lunedì 25 dicembre 2006

CARITA' CRISTIANA E SPIRITO NATALIZIO

domani alle tre
nella fossa comune sarà
senza il prete e la messa perché d'un suicida
non hanno pietà

domani Michè
nella terra bagnata sarà
e qualcuno una croce col nome la data
su lui pianterà
e qualcuno una croce col nome e la data
su lui pianterà

Fabrizio de Andrè

(da la La Ballata del Michè, 1967)


A Pier Giorgio Welby

(che comunque non è neppure suicida...)

venerdì 15 dicembre 2006

FINANZIARIA E CONTRADDIZIONI: PIU' SOLDI PER LE SPESE MILITARI

Cosa succede se il governo dell’Unione stanza più fondi per le forze armate di quello della Cdl..

Uno strano spettro s’aggira all’interno della Finanziaria in via di approvazione al Senato, la finanziaria dipinta dall’opposizione come la finanziaria dei tagli, delle tasse e della “proletarizzazione dei ceti medi”. Lo spettro del militarismo. Uno spettro inquietante, soprattutto perché partorito da un governo che aveva messo al centro del proprio programma il disimpegno italiano da un teatro di guerra come quello iracheno e l’incentivazione di politiche di disarmo (vedi pagine 90, 91 e 109 del programma dell’Unione). E invece nella manovra compare un aumento di circa 2 miliardi di euro sui fondi destinati alle spese belliche. Si va dai 18 miliardi e 862 milioni di spesa militare del 2006 (di cui 17.782 milioni dal bilancio della Difesa e 1.080 aggiunti dalla vecchia finanziaria), ai 21 miliardi e 144 milioni previsti per il 2007 (di cui 18.134 milioni sempre dal bilancio preventivo della Difesa e 3.010 dalla manovra 2007). Qual è il motivo di un tanto inatteso e sorprendente aumento degli stanziamenti?

Andando a spulciare si scopre che, detratte le spese di mantenimento del personale – i circa 193 mila uomini al servizio delle forze armate – che coprono il 72 % del bilancio, rimangono più di 4 miliardi di euro (spalmati su 3 anni) destinati a finanziare un fantomatico “Fondo per il sostegno dell'industria nazionale ad alto contenuto tecnologico”.

In parte si tratta di progetti già avviati dai precedenti governi, come la partecipazione al faraonico progetto (a guida americana) di costruzione del cacciabombardiere del futuro, l’F35-lightning II, e la parallela collaborazione al suo omologo europeo, l’Eurofighter Typoon, a fianco di Germania, Inghilterra e Spagna. Progetti molto discutibili ma che non esauriscono il quadro degli spese previste nei 4 miliardi del succitato fondo.

Ecco allora comparire – come rivela Carlo Bonini in un articolo su Repubblica di qualche tempo fa - una commessa (del maggio scorso) ad Oto Melara per 49 veicoli blindati su ruota “Freccia”, muniti di torrette per il lancio di missili anti-carro. Piccolo particolare: i veicoli monteranno missili “Spike”, costosissimi apparecchi di fabbricazione israeliana, del valore cinque volte superiore al loro omologo americano, il “Tow”. Perché l’esercito italiano dovrebbe munirsi di queste apparecchiature, considerate troppo costose perfino dall’esercito americano e ignorate pressoché da tutti i paesi della Nato è un mistero che può sciogliere solo l’ex-ministro della Difesa Martino, l’inventore di questa geniale trovata. Un capriccio su cui l’Unione però, dal canto suo, non ha trovato nulla da ridire. Valore dell’operazione 310 milioni di euro.

Assemblati sempre da Oto Melara (seppur fabbricati in Germania) risultano anche 72 obici semoventi (per il valore di 650 milioni di euro) che verranno acquistati per la difesa delle nostre frontiere. Questo malgrado siano pezzi d’artiglieria immaginati per combattere conflitti di posizione lungo linee anche di centinaia di chilometri; conflitti che, per nostra fortuna, non sono previsti a breve scadenza lungo i confini italiani.

Spese alquanto imbarazzanti ma fortemente richieste dagli stati maggiori dell’Esercito e che serviranno – assicurano dalla Difesa – all’«ammodernamento delle nostre forze armate». E che, soprattutto, porteranno grandi proventi, attraverso Oto Melara (ed altre controllate come Vitrocisnet) nientemeno che a Finmeccanica. I cui vertici, guarda caso, provengono tutti dagli stati maggiori delle forze armate. Il tutto in barba alla legge 185 del 1990 che impedirebbe il travaso di personale dall’Esercito all’industria degli armamenti.

Qualche esempio? L’ammiraglio Guido Venturosi da capo di stato maggiore della Difesa alla Vitrociset, il generale Giulio Fraticelli da capo di stato maggiore dell’Esercito all’Oto Melara, il generale Mario Arpino dal medesimo stato maggiore alla Marconi (altra società Finmeccanica). E poi il generale Sandro Ferracuti e l’ammiraglio Marcello de Donno, rispettivamente dagli stati maggiori di Aeronautica e Marina ad Ams e Agusta (altre due società Finmeccanica, impegnate nella produzione di radar ed elicotteri). Molti degli impegni di spesa assunti da questa finanziaria con Finmeccanica risalgono all’epoca dei loro incarichi all’interno delle forze armate e, come sottolinea sempre Bonini: «portano anche le loro firme. Da generali, naturalmente».

Viene quindi da chiedersi se questo aumento delle spese militari non sia soprattutto un gran bel regalo a Finmeccanica, con la quale le forze armate italiane hanno rapporti a dir poco “osmotici”. Il che sarebbe non solo un gigantesco conflitto d’interessi, ma anche una seria minaccia nei confronti delle politiche di disarmo e pace previste nel programma dell’Unione.

mercoledì 13 dicembre 2006

OAXACA, MESSICO. DEMOCRAZIA DAL BASSO E REPRESSIONE.

A Oaxaca procede la sanguinosa repressione del movimento che richiede le dimissioni del governatore Ulises Ruiz. Con l’appoggio di Città del Messico. Ma da dove nasce questo movimento e perché anche il governo federale lo combatte con tanta durezza?


La morte di Bradley Will, giornalista americano di Indymedia ucciso da un poliziotto in borghese, ha acceso per un attimo i riflettori della stampa mondiale sulle vicende di Oaxaca in Messico. Vicende che si protraggono ormai da cinque mesi, ma che sono stato a lungo eclissate dalle controversie legate ai molto probabili brogli occorsi nelle elezioni presidenziali dello scorso 2 luglio – le quali hanno visto, per inciso, la riconferma del PAN, il partito di destra che governa il paese da 6 anni.

