lunedì 26 novembre 2007

PERU', SEMPRE PIU A STELLE A STRISCIE

Anche se l’informazione italiana non se n’è accorta, distratta com’è sulle notizie che vengono dall’area andina, lo scorso 8 novembre la Camera statunitense ha approvato il Trattato di Libero commercio con il Perù. Ora il provvedimento dovrà passare in Senato (si presume tra il 4 e 6 dicembre) per la (scontata) approvazione definitiva. In Perù invece l’accordo era già stato ratificato un anno fa’. Ovviamente con i voti determinanti dell’Aprà di Alan Garcia, malgrado quest’ultimo, in campagna elettorale, avesse parlato di rinegoziazione e revisione.

Il Perù si appresta così a percorrere una strada che già altri paesi sudamericani hanno percorso nel passato prossimo del subcontinente e con risultati tutt’altro che lusinghieri: si veda su tutti il caso del Messico e del Nafta.
I ministri del gabinetto Garcia si affannano in questi giorni a dire che la misura rappresenta una grande opportunità per il paese e che non produrrà contraccolpi neppure nel settore più a rischio: l’agricoltura. Rassicurazioni che non sembrano sortire grande effetto dal momento che in Perù si ripetono continui scioperi e manifestazioni contro la politica economica del governo.
Regresa Alan y lleva las huelgas mi aveva detto un amico lo scorso agosto a Lima, dandomi la chiara percezione di come nel giro di un anno il nuovo (e vecchio) presidente fosse riuscito a perdere ogni possibile consenso acquistato durante la sfida contro Humala.
E infatti l’indomani del voto alla camera Usa, Plaza San Martin si è riempita nuovamente di manifestanti: 25 000 persone. Non tantissimi in verità, ma neanche pochi tenendo conto che la risposta da parte delle forze dell’ordine e dell’establishment agli scioperi degli ultimi mesi è stata tutt’altro che tenera.
Se da un parte Garcia ripete da mesi alla televisione – con toni che ricordano qualche personaggio delle nostre latitudini - che dirigenti sindacali “comunisti e sovversivi” tramano contro il suo governo, dall’altra le forze dell’ordine hanno lasciato sul terreno già una decina di morti da quando il presidente si è reinsediato. Effetto di una legislazione su scioperi è questioni sindacali che non solo non è mai cambiata dai tempi di Fujimori, ma che è addirittura stata inasprita, la scorsa estate, da una serie di decreti liberticidi, tra i quali spicca quello che depenalizza gli assassini compiuti dalle forze dell’ordine in caso di scioperi e manifestazioni

Quello che è certo è che l’approvazione del Tlc rischia di logorare i rapporti del paese con gli stati confinanti, soprattutto all’interno della Comunità Andina, dove fortunatamente si respira un’aria differente. In particolare il Tlc rischia di rovinare le già fragili relazioni del Perù con Bolivia ed Ecuador fautori di un progetto d’integrazione regionale che esclude i “legami carnali” con Washington del passato.
Proprio le relazioni con la vicina Bolivia sono un chiaro esempio della politica ondivaga di Alan Garcia. Quest’ultimo appena insediatosi l’anno scorso – non molti mesi dopo l’elezione di Morales – dichiarò che in Sudamerica “ cresce un nuovo fondamentalismo, un fondamentalismo andino, che muove grandi moltitudini etniche e in molti casi vincolate alla coltivazione della coca. Questo fondamentalismo […] può avere conseguenze tanto importanti come quello musulmano, può significare un pericolo d’instabilità in Sudamerica”. Che si riferisse al suo collega boliviano non è un mistero per nessuno e tuttavia Garcia ha ricevuto lo stesso Morales in pompa magna quest’agosto a Lima (con tanto di consegna cerimoniale della chiavi della città) indicandolo come alleato e partner privilegiato. Giochi delle parti a cui chi, vuole mantenere un paese nell’orbita di Washington, nel periodo di massima crisi storica del “Washington consensus” , si trova irrimediabilmente costretto.

