martedì 30 ottobre 2007

ARGENTINA, LA VITTORIA DI CRISTINA FERNANDEZ IN KIRCHNER

E’andato tutto come previsto alla fine in Argentina. Cristina Fernández in Kirchner, primera dama (cioè first lady) del presidente uscente Nestor Kirchner si è imposta con il 43% dei consensi nelle elezioni presidenziali, evitando quindi, secondo quanto dispone la legge argentina, perfino il ballottaggio – il premio di maggioranza consente a qualunque candidato superi il 40% con almeno il 10% di vantaggio sul secondo di entrare direttamente alla Casa Rosada.


Nessuna sorpresa quindi, a parte quella di non vedere per la prima volta sulla scheda le sigle storiche che da più di mezzo secolo si rimpallano il potere nelle paese australe: il PJ (il Partido Justicialista, il partito che raccoglie l’eredità peronista) e l’UCR (Unión Civica Radical, il Partito che da sempre si configura come alternativa moderata agli eredi del colonnello Peron). Sorpresa per la verità solo “nominale”, dal momento che la contesa si è comunque giocata tutto sommato su un classico schema peronismo vs anti-peronismo – anche se quello dei Kircner è pur sempre un peronismo fondamentalmente di (centro)sinistra. Ne si è avuto il tanto temuto effetto Macri, vale a dire l’influenza sulla consultazione del neo-governatore dello stato di Buenos Aires (leggasi il Berlusconi argentino) grande cliente una quindicina d’anni fa del governo ultraliberista di Carlos Menem ed alfiere di una nuova destra affarista, populista e spaccona – al nostro Silvio lo accomuna anche la proprietà di un club calcistico, nientemeno che il Boca Juniors, la squadra in cui esordì Diego Armando Maratona.

Può essere tuttavia utile a comprendere l’entità del successo della presidenta riepilogare le forze in campo nella contesa elettorale. Cristina Fernández e il suo Frente para la victoria hanno sconfitto in prima istanza Elisa Carriò, candidata della Coalición Civica, principale erede del UCR e paladina dell’opposizione “cristiano-sociale”, attestasi su un magro 22%. Al terzo posto (19%) Roberto Lavagna, ex-ministro dell’economia del governo Kirchner passato nelle file dell’opposizione “radicale” e sostenuto da personaggi sinistri della “prima repubblica argentina” come Raul Alfonsín e Eduardo Duhalde. In ordine sparso gli altri candidati: Alberto J. Rodriguez Saa (capofila del “peronismo dissidente”) al 7%, il regista Fernando Solanas (maestro del cinema sudamericano e portavoce di una sinistra più radicale e filo-chavista) al 1,6 e López Murphy (già ministro dell’economia nei gabinetti Menem e sostenitore del neoliberismo più puro e selvaggio, oggi fortunatamente caduto in disgrazia) a poco meno dell’1,5.

Un primo equivoco va sciolto subito. Cristina Fernández in Kirchner non salirà alla Casa Rosada solo in quanto moglie del titolare uscente e come marionetta nelle sue mani. La presidenta ha alle sue spalle una militanza nelle file del partito peronista anche più lunga di quello del marito e una sua personalità forte e decisa. Sbaglia chi crede che la sua sia stata un’elezione per interposta persona. E’ pero altresì vero che dietro alla sua candidatura e alla sua vittoria sta la volontà di proseguimento di un progetto e di una modalità di gestione della cosa pubblica che ha caratterizzato gli ultimi anni della politica argentina. E’ probabilmente nelle cifre e nei risultati del governo del marito – eletto quasi per caso nel 2003 in un Argentina ancora sconvolta dal crack del settembre 2001 – che stanno le vere cause della vittoria schiacciante di Cristina Fernández

Negli anni della gestione Kirchner l’Argentina è cresciuta a “ritmi cinesi” con un tasso intorno al 9% annuo. Il tasso di popolazione sotto la soglia di povertà è passata nel giro di 5 anni dal 54% a poco più del 25%. Malgrado un’inflazione che negli ultimi due anni ha ripreso a galoppare oltre il 10% le classi meno abbienti hanno visto crescere il loro potere d’acquisto, ricevuto importanti sussidi, osservato innalzarsi i salari minimi. La politica di moderata ma ferma ri-statalizzazione di parte dell’economia argentina (tra i settori ritornati sotto il controllo dello stato ricordiamo le poste, l’acqua, parte della ferrovie) ha fatto recuperare sovranità al paese australe, mettendo fine alla vera e propria svendita degli anni del neoliberismo sfrenato di Menem&De la Rua e dando così solidità alla ripresa. Le esportazioni hanno ricominciato a crescere, seppur confinate – e questo si è un fattore di debolezza – a settori tradizionali come la carne o i cereali.