Lo stato di Oaxaca (di cui è capitale la città omonima) è il penultimo stato più a Sud della Confederazione messicana – appena prima del Chiapas – ed è anche uno dei più poveri dell’intera nazione. Oltre a ciò è la regione a più grande popolazione indigena del paese. Quasi due anni fà vi andò al potere come governatore, Ulises Ruiz Ortiz, del PRI - il partito che ha monoliticamente controllato la politica messicana per oltre settant’anni, prima dell’avvento del PAN nel 2000. Secondo la maggior parte degli oppositori e di molti osservatori internazionali, si trattò di un anticipazione, su scala locale, del “golpe elettorale” che sarebbe poi andato in scena, quest’estate, a livello nazionale. La notte delle elezioni tre sospettosissimi black-out sospesero lo scrutinio per ore. Qualche tempo dopo a Ampliación Santa Lucía (una quartiere periferico di Oaxaca) furono trovate migliaia di schede trafugate ed incenerite. Malgrado questo sospetto “peccato originario” sulla sua ascesa al ruolo di governatore – ruolo che in Messico, dato l’ordinamento fortemente federale del paese consente ampi margini di potere in svariati campi – Ruiz si è sempre negato ad ogni dialogo con le molte associazioni indigene e di base della società civile oaxaqueña, dedicandosi invece a una gestione privatistica delle cosa pubblica. Con appalti e commesse distribuiti a pioggia ad amici ed ad amici di amici, secondo la peggior tradizione clientelare e “caciquistica” del Messico. Per far tutto ciò, il neo-governatore non si è peraltro fatto molti scupoli a reprimere ogni genere di protesta, spesso sbattendo in carcere leader di movimenti sociali avversi alla sua politica. Per due anni il suo operato ha generato malcontento nella regione, senza tuttavia che questo si canalizzasse in uno scontro frontale.

A giugno però, uno sciopero dei maestri della regione, represso nel sangue dalle forze di polizia locali, ha fornito l’occasione propizia. Il motivo dello sciopero, indetto dalla SNTE (Sindicato Nacional de Trabajadores de la Educación) era eminentemente salariale – i maestri locali guadagnano poco più di 250 euro al mese e sono una delle categorie più deboli della società oaxaqueña; tuttavia la violenza della repressione ha riproposto la questione dell’illegittimità del ruolo ricoperto da Ruiz, oltrechè quello della sua gestione autoritaria e corrotta.
In poco tempo la protesta dei soli insegnanti si è trasformata in un movimento di massa. Centinaia di organizzazioni di base, sindacati e associazioni del tessuto sociale oaxaqueño si sono infatti confederati in una sigla, l’Appo (Asociación Popular de los Pueblos de Oaxaca) il cui primo obbiettivo sono le dimissioni del governatore. Quest’ultimo, ovviamente, ha risposto nella maniera più scontata e crudele possibile: attraverso repressione poliziesca, arresti arbitrari, utilizzo di sicari e paramilitari per uccisioni mirate. Alla fine di ottobre, rientrata nei ranghi la situazione a Città del Messico, dopo le proteste per i brogli, è giunta dalla capitale anche la famigerata PFP, la Policia Federal Preventiva. Secondo molti analisti, Fox, in procinto di lasciare la residenza de Los Pinos al compagno di partito Calderon, era tutt’altro che favorevole a chiudere con un bagno di sangue il proprio sestennato. Tuttavia nella delicata situazione istituzionale creatasi dopo l’elezione “fraudolenta” di luglio aveva bisogno, come tutto il PAN, dell’appoggio del vecchio PRI. E non poteva quindi esimersi da una difesa incondizionata di uno dei suoi più importanti governatori locali. L’arrivo della PFP – che forte di 4000 effettivi ha praticamente cinto d’assedio la città - ha generato come era prevedibile, una situazione di instabilità e violenza ancora più generalizzata, con continui scontri tra manifestanti e forze dell’ordine e brutali lesioni dei diritti umani da parte di quest’ultime. Il bilancio delle vittime dall’inizio del conflitto è già salito a venti – tra i quali, oltre a Bradley Will, alcuni maestri, un professore universitario e due ragazzi di dodici anni. Diverse organizzazioni non governative per i diritti umani (come Amnesty International Messico o il Centro de Derechos Humanos "Miguel Agustín Pro Juárez") denunciano la presenza di centinaia di persone detenute illegalmente (molte delle quali probabilmente sottoposte a tortura) oltrechè di decine di desaparecidos. Solo negli scontri dello scorso 25 novembre che hanno coinvolto gran parte delle vie del centro della città e portato alla “liberazione” da molti dei presidi e delle barricate erette dalla Appo, sono state arrestate 141 persone (di cui 35 donne) e altre 6 hanno perso la vita.

Ma è davvero solo l’eventuale destituzione di Ruiz il motivo di un tale dispiego di forze poliziesche, favorito addirittura da Città del Messico? La domanda è retorica. Ovviamente no. Ciò che probabilmente spaventa l’establishment priista locale e quello panista nazionale è il modello che l’Appo può rappresentare agli occhi di tutto il paese. Un modello di democrazia diretta, partecipata, basata sulla confederazione orizzontale delle forze della società civile, sull’assamblearismo – l’Appo ha più di mille delegati – e sul rifiuto di ogni imposizione calata dall’alto, soprattutto se da parte di una dirigenza corrotta e autoritaria come quella di Ulises Ruiz. Un modello che ricorda da vicino quello dei municipi autonomi zapatisti del Chiapas ed altre esperienze di democrazia partecipativa dell’America Meridionale. Un modello che, ovviamente, i poteri forti messicani vogliono scongiurare a tutti i costi.

domenica 10 dicembre 2006

“FIDUCIOSI” A SENSO UNICO

Dopo l’approvazione della finanziaria alla camera, il solito Schifani ha definito vergognoso l’utilizzo della fiducia da parte della maggioranza. E a ragione. Nulla infatti è più vergognoso che veder un governo aspettar tanto a metter la fiducia, provocando il parziale snaturamento di una manovra che aveva una sua qualche coerenza interna.

A Schifani ha fatto poi eco il sempre savio e moderato Casini parlando di «esproprio dell'aula» e dimostrando così un’indiscutibile conoscenza del voto di fiducia. Conoscenza che nasce, senz’ombra di dubbio, dall’esperienza diretta: quando erano al potere lui e i suoi amici, la fiducia fu posta addirittura 46 volte - perfino sulla legge anti-droga Fini-Giovanardi e sulla riforma universitaria.

Infine è giunta l’attesa chiosa berlusconiana: «Il ricorso al voto di fiducia sulla finanziaria è una cosa che non appartiene ai metodi di una vera democrazia». Niente male da parte di un veterano del voto di fiducia come lui. Ma alla luce delle accuse di brogli di Deaglio, che cos’è quest’ennesima uscita berlusconiana, un auto-confessione?