Non è tuttavia solo la ratifica del Tlc a segnare un’intensificazione dei rapporti (di sudditanza) del Perù con gli Stati Uniti. Lo scorso ottobre infatti il Congresso peruviano ha autorizzato l’ingresso di militari statunitensi nel paese. Ufficialmente per esercitazioni congiunte contro il narcotraffico – giustificazione questa ormai un po’ logora, a dir la verità – ma con buona probabilità con tutt’altro tipo di intenti.
Tra meno di due anni gli Stati Uniti infatti dovranno abbandonare la base di Manta in Ecuador, dal momento che il governo di Correa ha deciso di non rinnovarne la concessione.
E’ quindi più che probabile che gli Stati Uniti siano decisi a spostare i loro uomini in Perù. Eventualità che avrebbe due indubbi vantaggi: consentirebbe di spingere più a fondo la penetrazione Usa nel Cono Sud e, considerato che gli Stati Uniti hanno un'altra base in Paraguay lungo la triplice frontiera, permetterebbe di stringere come in una tenaglia la Bolivia di Morales, (nella quale a quanto pare, i piani di destabilizzazione perpetrati dalle oligarchie cruceñe con l’avallo dell’ambasciatore Goldberg non stanno dando, per ora, i risultati sperati).
Il Perù in questo scenario si avvia a divenire una delle pedine più importanti di Washington nello scacchiere sudamericano, a fianco alla sempre alleata Colombia (anch’essa provvista di Tlc di rito) e al Paraguay ancora “colorado”, in cui tutti tramano perché Lugo non vinca le prossime elezioni.

Un’ultima inquietante sintonia unisce poi di questi tempi il Perù agli Usa. Nella votazione Onu a favore della moratoria contro la pena di morte, il paese andino è stato praticamente l’unico paese latinoamericano di un qualche peso (a parte – dispiace dirlo – Cuba) a non votare la mozione italiana. Anzi con particolare viltà la delegazione peruviana si è assentata dall’aula al momento della votazione.
Anche qui la ragione è semplice: Garcia insiste da mesi nella sua proposta di reintrodurre la pena di morte per i reati sessuali e quelli di terrorismo – malgrado Sendero sia morto e sepolto. Una manovra populista che serve probabilmente da “arma di distrazione di massa” per stornare l’attenzione da altre questioni, ma che nondimeno rilancia la questione dei diritti umani in Perù.
Se il ritorno di Fujimori lascia ben sperare in un passo avanti sulla via della giustizia rispetto agli anni della guerra civile – salvo manovre e ricatti del gruppo fujimorista in Parlamento, fedele alleato fin qui di Alan Garcia - dall’altra nessun tipo di verità sembra all’ordine del giorno rispetto ai massacri compiti negli anni del primo mandato dell’attuale presidente. Nessuna giustizia sembra in arrivo per i morti nelle carceri di Lurichango, El Fronton, Santa Barbara e per tutte le vittime del quinquennio 1985-1990

Insomma mentre il resto del subcontinente va, pur con ogni sorta di problema, verso tempi migliori e meno bui, il Perù non sembra riuscire a staccarsi dal proprio passato e dalla propria dipendenza atavica da Washington. E forse alla luce di questa considerazione si spiega anche il crescente autoritarismo di Alan Garcia, volto a creare quella pace sociale necessaria a spianare la strada al Tlc e ad attrarre le multinazionali americane, come da manuale di economia neoliberale.

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domenica 25 novembre 2007

BOLIVIA, IL DIRITTO DI GUARIRE

Dedico qui un po' di spazio per pubblicizzare un'iniziativa che si svolgerà sabato prossimo in una biblioteca di Nord Milano alla quale parteciperò anch'io.



