos. Solo negli scontri dello scorso 25 novembre che hanno coinvolto gran parte delle vie del centro della città e portato alla “liberazione” da molti dei presidi e delle barricate erette dalla Appo, sono state arrestate 141 persone (di cui 35 donne) e altre 6 hanno perso la vita.

Ma è davvero solo l’eventuale destituzione di Ruiz il motivo di un tale dispiego di forze poliziesche, favorito addirittura da Città del Messico? La domanda è retorica. Ovviamente no. Ciò che probabilmente spaventa l’establishment priista locale e quello panista nazionale è il modello che l’Appo può rappresentare agli occhi di tutto il paese. Un modello di democrazia diretta, partecipata, basata sulla confederazione orizzontale delle forze della società civile, sull’assamblearismo – l’Appo ha più di mille delegati – e sul rifiuto di ogni imposizione calata dall’alto, soprattutto se da parte di una dirigenza corrotta e autoritaria come quella di Ulises Ruiz. Un modello che ricorda da vicino quello dei municipi autonomi zapatisti del Chiapas ed altre esperienze di democrazia partecipativa dell’America Meridionale. Un modello che, ovviamente, i poteri forti messicani vogliono scongiurare a tutti i costi.

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