(Corsivo scritto per Vulcano, la rivista degli studenti dell’Università Statale di Milano).

martedì 5 dicembre 2006

SIAMO TUTTI POPULISTI

L’altra sera, in una trasmissione condotta dall'ex-direttore di un giornale che si definisce secessionista, ho visto una nota giornalista ex-comunista, ora sul libro-paga del giornale del Biscione più noto d’Italia, definire le inchieste di Report o quelle di Diario giornalismo “populista”. Mmm...Aveva sbagliato termine? Forse voleva dire popolare, civico, sociale, al servizio del cittadino? E allora perchè gli è uscito populista? Forse in quel momento pensava inconsciamente al suo datore di lavoro? Mah...Tutto questo mi ha spinto per associazione di idee dall’altra parte dell’Oceano, in Sudamerica, dove da qualche tempo sull’onda di grandi movimenti popolari, sono andati al potere governi che stanno attuando importantissime riforme. Riforme di svilluppo, redistribuzione, alfabetizzazione, partecipazione democratica, lotta alla fame, accesso alle cure sanitarie. Tutti – chi più chi meno (con sfumature diverse legate alla loro diversa caratura politica) – sono stati definiti “populisti”. A quel punto mi son venute mente le parole di uno dei più grandi religiosi del secolo scorso, Helder Camara. Il quale diceva: “Se do da mangiare ai poveri, mi chiamano Santo, se chiedo perchè hanno fame mi chiamano comunista”. Aggiornato alla caduta del Muro di Berlino, forse, il suo motto suonerebbe :“Se do da mangiare ai poveri mi chiamano santo, se chiedo perchè hanno fame mi chiamano populista”.

mercoledì 8 novembre 2006

L’IPOCRISIA DEI GIORNALISTI ITALIANI SUL VENEZUELA E SULL’AMERICA LATINA


Approfitto nuovamente di questo spazio per un altro sfogo-riflessione. Lo spunto di partenza è l’elezione di Panama a membro del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Fintanto che la sfida tra Venezuela e Guatemala era aperta i telegiornali nazionali e la carta stampata ci hanno coperto di servizi sulla questione. Giornalisti che non si sono mai occupati di Sudamerica hanno raccontato con accenti preoccupati del rischio che questo paese governato da un “caudillo che utilizza il proprio petrolio come arma di ricatto” (cfr. Giulio Borelli al Tg1) entrasse all’interno dei quindici. Poi quando il “pericolo” che il Venezuela potesse farcela è sparito e si è dato via libera alle mediazioni che hanno portato all’elezione di Panama, il fatto ha smesso di essere notizia, è scivolato via dai telegiornali ed è stato relegato alla dimensione di trafiletto o poco più sulla carta stampata.

La notizia della designazione di Panama è stata quasi ignorata dall’informazione televisiva. Tutto ciò merita qualche riflessione. Paradossale.

Nei mezzi di comunicazione di massa, ad onta di quello che si potrebbe pensare si parla molto di più dei paesi progressisti dell’America Latina che di quelli conservatori. Ma per parlarne male.

Chi scrive ha notato che gli unici due paesi le cui elezioni non siano state “coperte” dall’informazioni televisiva nostrana, tra i tanti interessati da tornate elettorali quest’anno, sono stati Colombia ed Ecuador. Guardacaso gli unici due nei quali ha vinto la destra – mettiamo tra parentesi l’indefinibile governo peruviano di Alan Garcia. Nel caso del primo infatti si sarebbe dovuto affrontare lo spinoso nodo dei paramilitari, nel caso del secondo parlare dei probabili brogli che hanno favorito il re delle banane Noboa. Meglio lasciar perdere. Per quanto riguarda il Messico, le cui elezioni anche solo per il peso politico ed economico del paese erano ineludibili, si è deciso di accettare la versione governativa e di non dar conto dei circa due mesi di controversie, seguiti alla consultazione elettorale.

Cosi finchè c’era l’occasione per parlar male del Venezuela, giù tutti a professare un pelosissimo interesse per le sorti del seggio latinoamericano del Consiglio di Sicurezza, salvo poi tornare alla consueta distrazione svanito il pericolo.

Chi scrive non è esente da critiche nei confronti di Chávez. L’abbracio fraterno nei confronti del presidente negazionista Ahmadinejad il leader della rivoluzione bolivariana poteva evitarlo, così come a volte potrebbe risparmiarsi certi eccessi populistici come i papponi filo-governativi propinati attraverso il domenicale programma televisivo Alò Presidente.

Ma qualunque giornalista onesto intellettualmente deve riconoscere che si tratta di dettagli folkloristici e secondari rispetto all’immane sforzo di giustizia sociale portato avanti dal governo di Caracas. Qualunque giornalista onesto dovrebbe riconoscere che il Venezuela non ha mai conosciuto un livello di giustizia, partecipazione, democrazia e pluralismo come in questi ultimi anni – pur nei limiti “fisiologici” di un paese prostrato da decenni di violenza e corruzione.

Invece i vari Romano, Riotta, Rampoldi preferiscono ricamare su questi aspetti secondari arrivando a descrivere il presidente (ed il governo) venezuelano come autoritario e dittatoriale. Gente che non si è mai interessata al Venezuela e ai suoi problemi pretende di dirci che oggi lo stato sudamericano è autoritario e dittatoriale.

Ma dov’erano questi signori alla fine degli anni ’80 quando il governo Pérez reprimeva nel sangue i cittadini venezuelani che scendavano in piazza a causa della crisi economica, durante il periodo del Caracazo, quando venivano soppressi tutti i diritti civili e si compivano massacri intollerabili? Come possono questi signori far finta di nulla e non riconoscere che nell’era chavista il paese ha conosciuto un incremento delle libertà civili e dei diritti umani come mai nella sua storia?

Perchè bisogna seguitare in quest’ipocrisia intollerabile e non dire le cose come stanno e cioè che certi giornalisti “liberal” del nostro bel paese più che alla sorte dei diritti umani e della democrazia in Venezuela (e nel resto dell’America Latina), sono attenti agli interessi economici italiani (e in particolare dell’Eni) colpiti dalle politiche di nazionalizzazione degli idrocarburi del governo di Caracas?

Perchè i mezzi d’informazione devono far finta di non vedere la “trave” delle violazioni sistematiche dei diritti umani di paesi come la Colombia, o quella delle frodi elettorali di Messico ed Ecuador ed enfatizzare invece la “pagliuzza” di singoli frasi o iniziative più o meno opinabili di governi democraticamente eletti (e pienamente democratici) come il Venezuela e la Bolivia?

Non farebbero più bella figura a dirlo apertamente che il loro scopo primario non è il rispetto dei diritti umani o della democrazia in Sudamerica, ma gli interessi di un pugno di multinazionali europee e statunitensi?