Biblioteca Rionale Dergano- Bovisa

Progetto Alessandro Garbo – Associazione “Progetto continenti”

Centro Culturale Multietnico La Tenda

Associazione Luca Rossi

promuovono l’incontro

BOLIVIA, IL DIRITTO DI GUARIRE


Sabato 1 dicembre 2007

Ore 16.30

Biblioteca Rionale Dergano-Bovisa,

via Baldinucci 76 – Milano

Filovia 92, tram 3, autobus 82, FNM Bovisa


Il diritto alla salute non è ugualmente garantito in tutti i paesi della terra. Immense zone dell’Africa sono prive di assistenza sanitaria gratuita, di accesso ai farmaci e alle cure. Lo stesso avviene in Asia ed in molti paesi dell’America Latina. Tra questi ultimi la Bolivia rappresenta uno dei casi più gravi in assoluto.

Paese più povero del Sudamerica secondo le classifiche dell’Onu, la Bolivia presenta ancora grandissimi problemi nell’accesso alle cure sanitarie. Un campo particolarmente spinoso è quello delle malattie oncologiche. Al pari di altri paesi dell’area, la Bolivia non è in grado di erogare cure chemioterapiche gratuitamente. Il che spinge ogni anno intere famiglie a indebitarsi fino a ridursi sul lastrico.

Per questa ragione è sorto nel 2000 il Progetto Alessandro Garbo. Il progetto è stato fortemente voluto dai genitori di Alessandro Garbo, un ragazzo deceduto a Monza per una malattia oncologica. L’obbiettivo del progetto è quello di dare, tramite il sostegno a distanza, un’opportunità di guarigione altrimenti impossibile ai bambini ammalati di cancro e leucemia nel paese sudamericano.

Il progetto è attivo a Santa Cruz, seconda città della Bolivia e nasce dalla cooperazione tra l’ospedale San Gerardo di Monza e l’Instituto Oncologico del Oriente Boliviano, uno dei più importanti ospedali cittadini.

Chiunque creda che il diritto alla salute debba essere garantito egualmente in tutto il mondo e che tutti debbano poter avere un’opportunità per guarire da malattie gravi e difficili come i tumori, può venire a conoscere da vicino l’impegno del Progetto Alessandro Garbo, sabato 1 dicembre alle 16.30, presso la Biblioteca Rionale Dergano-Bovisa.

mercoledì 21 novembre 2007

RAI-MEDIASET: NUOVO MINCULPOP?

La notizia rimbalza da tutto il giorno sulla rete ed è finita pure nei telegiornali, seppure riportata con basso profilo, come chi sa che deve fare una cosa che non gli fa onore e preferisce liquidarla in tutta fretta.
Secondo quanto emerso dalle intercettazioni sul fallimento della Hdc, l’azienda dell’ex-sondaggista di Berlusconi Luigi Crespi, Rai e Mediaset nel bienno 2004-2005 facevano “gioco di squadra” e concordavano quali notizie mandare in onda e come indorarle ed ammorbidirle, per non far dispiacere all’ex-premier.
Ai molti esponenti dell’ex-opposizione – a quanto risulta dalle prima dichiarazioni lasciate in giornata - tutto questo è sembrato una patente violazione delle leggi anti-trust e della concorrenza. A chi scrive pare piuttosto la versione postmoderna del Min cul Pop, con veline a reti unificate e giornalisti addomesticati per non turbare i sonni del grande capo.
L’Italia non ha davvero più niente da invidiare neanche al Messico del duopolio Tv Azteca/Televisa.

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lunedì 19 novembre 2007

CASO BREGANTINI - SE LA 'NDRANGHETA E' PIU' FORTE DELLA CHIESA

Promoveatur ut amoveatur. Promuovere per rimuovere ed allontanare. E’ questa la formula che la Chiesa utilizza (non solo la Chiesa certo, ma troppo spesso la Chiesa) per “liberarsi” di alcune sue voci molto illuminate se diventano troppo scomode. Una strategia che la Chiesa ha applicato innumerevoli volte, dall’Italia al Sudamerica, alternandola con l’altro espediente di successo di accettare le formali dimissioni di vescovi e prelati per “sopraggiunti limiti di età”, per congedarli anticipatamente dal loro incarico (si vedano al proposito i casi di Bettazzi o Camara).