Anche i diritti umani hanno conosciuto finalmente una loro inaspettata primavera, grazia alla nuova e virtuosa politica dell’amministrazione Kirchner. Abrogate le leggi di Obbedienza Dovuta e di Punto Finale, le leggi che avevano perpetuato l’impunità dei militari (probabilmente per un tacito accordo) durante tutta l’era menemista, si è incominciato a “svuotare gli armadi” e a celebrare a ritmo incalzante i processi nei confronti dei torturatori e degli aguzzini degli anni della dittatura militare – ultimo in ordine temporale, ma non di importanza, quello al “cappellano della morte” Von Wernich. Un impegno straordinario – vero fiore all’occhiello del presidente uscente e del suo governo - che è riuscito addirittura a conquistare le Madres de Plaza de Mayo ed a far dire alla loro storica portavoce, Hebe de Bonafini che “el enemigo ya no està en el gobierno”.

Si può naturalmente dubitare della solidità di questo modello sul lungo periodo. Un modello che si è basato su un misto di pragmatismo e rigore, ma anche su una congiuntura economica positiva e su un’accorta politica di alleanze – prima tra tutte quella con il Venezuela di Hugo Chávez che si è impegnato addirittura nell’acquisto dell’ingente debito estero del paese. E’ lecito quindi ogni dubbio nei confronti della tenuta del “miracolo economico argentino” negli anni a venire, ma è innegabile tuttavia che dietro al successo elettorale di domenica di Cristina Fernández in Kirchner ci siano i numeri e la sostanza di un paese che da quando ha messo fine alla politica neoliberista esasperata del suo passato prossimo e dato il benservito ai cattivi e interessatissimi consigli del Fondo Monetario Internazionale ha inaugurato un circolo virtuoso dalle possibilità insperate. Passeggiare oggi per le vie di Buenos Aires vuol dire passeggiare per una città ricca e prospera lontana anni luce dalla città invasa dai cartoneros nell’autunno di sei anni fa – e che paradossalmente oggi volta la spalle proprio agli artefici della sua ripresa, imponendosi come roccaforte di Elisa Carriò.
Non è tutto rose e fiori ovviamente e le sacche di povertà che resistono nel paese, dalle villas miserias del Gran Buenos Aires (l’hinterland della capitale) alle provincie del nord andino sono lì a dimostrarlo. Ed è proprio questa la sfida che attende Cristina Fernández che dovrà passare dalla vuotezza di una campagna elettorale condotta vivendo sugli allori conquistati dal marito nella legislatura precedente ad una politica energica che sappia dare fondamenti stabili alla crescita argentina ed infondere maggiore radicalità nella lotta alla povertà - superando magari in questo anche la parziale moderazione in campo economico del marito. Per tacitare così tutti coloro che hanno visto nel “passaggio del testimone in famiglia” delle elezioni di domenica scorsa scarsa limpidezza democratica ed un retaggio del passato e presunto paternalismo peronista.

Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari.

Ti piace questo post? Votalo su OkNotizie

domenica 28 ottobre 2007

BOLIVIA: DOPPIO ATTENTATO A SANTA CRUZ DELLA SIERRA.

La notizia è di qualche giorno fa, ma purtroppo ne vengo a conoscenza solo ora. Nella notte tra domenica e lunedì scorso, 22 ottobre, due bombe sono esplose a Santa Cruz della Sierra, seconda città della Bolivia e capitale dell’opposizione oligarchica, separatista e filo-razzista al governo di Evo Morales.
Più che simbolici i luoghi colpiti (fortunamente senza danni alle persone): il consolato venezeuelano della città e una casa abitata da alcuni medici cubani impegnati in un progetto di cooperazione nell’ambito dell’ALBA (Alternativa Bolivariana para las Américas).
Non è difficile pensare a chi possa esserci dietro a questi due attentati o chi, se non autore materiale, possa averli in qualche modo ispirati. Santa Cruz è infatti da sempre la patria della destra “bianca” del paese, violentemente razzista nei confronti degli andini e dei movimenti indigeni che hanno portato al potere Evo Morales. Da mesi guida una fronda anti-Morales che mira a far naufragare l’ambizioso progetto della costituente impiantata a Sucre e a far prevalere un progetto separatista che punta a rendere autonome ed indipendenti le ricche e fertili zone dell’Oriente boliviano dal resto del paese andino. Insomma una vera azione di sabotaggio volta ad impedire ogni reale processo di cambiamento nel paese sudaericano, scongiurando politiche di redistribuzione, riforma agraria ed ogni altro provvedimento che possa mettere in forse decennali privilegi.