P.S. Si badi bene che ho tenuto appositamente fuori da questo discorso Cuba, che per i suoi deficit democratici e per la complessità della sua situazione non è immediatamente omologabile al resto del continente, pur essendo anch’essa esposta ad una campagna di “sovra-informazione fuorviante” identica a quella degli altri governi progressisti sudamericani.

mercoledì 1 novembre 2006

BABEL

L’incomunicabilità nell’era della globalizzazione e molto altro

A tre anni di distanza da 21 Grammi torna Alejandro Gonzales Iñarritu, con una pellicola, Babel che ha ottenuto nientemeno che il premio per la regia all’ultimo film di Cannes. Una pellicola a un tempo più semplice e complessa delle precedenti.
Più semplice perché un po’ meno giocata sulle strutture ad incastri spazio-temporali e sulle rotture della continuità narrativa di Amores Perros e 21 Grammi. Ma più complessa per il più ampio sforzo produttivo, dovuto all’articolazione del film in tre storie che si svolgono addirittura in tre continenti diversi: una sulla frontiera rovente tra Messico e Usa, una in Marocco e l’ultima addirittura in Giappone. Tre plot legati da una serie di nessi diegetici che emergono lentamente nel corso del film.
Assistiamo allora al tentato omicidio di una donna americana giunta in vacanza in Marocco con il marito, e contemporaneamente, alla sorte poco invidiabile della badante messicana cui ha affidato i pargoli ed ancora al cupo dolore di una ragazzina giapponese sordomuta che ha di recente perso la madre.
L’obbiettivo di Iñarritu (e del suo fedele sceneggiatore Guillermo Arriaga) era probabilmente quello di raccontare l’incomunicabilità nell’epoca della globalizzazione – di qui il titolo Babel. Incomunicabilità tra stati e culture: l’America claustrofiliaca che erige muri per tenere lontani i milioni di migranti messicani in cerca di lavoro, le difficoltà di comunicazione tra il mondo occidentale e quello arabo; ma anche tra esseri umani: tra marito e moglie (incapaci di parlarsi dopo la morte di uno dei figli) o tra padre e figlia come nella vicenda giapponese, dove la sordità della giovane protagonista si fa simbolo evidente di un’assenza di comunicazione più generalizzata. Tuttavia questo, che costituisce il nucleo tematico più appariscente del film, rimane solo a un livello di superfice. A un livello più profondo ritroviamo il solito tema della coppia Inarritu-Arriaga: quel senso di colpa legato ad un trauma rimosso che riemerge piano piano, incalzato dagli eventi drammatici (e imperscrutabilmente fatali) verso la necessaria catarsi finale. E così il dialogo di chiarimento finale tra Brad Pitt e la moglie, malgrado la cornice “globalizzante”, assomiglia moltissimo alla riconciliazione finale tra il personaggio interpretato da Benicio del Toro e la consorte in 21 Grammi, o al “messaggio in segreteria” dell’ ex-guerriglero nell’episodio finale di Amores Perros .

Il film, che parrebbe una riflessione sulla globalizzazione è invece, esattamente come 21 Grammi, una riflessione sui traumi inespressi, sui i sensi di colpi rimossi, sull’incapacità degli uomini di relazionarsi e di portare alla luce le proprie angosce profonde, a qualunque latitudine. Insomma poca politica e tanto dolore esistenziale.
Ma fino ad un certo punto. Perchè la descrizione della “civilissima barbarie” che si consuma ogni giorno lungo i confini tra Stati Uniti e Messico, nei deserti dell’Arizona, della California e del Texas, sulla frontiera più calda del pianeta – per inciso la parte più sincera e convincente del film – rappresenta l’atto d’accusa di un messicano deluso dal ricco paese vicino che l’ha accolto tra le sue braccia, ma respinge invece i suoi connazionali meno fortunati.

Per il resto il film conferma i meriti e limiti di Iñarritu. Da una parte la grande maestria nell’impaginare i film, nell’incastrare le storie – anche se qui la destrutturazione, più “geografica” che narrativa, suona a volte un po’ artefatta; l’abilità nel dirigere gli attori – quanto mai assortiti tra semiprofessionisti e stelle da blockbuster (non solo Pitt e la Blanchett, ma anche il divo latino Garcia Bernal); e il virtuosismo di alcune sequenze – meravigliosa quella che racconta la serata in discoteca della protagonista giapponese, con le continue soggettive silenziose che ne sottolineano l’estraniamento. Dall’altra parte riemergono lo stesso strisciante manierismo e gli stessi eccessi melodrammatici già riscontrati in 21 Grammi.
Insomma, malgrado le buone intenzioni, Iñarritu non sembra più essere in grado di tornare al felice equilibrio dell’opera prima, nella quale il suo indiscutibile talento visivo, la sapiente costruzione drammaturgica dello script di Arriaga e la descrizione sempre asciutta e mai compiaciuta della violenza e delle ingiustizie sociali della capitale messicana avevano trovato una sintesi straordinariamente felice.

Un’ultima (pessima) nota sul doppiaggio della versione italiana. Doppiaggio che vede tutti i personaggi ispanici del film esprimersi con un improbabile accento a metà strada tra un veneto da recita parrocchiale e la parlata del gabibbo. Ma quand’è che anche in Italia qualche distributore “oserà” ciò che è prassi comune in tutti i paesi del mondo (tranne che nella post-autarchica Italia): mandare nelle sale i film in lingua originale con i sottotitoli?

mercoledì 4 ottobre 2006

LETTERA APERTA A «DIARIO»

Approfitto del blog, fermo ormai da diversi mesi per pubblicare una lettera che ho scritto a «Diario» sabato scorso. Una lettera scritta di getto, in circa venti minuti, immediatamente dopo aver finito di leggere uno speciale di Enrico Deaglio (pubblicato sull’ultimo numero della rivista), dall’eloquente titolo Il complotto dell’11/9? Una boiata pazzesca.

Una lettera che con buon probabilità non verrà pubblicata da «Diario». Anche perché, spero, non sarà l’unica lettera di “protesta” che la rivista milanese riceverà in risposta all’articolo del suo direttore.

Forse anche per questo – per paura che vada persa in mezzo alla corrispondenza di «Diario» e nessuno la legga mai - la pubblico qui.

Che ci sia chi fa finta di non vedere, chi non vuole capire, chi non vuole sapere per paura o per disonestà, o semplicemente per il timore di perdere i propri punti di riferimento, di non riuscire più a distinguere i “buoni” dai “cattivi” è cosa che (purtroppo) non deve stupire. Ma un conto è se certe cose le scrive un giornale di destra - o al limite un giornale generalista come «Il corriere» o «La Repubblica». Un altro se le scrive «Diario», una rivista che ha sempre fatto del giornalismo d’inchiesta, libero e indipendentemente, la sua bandiera.

Spero che questa deprecabile iniziativa sia tutta ascrivibile al solo Deaglio e non coinvolga l’intera redazione di «Diario». Sarebbe proprio un peccato. Perché prendere un’inchiesta preconfezionata da altri e considerarla aprioristicamente la Verità – per quanto prestigiosa o competente possa esserne la fonte - è l’antitesi del giornalismo. E’ anche l’antitesi dell’intelligenza e dello spirito critico.

Sicuramente una tragedia come l’11 settembre è un avvenimento troppo complicato, troppo contadditorio per poterne accettare un'unica versione come Verità Assoluta. Se molti di noi sono arrivati alla convinzione che quello che ci è stata raccontato è falso, è perché hanno deciso di informarsi, di capire, di discernere leggendo ricostruzioni diverse, disparate. Perché hanno deciso di “non prendere per buone le verità della televisione” e di mettersi lì a guardare, a confrontare le testimonianze e le prove nella disperata ricerca di comprendere, di conoscere, di farsi un‘idea.