Alla luce di questa consuetudine è oggettivamente difficile considerare in una prospettiva diversa da quella della rimozione, l’insperata “promozione” del vescovo di Locri Giancarlo Bregantini alla carica di arcivescovo metropolita di Campobasso (che tra l’altro è dubbia anche come promozione, dato che l’arcidiocesi di Campobasso, per quanto più prestigiosa, ha un bacino di fedeli più piccolo di quella di Locri).
Ma quandanche si volesse trovare una spiegazione differente dall’”amoveatur” – per esempio un desiderio di protezione nei confronti di un personaggio nel mirino delle organizzazioni malavitose – non si può non porsi il problema dei valori simbolici che una tale decisione reca con sè. Non si può cioè non farsi prendere dal sospetto di un cedimento alla logica ricattatoria della mafia, al gioco al rialzo proprio delle cosche.

Trentino d’origine, Giancarlo Bregantini era stato nominato vescovo di Locri nel 1994. E sin da subito aveva dimostrato di che pasta fosse fatto. Malgrado le intimidazioni, per prima cosa aveva fatto distribuire in tutte le parrocchie della diocesi una lista con i nomi dei 263 morti degli ultimi dieci anni. Quindi un libro di preghiere in sfida alla mafia. Ed aveva cominciato, senza mai tirarsi indietro, a tuonare contro gli orrori della ‘ndrangheta e soprattutto - cosa non da poco in certi contesti – a chiamarla con il suo nome. Era arrivato addirittura a chiedere la scomunica per i malavitosi – ma la Chiesa aveva nicchiato, più propensa a utilizzare quest’ultima ratio solo per quelle questioni (bio)etiche che ha scelto come campo privilegiato, quando non unico, del suo intervento nella vita pubblica.
Non lo aveva spaventato neppure l’escalation degli ultimi tempi, l’omicidio Fortugno e il clima di patente impunità e di trasversale collusione. Forse sull’esempio di Libera di Don Ciotti, Bregantini aveva fondato la Cooperativa Valle del Buon Amico con l’intento di riutilizzare le terre confiscate alla criminalità organizzata per sviluppare progetti agricoli “virtuosi,” sottratti al controllo delle organizzazioni della ‘ndrangheta . In breve tempo la Cooperativa Valle del Buon amico era diventata la realtà agricola più importante dell’intera Calabria. Ed era stata fatta prevedibilmente oggetto di intimidazioni ed attacchi di stampo mafioso.
Ma anche in quel caso il coraggioso vescovo di origine trentina non si era tirato indietro ed anzi aveva rincarato la dose contro la criminalità organizzata della regione del Sud italia.
Le associazioni contro la mafia, prima fra tutte “Ammazzateci tutti”, l’associazione che fa a capo ai ragazzi di Locri, l’avevano scelto come guida spirituale e voce autorevole nella lotta alla malavita.
Rumores di un suo trasferimento si erano già avuti in passato, ma erano sembrati privi di fondamento. Fino a che, fulmine a ciel sereno, non è arrivata la notizia del “prestigioso” trasferimento.

L’ovvia domanda che viene ora da porsi è a chi giovi una tale manovra, invisa persino al beneficiario stesso della presunta promozione, che ha anzi affermato di lasciare Locri con dolore.
Soprattutto viene da chiedersi quale sia il segnale che una tale decisione possa lanciare in una terra straziata dal cancro di una malavita annidata in tutti i gangli della vita pubblica. Una terra che vive una crisi politica quasi irreversibile, dominata da trasformismo e da clientelarismo diffusi e che ha più o meno tacitamente e consapevolmente fatto propria la prospettiva “lunardiana” del convivere con la mafia.
In mezzo a tutto questo, la voce di Bregantini era una voce forte che non si accontentava dei borbottii e delle condanne di circostanza dei più. Forse era l’unica voce autorevole nella chiesa che avesse fatto davvero proprio il duro monito lanciato a Palermo contro i mafiosi da Giovanni Paolo II, quasi quindici anni fa, al grido “Convertitevi”. La Chiesa che tutto fagocita e tutto rende inoffensivo, come ai tempi di S.Francesco ed Innocenzo III, sembra già aver vanificato dietro al clamore di tanti “santo subito” anche quella presa di posizione, che tra tante iniziative discutibili del defunto pontefice, era stata invece più che meritoria.