Si spera che l’avvenimento sia un fatto isolato anche se è difficile crederlo, dal momento che sembra inscriversi in una strategia plurale di innalzamento della tensione nei confronti del governo di Evo Morales (e visti gli obbiettivi colpiti, anche della sua politica estera). Strategia di cui citiamo in questa sede perlomeno altri due episodi salienti degli ultimi tempi: il violento sabotaggio messa in atto recentemente dall’organizzazione neofascista di Santa Cruz, Union Juvenil Cruceñista dell’Assemblea Costituente a Sucre e la scoperta da parte delle autorità di un pampleth redatto da ignoti oppositori contenente un Plan para tumbar el Indio de mierda [Piano per far cadere l’indio di merda] sul quale ogni commento è superfluo.

Alcuni analisti attribuiscono l’attentato al consolato venezuelano ad alcune inopportune dichiarazioni del presidente Chavez che aveva affermato qualche giorno prima che, in caso di golpe o rovesciamento di Evo Morales, il Venezuela sarebbe stato pronto a “vietnamizzare la Bolivia”. Giustificazioni puerili, dal momento che da tempo si conosce la pericolosità dell’opposizione secessionista contro il governo di Evo Morales e la forza contundente di alcune sue frange paramilitari (come la già citata Union Juvenil Cruceñista).
L’auspicio è che la fragile primavera boliviana possa non interrompersi per l’ennesima cospirazione proveniente da Santa Cruz e continuare nel suo cammino di giustizia sociale.

Oggi in ogni caso – lo ricordo a chi non ne fosse informato – Evo Morales sarà a Rimini per ritirare un premio assegnatogli dalla Fondazione Pio Manzù e domani incontrerà a Roma il presidente del consiglio italiano Romano Prodi.

Ti piace questo post? Votalo su OkNotizie

venerdì 26 ottobre 2007

"GUATEMALA IL PAESE SENZA SINISTRA". INTERVISTA A DANTE LIANO.

Dante Liano è uno dei più importanti intellettuali e scrittori guatemaltechi. Da anni vive in Italia e insegna lettura ispanoamericana all’Università Cattolica di Milano. Ma continua a seguire con passione le vicende del suo paese. In passato infatti ha collaborato a lungo con Rigoberta Menchú, di cui ha curato diverse pubblicazioni.
E’ quindi la persona ideale per commentare il risultato del primo turno delle recenti elezioni guatemalteche. Elezioni che hanno visto, come noto, il fallimento della candidatura di Rigoberta Menchú, non andata oltre il 3% dei voti e quindi la delusione rispetto alla possibilità di un riscatto indigeno alle elezioni. Possibilità, forse rimandata alle prossime consultazioni, previste per il 2012.
Nel frattempo al ballottaggio del 4 novembre, si sfideranno Álvaro Colom dell’Unidad Nacional de la Esperanza (UNE) partito di centro che ha ottenuto il 28,9 dei consensi e Otto Pérez Molina attestatosi, con il suo Partido Patriota (PP) al 23, 5 delle preferenze. Quest’ultimo, candidato della destra e personaggio dal passato oscuro - è stato membro della Direzione di intelligence militare e dello Stato maggiore nei primi anni novanta, nonché informatore della Cia - è stato protagonista di una grande rimonta, verosimilmente grazie alle sue promesse di ordine e sicurezza.
Altro elemento preoccupante è l’elezione a deputato di Efraín Ríos Montt, il sanguinario dittatore a capo del paese nei primi anni ottanta, tra i maggiori responsabili del genocidio degli indios perpetrato durante i quarant’anni della guerra civile.

- Innanzitutto, qual è il suo giudizio sui risultati dal primo turno? Si aspettava il testa a testa tra Colom e Pérez?

Si era ampiamente prevedibile. Bastava avere un’idea generale del Guatemala per aspettarsi un risultato di questo tipo. L’unico dato forse un po’ sorprendente è che il partito di governo, la Gran Alianza Naciónal (GANA) del presidente uscente Óscar Berger non sia andata oltre il terzo posto, seppur con molti più volti di quelli che si aspettava. [per l’esattezza 526 000, il 17, 2 delle preferenze n.d.r.]

Come giudica il risultato modesto di Encuentro por Guatemala, il partito di Rigoberta Menchú?

Purtroppo non è molto sorprendente che Rigoberta abbia preso solo il 3% dei voti che, in termini concreti, sono circa 100 000 voti. Ciò che stupisce semmai è il divario con alcuni sondaggi fatti l’anno scorso, secondo i quali il 71% dei guatemaltechi avrebbe visto bene Rigoberta come presidente. Questo significa che un conto è la simpatia per un personaggio in vista, e un conto sono le reali intenzioni di voto.
Il vero dato preoccupante è che Rigoberta abbia preso meno voti del suo acerimmo nemico, il generale Ríos Montt. Cosi come il fatto che con queste elezioni siano praticamente scomparsi gli unici due partiti di sinistra guatemaltechi – Encuentro por Guatemala di Rigoberta Menchú è piuttosto un partito di centro-sinistra. Questo significa che in Guatemala oggigiorno non esiste una vera sinistra. E in una democrazia davvero compiuta è importante veder rappresentato tutto lo spettro politico.