Anche perchè i 3000 morti del World Trade Center meritano tutto tranne la nostra disattenzione e la nostra indifferenza.

Per quanto mi riguarda, ho incominciato a diffidare della versione ufficiale dei fatti dell'11 Settembre, dopo aver letto il bel libro (regalatomi dal caro amico Diego) di Nafeez Mosaddeq Ahmed dal titolo Guerra alla libertà. A dispetto del nome Ahmed è uno studioso inglese dell' Institute for Policy Research & Development di Brighton, i cui testi sono utilizzati come materiale didattico perfino ad Harvard. Anche se il suo testo privilegia i retroscena politici del 11 Settembre, tuttavia la sua lettura è stato lo stimolo per interessarmi di più alla faccenda. Da allora ( circa un anno e mezzo fa) ho letto altre pubblicazioni e navigato parecchi siti che si occupano della questione.
Per incominciare a farvi un idea vi consiglio:

- il sito www.luogocomune.net che ha una bella sezione dedicata ai misteri dell'11 settembre.
- il film inchiesta di Massimo Mazzucco Inganno Globale, messo in rete da quei paladini dell'informazione libera che sono gli animatori di Arcoiris: www.arcoiris.tv/modules.php?name=Unique&id=4838 .
- Se non avete problemi con l'inglese Loose Change, uno dei primi documentari sull'argomento (ancorchè non il migliore) -al link http://www.loosechange911.com/ - e il fondamentale sito www.patriotsquestion911.com (da lì poi ci sono link ad altri siti importanti americani sull'11 settembre).
- Se non l'avete già visto su Rai Tre a Report (unica televisione, in tutto il mondo, che lo abbia mai mandato in onda), Confronting the evidences il film prodotto da Jimmy Walter , che è ora possibile guardare in streaming direttamente dal sito di Report a questo link http://www.media.rai.it/mpmedia/0,,report%5E10616,00.html



Considerazioni sullo speciale di Deaglio sull'11 Settembre


Caro Diario,

ho appena finito di leggere lo speciale di Enrico Deaglio sul 11 settembre e mi sento molto amareggiato. Sono abbonato alla vostra rivista da alcuni mesi, ma vi seguo e vi leggo da molto più tempo e vi ho sempre stimato per il vostro impegno per un’informazione libera, indipendente e rivolta solo all’accertamento della verità. Proprio per questo sono amareggiato dallo speciale di Deaglio – che è persona che stimo molto. Perché mi sembra rivolto solo a confutare delle tesi - quelle “complottiste” (che sono peraltro un universo molto variegato e per nulla riducibile ad unum) piuttosto che all’accertamento della verità. E per fare questo Deaglio si appoggia ad un’inchiesta quella di «Popular mechanichs» e la prende per oro colato. Confesso tranquillamente di non conoscere e non avere letto quell’inchiesta. Tuttavia ho letto diverse pubblicazioni e decine e decine di articoli sull’argomento (oltre ad aver visto parecchi documentari e filmati) e mi sono fatto una mia idea. Ma non prenderei mai nessuna di queste fonti, nemmeno la più prestigiosa per oro colato. Se oggi, cinque anni dopo l’11 settembre, credo che la versione ufficiale sia falsa, che sul Pentagono non sia caduto nessun Boeing e che le torri gemelle siano state demolite (che è peraltro cosa ben diversa dall’affermare che l’intero 11 settembre è un complotto o un auto-attentato) non è certo per merito di un’unica inchiesta, un’unica ricostruzione, un’unica fonte. Peraltro va aggiunto che negli Stati Uniti sostenere tesi affini a quella ufficiale è molto comodo, mentre a sostenere tesi “complottiste” si rischia l’ostracismo, l’ingiuria e la perdita del lavoro.

Ma al di là di tutto ciò, quello che mi colpisce della ricostruzione di Deaglio è l’assenza di alcuni dettagli essenziali, che, ripeto, non giustificano l’idea di un auto-attentato, ma inficiano fortemente la versione ufficiale.

Cominciamo dal Pentagono. Nello speciale di Deaglio sono pubblicate alcune foto. Tuttavia Deaglio si è guardato bene dal pubblicare le prime foto, scattate prima del crollo della facciata, quelle famose in cui si vede il foro di 3 o 4 metri. In esse si vedono le finestre dell’edificio, quasi tutte intatte. Se già appare inverosimile che un Boeing schiantandosi contro un edificio a 800 km all’ora si polverizzi, mi pare francamente impossibile pensare che lo spostamento d’aria e lo scossone portato alle mura dell’edificio dall’impatto non ne distrugga almeno i vetri.

In quelle stesse foto si vede peraltro il prato antistante completamente a posto, senza alcuna traccia di scompiglio, cosa anch’essa palesamente inverosimile ipotizzando il fatto che a colpire il Pentagono sia stato un aereo commerciale pesantissimo e ingombrante che, oltretutto, per colpire l’edificio frontalmente, avrebbe dovuto volare rasoterra per qualche centinaio di metri. A ciò si aggiunge la difficoltà della manovra che un pilota dilettante (giudicato dal suo insegnante di volo incapace perfino di guidare un semplice Cessna!) avrebbe dovuto compiere, abbassandosi al suolo a meno di cinquecento metri di distanza dall’edificio – perché oltre c’è un cavalcavia dell’autostrada – e poi volando radente al terreno per centinaia di metri. Ricordo una tramissione di qualche mese fa su Rai Uno (dico Rai uno!) in cui i migliori ingenieri aeronautici dell’aviazione civile italiana - che non ritengo possano essere tacciati in alcun modo di “complottistismo” - affermavano che la manovra sarebbe stata impossibile anche per piloti espertissimi, a causa delle forti oscillazioni (anche di centinaia di metri) prodotte dalle più minime vibrazioni della cloche, quando si vola con aerei così grandi ad altezze così basse.

Ma soprattutto la domanda rispetto al Pentagono è una: se l’Fbi e la Cia non hanno nulla da nascondere al proposito perché hanno fatto sparire lo stesso pomeriggio dell’attentato (e mai più mostrato) le registrazioni delle oltre 90 telecamere che sorvegliano il Pentagono, assieme a quelle del vicino svincolo autostradale e dell’antistante Hotel Sheraton?

Passiamo alle Torri Gemelle. Deaglio sostiene la tesi del crollo a causa dell’elevata temperatura prodotta dagli incendi, superiore ai mille gradi. Al di là del fatto che fotografie termiche scattate nel periodo intercorso tra l’impatto degli aerei e il crollo delle torri rivelano una temperatura molto più bassa, come è possibile che persone che lavoravano ai piani superiori a quelli dell’impatto siano riuscite a ridiscendere le torri (rimaste in parte praticabili), se la temperatura era di mille gradi?

Qui mi fermo anche se le prove da citare sarebbero ancora molte (dalle tracce di esplosivi che alcuni scienziati hanno trovati nei resti delle torri, alle testimonianze di scoppi anche alla base degli edifici).

