lunedì 8 gennaio 2007

L' ARIA SALATA

Fabio è un ragazzo sulla trentina che lavora in carcere al percorso di reinserimento dei detenuti. Sin dalle prime sequenze lo vediamo correre nervosamente per le vie di una Roma, livida e piovosa. È un leitmotiv che si ripeterà per tutto il film. Una corsa frenetica che simboleggia il desiderio di libertà di chi lavora in un ambiente che rappresenta l’assenza di libertà per eccellenza.

Ma dietro la corsa di Fabio c’è anche qualcos’altro. L’esorcismo di un’altra assenza, un trauma più profondo. Fabio è ligio e dinamico sul lavoro, ha le sue idee, non si lascia corrompere dall’ambiente in cui ha deciso di lavorare, sacrificando le ambizioni ad una carriera che la sua laurea gli consentirebbe.
Ma un giorno il trauma rimosso gli si presenta davanti. Sulla scheda d’accompagnamento c’è scritto Luigi Sparti e Fabio sa di aver dinanzi il padre che sparì un giorno di casa, condannato a una pena pluridecennale per omicidio. Come comportarsi con il vecchio padre che neppure lo riconosce? Rinfacciargli la lunga assenza, il disinteresse per i figli? Oppure evitarlo? Da questo interrogativo prende le mosse l’ Aria Salata il film d’esordio di Alessandro Angelini, in uscita nelle sale il 5 gennaio, ma passato, con un discreto successo di critica, dalla Festa del cinema di Roma. Nelle intenzioni originarie del giovane regista, documentarista di grande talento, il lungometraggio avrebbe dovuto essere semplicemente un affresco della realtà carceraria ed in particolare di coloro che scontano «la condanna stando fuori dal carcere», vale a dire i familiari dei detenuti, la cui vita è sconvolta dalla reclusione di un parente. Un’intenzione che nasceva nel regista dal periodo di volontariato prestato presso il carcere di Rebibbia. Un proposito che, tuttavia, si è progressivamente trasformato in fase di sceneggiatura, evolvendosi in un’amara e disperata riflessione sul tema della paternità e su quello di una giustizia che non deve rappresentare mai una forma di oppressione dell’individuo, ma concedere invece una possibilità di riscatto, una seconda opportunità.

Da questo nucleo si dipana allora il tortuoso itinerario di ricostruzione di un sentimento paterno e filiale da parte dei due protagonisti, splendidamente interpretati da Giorgio Pasotti e da uno strepitoso Giorgio Colangeli - attore alla prima vera esperienza sul grande schermo, ma già molto attivo in teatro e tv e che, per quest’interpretazione, sensibilmente attenta alle sfumature e ai più minimi gesti rivelatori, è stato giustamente premiato a Roma.

Un film dunque che, come si evince da questa breve sinossi, punta alto, scegliendo temi e realtà forti, lontani dalle “vanzinate” e dal “muccinismo” che dominano l’asfittico clima del cinema italiano. Anche il tono e il linguaggio scelto, scabro, semplice, essenzializzato, disperato ma senza mai cadere nel melodrammatico, più strozzato che gridato, concorrono ad avvicinare questo esordio ai film di Garrone, Marra, Munzi, vale a dire alle migliori promesse del nuovo cinema italiano. O anche a Calopresti, di cui Angelini è stato assistente, e di cui nel finale sembra quasi, forse involontariamente, rievocare Preferisco il rumore del mare. La macchina da presa segue i personaggi con frequenti primi piani, con teleobbiettivi, come a isolarne il dramma profondo, a metterlo in rilievo rispetto alla realtà sociale che pur l’ha prodotto. Ad acuire il senso di oppressione, di angoscia contribuisce anche un azzeccatissima fotografia grigia, sbiadita, opaca che accentua l’atmosfera di sorda disperazione della vicenda. Non ancora un capolavoro certo – per qualche ovvio cedimento, per qualche piccola tara nella sceneggiatura - ma tuttavia un validissimo esordio. Impreziosito dall’ottima prova di un cast (non solo Pasotti e Colangeli ma anche una superba Michela Cescon, qui nella parte della sorella del protagonista, sorta di naturale contraltare al suo idealismo e alla sua fragilità) che il giovane Angelini ha dimostrato di sapere dirigere con raffinata abilità.


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