C’è poi un’ulteriore possibile chiave di lettura della vicenda, che viene azzardata in questi giorni dalla prestigiosa agenzia di stampa cattolica “Adista” e che può servire a integrare quella di un semplice cedimento alle minacce della mafia. All’interno di una chiesa sempre più “normalizzata” dall’intervento di Ruini & soci, la voce di Brigantini appariva come una voce difforme e progressista. Pur senza mai esasperare i toni, l’ormai ex-vescovo della Locride si era aperto al dialogo con le realtà critiche nei confronti della Chiesa, aveva preso posizioni esplicite contro la guerra in Iraq ed aveva addirittura firmato, anni fa’, un documento di Pax Christi che chiedeva la smilitarizzazione dei cappellani militari – un po’ come sosteneva Don Lorenzo Milani ormai quarant’anni fa. Inoltre Bregantini aveva più volte affermato che la Chiesa doveva mettere la questione della legalità e dei problemi del Mezzogiorno al centro della propria agenda. Come dire che probabilmente la situazione era da tempo tesa e che forse sola ora si è deciso per un provvedimento che, sotto le vesti di una lusinga, serve a neutralizzare e a circoscrivere l’operato di un personaggio scomodo.

Un piccolo appunto per chiudere: qualche tempo fa era giunta nella Locride una piccola suora, ai più sconosciuta, per collaborare con i progetti di Monsignor Bregantini. Si chiama Carolina Iavazzo ed era stata a lungo il più importante sostegno dell’attività pastorale di Don Pino Puglisi al Brancaccio. Poi consumatasi la tragedia che tutti conosciamo, era rimasta sola e soltanto tempo dopo era riuscita a farsi trasferire nella Locride presso Bregantini e a riannodare, in un altro contesto, i fili di un lavoro interrotto bruscamente da alcune pallottole in una calda giornata di settembre del 1993. Ora, purtroppo, Carolina sarà di nuovo sola e lei - come molti altri in quelle terre - dovranno ricominciare un’altra volta tutto da capo.

Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari.

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sabato 17 novembre 2007

GENOVA, SEI ANNI E MEZZO DOPO



...qué espanto produce el rostro del fascismo
llevan a cabo sus planes con precisión certera
sin importarles nada.
La sangre para ellos son medallas,
la matanza es un acto de heroísmo....

Victor Jara 1973

venerdì 16 novembre 2007

"LIEVISSIME" PERPLESSITA' E DISTINGUO SULL'OPPORTUNITA' DI INDICARE GLI STATI UNITI D'AMERICA COME MODELLO PER IL BELPAESE

Ieri sera ad “Anno Zero” lo ha ripetuto anche Travaglio (che è un giornalista che stimo per il suo impegno e il suo concetto etico del giornalismo) : certe cose negli Stati Uniti non sono possibili. Gli Stati Uniti sono un paese serio: niente conflitti di interesse, niente intreccio tra politica ed affari, niente “anomalia italiana”. Insomma un modello.
Già proprio un modello.
Leggete questa notizia. L’ispettore generale del dipartimento di stato incaricato di investigare sulla Blackwater, la banda Muti dei nostri tempi, non investigava nulla perché suo fratello era nientemeno che un collaboratore della stessa Blackwater.

Un caso isolato vero? Già.
Probabilmente isolato come quello delle Halliburton di Dick Cheney, guardacaso azienda leader nel boom della ricostruzione in Iraq. O come quello dell’azienda di Rumsfeld che produsse millioni di vaccini contro l’aviaria per combattere un’epidemia che – stranamente – si scoprì poi essere sovradimensionata. Per non parlare dei legami a doppia filo della dinastia Bush con le lobby dei petrolieri e dei produttori di armi negli Usa: tutte casualità vero?
Oppure vogliamo ricordare l’ex ministro alla giustizia Alberto Gonzales? Quello che “si sceglieva” i procuratori? Al confronto Mastella è un dilettante...
Tutti casi isolati, variabili impazzite nella grande culla della democrazia, vero?