Ma aggiungo un altro elemento plateale che Deaglio non ha preso in considerazione. Vale a dire il fatto che ci sono circa cinquanta tra membri della Cia, dell’esercito e delle Fbi che hanno “parlato”, hanno denunciato omissioni ed insabbiamenti, hanno chiesto spiegazioni. Tutti costoro hanno pagato in qualche modo le conseguenze del loro coraggio (a volte anche con il licenziamento). Tutti i responsabili dei presunti “disguidi”, delle falle dei sistemi di sicurezza che avrebbero portato all’11 settembre, invece, sono ancora al loro posto, ed anzi molti di loro sono pure stati promossi.

Mi sembra francamente abbastanza, non per credere nel complotto, ma sicuramente per ritenere che la versione ufficiale sull’11 settembre sia falsa, e che l’amministrazione americana ci stia nascondendo molte cose.

Francesco Zurlo

venerdì 15 settembre 2006

MESSICO: LA GRANDE FRODE

E’ finita. Dopo più di due mesi d’incertezza il Messico ha un nuovo presidente. Ma non è assolutamente detto che si tratti del candidato più votato dal popolo messicano. Anzi…


Ma andiamo con ordine. Il 2 luglio scorso si svolgono nel paese centroamericano le elezioni presidenziali. A contendersi la massima carica istituzionale ci sono i candidati dei tre partiti che da circa vent’anni tirano le fila della politica messicana: il PRI (Partido Revoluciònario Istitucional) il PAN (Partido de Acciòn Nacional) e il PRD (Partido de la Revoluciòn Democratica). Il PRI, sorta di democrazia cristiana messicana, ha governato ininterrottamente il paese per tutto il Novecento. Nato dalla rivoluzione di Villa&Zapata, di ispirazione socialista, si è lentamente trasformato nel monolitico strumento di dominio delle oligarchie conservatrici del paese (pur lasciando traccia del proprio passato progressista nell’ossimoro del nome attuale – in precedenza si chiamava Partido Revoluciònario Naciònal). Il PAN, partito nazionalista di destra ha quindi interrotto per la prima volta un dominio che durava dal 1910, nel 2000, vincendo le elezioni presidenziali. Ma la svolta è stata più apparente che reale dal momento che il PAN si è appoggiato alle medesime forze sociali del predecessore (i potentati economici del paese e l’alta borghesia legata a doppio filo con il vicino colosso statunitense) e ne ha proseguito la politica conservatrice e neo-liberista – il presidente uscente Vicente Fox è nientemeno che l’ex boss della filiale messicana della Coca-Cola, multinazionale che in Messico controlla circa l’80% delle bevande imbottigliate – il conflitto d’interessi non è, a quanto pare, solo una specialità nostrana…

Ma alle elezioni di luglio si profila una svolta. Il PRD, il terzo contendente – partito di centro-sinistra nato nel 1989 da una costola del PRI per dissenso rispetto alla politica autoritaria e neo-liberista di quest’ultimo – ha serie possibilità di imporsi. Può schierare, a fronte degli incolori Roberto Madrazo e Felipe Calderon di PRI e PAN, un pezzo da novanta, Andres Manuel Lopez Obrador, il sindaco uscente di Città del Messico. Amlo (come lo chiamano i suoi sostenitori) ha governato per cinque anni con straordinaria efficienza el monstruo, la capitale più popolosa e caotica della terra, riuscendo in quella che si può definire un’impresa: ripulire (seppur parzialmente) la corrottissima polizia della città. Sin dall’inizio i sondaggi lo danno in testa. Una sua vittoria sarebbe una vittoria epocale: spazzerebbe via l’asse conservatore da oltre mezzo secolo al potere in Messico e spingerebbe nuovamente il paese a sinistra, settant’anni dopo la presidenza illuminata di quel Lazaro Cardenas che rese la patria delle tortillas la nazione più avanzata dell’intera America Latina. Anche il Messico potrebbe accodarsi a quella ventata di cambiamento che viene dall’America Meridionale e che ha portato all’ascesa di governi progressisti in Brasile, Argentina, Venezuela, Bolivia, Cile ed Uruguay. Il rischio per PRI e PAN è grande. Nei due anni precedenti alla tornata elettorale parte allora una campagna diffamatoria in grande stile (orchestrata nell’ombra dall’ex-presidente del PRI Salinas de Gortari). Una campagna che facendo perno sulle dichiarazioni di un imprenditore argentino, Carlos Ahumada, mira a gettare addosso a Lopez Obrador infamanti accuse di corruzione. Il complotto viene però abbastanza in fretta allo luce, per diretta ammissione dello stesso Ahumada. Si arriva così alla fatidica giornata del 2 luglio. Tutti si aspettano una vittoria di Obrador…e invece, lo scrutinio assegna la vittoria, per l’esiguo scarto dello 0, 56 %, a Calderon, il candidato del PAN. Ma…sorpresa! Tra il numero dei votanti e i voti assegnati c’è uno scarto di 900 000 voti! Dove sono finiti? Nei giorni successivi si moltiplicano da tutti i distretti elettorali del paese le denunce più inquietanti: furti di urne, schede sottratte e fatte sparire, voti annullati senza ragione, intimidazioni, conti che non tornano, cifre falsificate… Lopez Obrador si appella immediatamente all’IFE (Instituto Federal Electoral), perché disponga un riconteggio totale dei voti. Tutto il Messico trema ripensando all’orribile precedente del 1988. Anche allora un candidato di sinistra (Chautemòc Cardenas, figlio del già citato Lazaro Cardenas) era dato per strafavorito. Invece alla fine di una lunga giornata d’estate risultò vincitore Salinas de Gortari, il candidato del PRI. Solo anni dopo venne fuori l’orrenda verità dei brogli che avevano condizionato quel voto.

Nei giorni successivi al 2 luglio allora – ricordando questo tremendo precedente – i sostenitori di Por el Bien de Todos (la coalizione che spalleggia Obrador) si riversano in massa per le vie di Città del Messico per protestare contro el fraude. Il 30 luglio, nello Zocalo, la piazza principale, si contano più di due milioni di persone. Nella capitale si moltiplicano los planteamentos por la democracia: occupazioni di piazze, strade, viali, dove si improvvisano dibattiti, si allestiscono spettacoli e concerti, si sperimentano nuove forme di lotta…E’ la più grande mobilitazione pacifica della storia messicana. Una rivolta che viene dal profondo della società civile, stufa di decenni di oppressione e corruzione del paese... Purtroppo la doccia fredda è in agguato. L’IFE, probabilmente manovrato dall’oligarchia panista, concede solo un riconteggio del 9% delle schede e lascia cadere nel vuoto le denunce di Lopez Obrador. Il riconteggio parziale non intacca la vittoria di Calderon e conferma i risultati. La traballante democrazia messicana incassa una nuova sconfitta. Ma cosa avrebbe potuto fare la sinistra al potere da giustificare un tale ricorso all’illegalità?

Forse avrebbe rinegoziato quel trattato di libero commercio-capestro con Usa e Canada – fortemente voluto dal PRI – che ha causato la chiusura di migliaia di aziende messicane (battute dalla concorrenza dei prodotti a Stelle Strisce) e spinto così all’emigrazione milioni di messicani… Forse avrebbe chiesto agli stessi Stati Uniti una politica dell’immigrazione più rispettosa dei migranti messicani… Forse avrebbe anche combattuto i cartelli del narcotraffico, da sempre collusi con il potere di Città del Messico… Molto probabilmente avrebbe ridimensionato lo sfruttamento delle principali risorse del paese da parte delle multinazionali straniere e il controllo delle più importanti catene di mezzi d’informazione da parte delle oligarchie legate a PRI e PAN. In qualche modo avrebbe allentato la dipendenza secolare dall’ingombrante vicino yankee - “Povero Messico, tanto lontano da Dio e tanto vicino agli Usa” diceva Porfirio Diaz… Magari avrebbe anche spinto verso il riconoscimento dei diritti delle popolazioni indigene e migliorato le condizione di vita dei milioni di cittadini messicani che vivono sotto la soglia di povertà. In ogni caso sarebbe stato un passo importante verso una democrazia reale.

(Articolo scritto per Vulcano la rivista degli studenti dell'Università Statale di Milano).

giovedì 4 maggio 2006

FISCHI PER FIASCHI


Sarò sincero. Ho mal sopportato i fischi a Letizia Moratti nei cortei del 25 aprile e del 1 maggio. Quando si scende in piazza è ben riflettere sulla propria presenza in corteo e non su quella degli altri. E poi come si può dubitare dell’antifascismo di Letizia Moratti? Non sarà solo per la sua contiguità con certi ambienti (salò)ttieri, di solito poco avvezzi a celebrare la Liberazione italiana e inclini invece a commemorare “quei bravi ragazzi”della Repubblica Sociale? (vedi il sindaco uscente Gabriele Albertini…) O per il fatto che, due giorni dopo la partecipazione al corteo del 25 aprile, ha siglato un accordo elettorale con due formazioni neo-fasciste come Fiamma Tricolore e Forza nuova? Come se nell’Italia post-berlusconiana non fosse lecito scendere in piazza il 25 aprile per il medesimo calcolo elettoralistico in base al quale si fanno entrare nella propria coalizione gli eredi politici del Duce! Ma dai… E ancora mi domando perché neppure il 1 maggio, festa del lavoro, alla signora Moratti sia stato steso un bel tappeto rosso di benvenuto. Sarà forse per le 8500 cattedre tagliate (con il licenziamento dei relativi titolari) quand’era ministro dell’Istruzione? O sarà invece per la precarizzazione e l’allungamento ventennale dell’iter dei ricercatori italiani? E comunque anche così fosse vi sembra il caso di prestarsi all’indecoroso (ancorchè pacifico) spettacolo di qualche decina di queruli fischi? Non era più educato minacciare l’aspirante sindaco – magari avendo dietro le spalle un bello sfondo blu - di non pagare le tasse in caso di vittoria elettorale?

(Corsivo scritto per Vulcano, rivista degli studenti dell'Università Statale di Milano)

martedì 21 marzo 2006

COLOMBIA - LA GUERRA CIVILE RIMOSSA

Di tutti i grandi paesi latinoamericani la Colombia è quello di cui in Europa si sente parlare di meno. E questo malgrado sia la democrazia più antica del continente, nonché uno degli stati più ricchi di risorse della regione – il suo sottosuolo è infatti pieno di idrocarburi, fosfati e gas naturale. Neppure la tornata elettorale dello scorso 12 marzo sembra aver scalfito il disinteresse dei media occidentali nei confronti del paese sudamericano. Un silenzio, quello sulla Colombia, che nasconde soprattutto lo stillicidio di fatti di sangue prodotto dalla guerra civile strisciante che il paese vive da quarant’anni; una guerra civile che negli ultimi tempi sembra vivere una fase di recrudescenza. Essa oppone, da una parte, la guerriglia dell’Eln (una piccola formazione d’ispirazione cattolico-guevarista) e soprattutto delle Farc (il Fronte Armato Rivoluzionario Colombiano, di stretta osservanza marxista) e, dall’altra, il governo di Bogotà e i gruppi paramilitari di destra – le cui sigle più famose sono l’Auc (Autodefensas Unidas de Colombia) e il temibilissimo BCN (Bloque Cacique Nutibara), attivo soprattutto nella zona di Medellin. Entrambi (Farc e paramilitari) sono compromessi, seppur con finalità diverse, con il narcotraffico – ricordiamo per inciso che la Colombia è il primo produttore mondiale di cocaina e il terzo di eroina. Sottolinea infatti Hernando Gomez Buendia, consulente colombiano dell’Agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite, in un’intervista alla Jornada, come: «A differenza dei paramilitari che usano la forza militare per consolidare i loro commercio di droga, i guerriglieri utilizzano il denaro della droga per consolidarsi militarmente».A questo breve elenco delle forze in campo vanno poi aggiunti ovviamente gli Stati Uniti, che in Colombia hanno il più grande ufficio estero della Dea (l’agenzia della Cia preposta alla battaglia al narcotraffico)- ufficio composto da ben 35 agenti ed un centinaio di investigatori i quali, a differenza dei loro colleghi negli altri paesi latinoamericani, hanno una ben più grande libertà d’azione e possono addirittura girare armati. Oltre a questo, l’intervento Usa nel paese sudamericano si realizza attraverso il Plan Colombia - un faraonico piano di finanziamento, ammontante a circa 700 milioni di dollari all’anno, (ufficialmente per la lotta al narcotraffico) - e la presenza sul territorio di circa 1200 persone tra soldati regolari e contractors, con il compito di addestrare l’esercito colombiano nella battaglia contro la guerriglia.

E’ in questo scenario poco edificante che hanno avuto luogo le già citate elezioni legislative. Elezioni che hanno assicurato al presidente Alvaro Uribe Velez, campione della destra colombiana, una maggioranza assoluta in Parlamento. Un risultato schiacciante che, nelle intenzioni dello stesso Uribe, dovrebbe servire come trampolino di lancio per la propria rielezione alla carica di presidente della repubblica (le elezioni presidenziali si terranno infatti a maggio). Una rielezione permessa unicamente da una legge ad personam fatta approvare a colpi di maggioranza lo scorso aprile dallo stesso Uribe, per poter ripresentare la propria candidatura. I sostenitori di Uribe hanno difeso la legge, controbattendo l’accusa di caudillismo degli oppositori con l’affermazione che “governare per altri quattro anni sarebbe fondamentale per completare il programma di lotta contro la guerriglia" avviato dal presidente.