Di fronte a tutto questo posso indicare agli opinion-makers italiani (anche di sinistra), come Nanni Moretti in “Aprile”, altri modelli da seguire, che non siano né la Cina di Mao né l’America di Bush?


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giovedì 15 novembre 2007

I VENTI AGENTI DELLA CIA A MILANO E LE FECI DI PERUGIA

Nel sempre delizioso ed approfonditissimo Tg2 delle 13, ci hanno comunicato oggi gli ultimi attesissimi dettagli del caso della ragazza inglese uccisa a Perugia. Siamo così venuti a sapere che potrebbe essere decisivo, secondo gli inquirenti, l’esame delle feci trovate nella toilette dell’ennesima, vespiana, casa degli orrori. Era un dettaglio che ovviamente non potevano tralasciare di dirci. A pranzo, oltrettutto.

Un tempo, all’epoca felice di “Un giorno in Pretura”, in tv andavano in onda i processi. Oggi vanno in onda addirittura le indagini – con tanto di false piste e giudizi sommari.
Ma mica tutte le indagini, ovviamente. Solo i casi che abbiano qualcosa di oscuro, perverso, indecente e scabroso perché - ci continuano a dire - al pubblico interessa solo quello
Così, per esempio, il fatto che altre indagini abbiano scoperto (in maniera peraltro inconfutabile) che, a qualche centinaio di metri da dove ora sto scrivendo, in una fresca mattina di febbraio di quattro anni fa, si aggirassero una ventina di agenti Cia per sequestrare un certo Abu Omar, nessun telegiornale ce lo ha mai raccontato nei dettagli. Perché quelle sono indagini scomode, che tirano fuori domande spinose come quelle che riguardano la sovranità dello stato italiano e della sua giustizia o la ridefinizione dei sui rapporti con il grande alleato a stelle a striscie… roba seria insomma che è meglio tacere e lasciar stare (e magari vietar per legge, previo ceppalonico decreto) per poter così tornare ad occuparsi di impronte sugli spazzolini da denti, macchie di sangue sul parquet e analisi del Ris di Parma. O anche, all’uopo, delle feci trovate in un bagno di Perugina.

Riuscite voi ad immaginare una definizione più calzante ed esatta per un giornalismo che ruota intorno a delle feci in un water di Perugia, di quella di “giornalismo di merda”?

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venerdì 2 novembre 2007

LUTTO, SENZA RAZZISMO

La vicenda della morte di Giovanna Reggiani, aggredita selvaggiamente qualche giorno fa’ da un delinquente romeno a Roma (nella foto) è un fatto gravissimo e inaudito. Ai genitori e ai parenti di Giovanna va rinnovata tutta la nostra solidarietà e vicinanza più sincera ed incondizionata per il dolore tremendo ed insensato al quale sono stati sottoposti.

Nessuna vicinanza e nessuna solidarietà merita invece chi si è gettato ancora una volta a capofitto su questa dolorosissima vicenda per rinfocolare campagne d’odio nei confronti di uno specifico gruppo etnico presente in Italia. In queste ore, drammatiche per una famiglia rimasta tragicamente priva di uno dei suoi cari, si sono sentite e lette su tv e giornali troppe insopportabili “lombrosaggini” che dovrebbero essere bandite da qualunque paese che voglia considerarsi democratico e anti-razzista.


A tutti coloro che più o meno strumentalmente ed in cattiva fede hanno dato credito a questo genere di considerazioni, propongo la lettura di queso bell’articolo dell’amico rumeno Mihai Mircea Butcovan, scritto in tempi non sospetti (lo scorso luglio) per la rivista Internazionale.

P.s. Consiglio anche la lettura di questa stupenda lettera rivolta da Gennaro Carotenuto ai famigliari di Giovanna Reggiani, protagonisti di un “lutto esemplare”.

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