In realtà il programma di lotta alla guerriglia avviato da Uribe pone non poche perplessità. Se infatti, esso, malgrado l’impiego massiccio di forze militari e il bombardamento di alcune zone rurali del paese, non può vantare risultati tangibili nella battaglia contro le Farc – solo poche settimane fa, per citare un episodio fra i tanti, i guerriglieri hanno fatto strage del consiglio comunale di Rivera, una cittadina del Sud del paese- tuttavia avrebbe, per i suoi fautori, il grande merito di aver contrastato lo strapotere dei paramilitari grazie ad un’apposita legge approvata lo scorso giugno, la Ley de Iusticia y Paz. Ma è proprio questa norma il provvedimento che pone più dubbi sull’effettivo impegno per la pacificazione del paese di Uribe&soci. La ley de Iusticia y Paz, infatti, nel presunto intento di promuovere la smobilitazione di tutti i gruppi paramilitari colombiani, offre l’amnistia a qualunque componente di qualsiasi formazione armata. E’ infatti sufficiente consegnare un’arma e dichiarare di aver fatto parte di un qualunque gruppo per riacquisire tutti i diritti civili e politici. Soprattutto ai paramilitari non viene chiesto nulla in cambio: né di ammettere i propri delitti, né di riconsegnare eventuali beni confiscati con la violenza, ne di smobilitare il proprio arsenale militare. Accertare eventuali colpe, per la legge, è infatti compito della magistratura. Ma non oltre sessanta giorni dal “reintegro” nella società civile del paramilitare. Dopo tale data viene infatti garantita l’impunità anche di fronte a prove incontestabili di partecipazione ai reati. Una legge con queste premesse, ovviamente, non può non incorrere nell’accusa di avere, dietro lo sbandierato scopo di smobilitare i paramilitari, quello contrario di legalizzarne l’operato. Proprio questo è infatti il rimprovero più grande che Amnesty International, in un comunicato apposito (al solito completamente ignorato dai media) rivolge alla Ley de Iusticia y Paz: «la strategia di smobilitazione in Colombia minaccia di consolidare i paramilitari e garantire agli autori di alcune delle peggiori atrocità contro i diritti umani di commettere più assassini». E concentrandosi sulla città di Medellin, il documento dell’Ong sostiene che lì il BNC: «recluta membri e agisce congiuntamente con le forze di sicurezza», con l’unica differenza che rispetto al passato ora i paramilitari «nascondono le loro attività sotto la denominazione di imprese private di sicurezza o agiscono come informatori per le forze di sicurezza».

In ogni caso chi ne fa le spese è la popolazione civile colombiana che negli ultimi mesi ha visto un massiccio incremento di tutte le forma di violenza politica: assassini, sparizioni, aggressioni di vario genere. Decine sono stati i sindacalisti e attivisti per i diritti umani rapiti, torturati o semplicemente eliminati. Stretta nella morsa tra guerriglia e paramilitari, la popolazione colombiana è vittima peraltro anche dei scellerati metodi di contrasto delle Farc da parte del governo di Bogotà; ben 222 000 persone - solo negli ultimi 12 mesi - sono state infatti costrette dall’esercito ad abbandonare le proprie terre, per favorire le manovre di accerchiamento militare dei guerriglieri. A ciò si aggiungono poi gli effetti nefasti della strategia di eradicazione delle coltivazioni di coca attraverso la fumigazione con defoglianti comici – strategia portata avanti principalmente grazie ai finanziamenti provenienti da Washington tramite il Plan Colombia. Le fumigazioni, affidate alla multinazionale statunitense Dyn Corp (una vera autorità nel campo del lavoro mercenario – suoi sono infatti la maggiorparte dei contractors americani attualmente presenti in Iraq) vengono infatti condotte con l’utilizzo su larga scala di sostanze altamente inquinanti come il glifosato e il Cosmo-flux 411Fquest’ultima per la sua forte tossicità negli Stati Uniti è addirittura bandita… Tuttavia senza grandi risultati. La quantità di cocaina esportata annualmente dalla Colombia – ad onta del forte impatto sociale e ambientale della strategia delle fumigazioni – non sembra avere registrato un calo sensibile.

Al contrario, negli ultimi tempi, è tutto l’operato degli Stati Uniti nella lotta al narcotraffico colombiano a destare grandi perplessità. Un recente documento (tanto eclatante quanto passato inosservato in Europa), ha gettato un’ombra molto sinistra sull’attività Usa in Colombia. Il 16 gennaio scorso la rivista Semana – una delle più importanti del paese sudamericano – ha infatti pubblicato parte di un memorandum segreto redatto nel dicembre 2004 da Thomas M. Kent, un funzionario del dipartimento di giustizia americano. In esso - definito dalla rivista colombiana «una vera bomba» - vengono descritti «con insolita franchezza» gravissimi episodi di corruzione di agenti della Dea in Colombia. Alcuni funzionari americani avrebbero infatti fornito informazioni riservate ai narcotrafficanti allo scopo di facilitarne gli affari, aiutato i paramilitari dell’Auc a riciclare denaro sporco e sarebbero addirittura coinvolti nell’omicidio di diversi testimoni da parte di quest’ultimi. Accuse molto pesanti che, rimaste segrete per più di un anno, rischiano ora di venire insabbiate e finire nel dimenticatoio.

Alla luce di questa politica ambigua non è difficile prevedere quali tremendi effetti di cronicizzazione della guerra colombiana potrebbe avere una rielezione di Uribe. E la posizione ed il comportamento del grande alleato a stelle e striscie non promette certo nulla di meglio.

domenica 19 febbraio 2006

CORRIDOIO N. 5

Anche se personalmente, per assonanza, mi ricorda solo Mattatoio n.5 , il bel romanzo di Kurt Vonnegut sul bombardamento alleato di Dresda , Il Corridoio 5 è un grande infrastruttura imprescindibile. Sulla colossale opera ferroviaria che dovrebbe unire Lisbona e Kiev, oggigiorno, s’ode a destra e a sinistra sempre e solo il medesimo squillo di tromba: non rimaniamo fuori dall’Europa! Poco importa se per farlo libereremo quantità ingenti di uranio e amianto in una regione, la Val Susa, che già ora vanta il primato nazionale dei casi di cancro. Non rimaniano fuori dall’Europa!

Dentro l’Europa però, a quanto pare, non siamo in buona compagnia: infatti, per realizzare l’alta velocità da Lisbona a Lione bisognarerebbe rifare ex-novo tutta l’autarchica ferrovia del generalissimo Franco mentre dall’altra parte, oltre Trieste, hanno altri problemi ben più gravi a cui badare. Soli al comando, dunque. Ma non è questo il primo merito della Tav. Piuttosto, ci sembra, quello di realizzare in un’ epoca di onnipresenza mediatica del Cavaliere (e di concomitante assenza del Mortadella) un simulacro di par condicio. La par condicio del conflitto d’interessi. Con appalti equamente divisi tra l’azienda di famiglia del ministro Lunardi (la Rocksoil) e la cooperativa rossa (?) Cmc, vicina a Ds. Insomma un gigantesco affare bipartisan. E vi sembra giusto che un pugno di valligiani preoccupati possa mandarlo a monte?

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