Ma quali sono secondo lei le cause della sconfitta della Menchú?

Ci sono fondamentalmente due ragioni. La prima è il fattore-tempo: Rigoberta si è candidata a febbraio, e una campagna condotta in così pochi mesi ha scarse possibilità di successo. Poi c’è una questione economica: mentre i suoi avversari hanno potuto disporre di milioni di quetzales per la campagna elettorale, Rigoberta ne ha spesi solo 53000, l’equivalente di 5300 euro. Una cifra ridicola. Questo significa che non ha potuto realizzare tanti spot e apparizioni televisive. E purtroppo anche nei dibattiti a cui è stata invitata, non è riuscita a essere incisiva come quando parla dal vivo a grandi masse di persone.
Inoltre bisogna tener conto che Encuentro por Guatemala è un partito molto piccolo, poco radicato sul territorio. E poi c’è il fatto che in Guatemala le elezioni tradizionalmente si vincono con i regali. Camicie, sacchi di fertilizzante regalati alle popolazione nelle campagne. Rigoberta invece ha promesso dignità e non è scesa a compromessi con nessuno. Questo, in assenza di un’organizzazione partitica capillare, non ha pagato.

Crede che possa aver influito, in questo fallimento, l’atteggiamento della Menchú rispetto alla candidatura di Ríos Montt, il suo non averlo attaccato, e non aver preso parte alla denuncia del giudice spagnolo Santiago Pedraz?

Può essere un fattore. Qualcuno può averci visto una specie di tradimento. Ma di sicuro non è stato determinante – del resto Ríos Montt è stato eletto. Può invece aver influito il fatto che la Menchú fosse stato ambasciatrice per la pace nel governo di Berger. Il contatto con il potere a volte viene interpretato negativamente.

La campagna elettorale è stata la più violenta della storia guatemalteca. Quali sono state per lei le cause di quest’esplosione di violenza? E quanto può aver agevolato questo clima la rimonta di Pérez – il cui slogan era “Vota con mano dura”?

Purtroppo la violenza in Guatemala non è una novità. All’origine c’è la violenza della guerra civile. Finita la guerra si è trasformata in violenza comune, delinquenza. Molti di coloro che hanno preso parte alla guerra si sono riciclati, soprattutto nel narcotraffico. E tutto ciò ha generato grande insicurezza, tanto in città che nelle campagne. Oggi in Guatemala si può morire per il furto di un telefonino. La grande criminalità investe soprattutto sul narcotraffico – il Guatemala è paese di passaggio della cocaina che dalla Colombia va agli Stati Uniti –, sui migranti diretti verso gli Usa e sul traffico di bambini. Quindi la promessa di Pérez Molina di ristabilire immediatamente ordine e sicurezza fa grande presa. Il problema è che lui ipotizza risposte violente. Il che genera scenari terribili che in Guatemala già conosciamo. Ai tempi di Ríos Montt c’erano i tribunali speciali che condannavano e uccidevano i delinquenti. Hanno ammazzato un sacco di gente, ma non hanno risolto nulla e ora siamo daccapo.

Pérez Molina, con i suoi trascorsi torbidi può essere un pericolo per la democrazia? Tra l’altro vuole tornare ad applicare la pena di morte, come Alan García in Perù…

No, non credo che sia una minaccia per la democrazia. In altri paesi dell’America Centrale si sono fatti esperimenti simili. In Honduras, per esempio, le bande giovanili sono state quasi sterminate. Ma poi si sono rigenerate e il paese non ha risolto nulla. Credo che Pérez Molina, se eletto, non possa durare più di una legislatura. Semmai il pericolo è che vuoti le casse dello stato. Perché spesso in Guatemala si entra alla casa presidenziale a mani vuote e se ne esci arricchiti – c’è stato anche chi ne è uscito proprietario di un’isola nell’Oceano Atlantico [Cerezo Arévalo, il primo presidente democratico del Guatemala, dopo la dittatura n.d.r.]

La grande stampa internazionale ha spesso omesso il fatto che Ríos Montt sia tornato in parlamento. Cosa significa la sua elezione, e quanto intralcerà la battaglia per la giustizia rispetto agli anni del genocidio?

Nulla. La sua impunità era di fatto già stata sanzionata negli accordi di pace del ’96. Personalmente non credo che la giustizia rispetto agli anni del genocidio possa fare passi avanti. La gente in Guatemala vuole guardare al futuro. La memoria storica è già stata giudicata ed è già stata data una sanzione politica e morale. Non bisogna dimenticare che la guerra civile l’hanno vinta i militari. Non l’hanno vinta le forze democratiche. E i militari continuano in qualche modo a essere al potere. La democrazia si esprime solo nelle elezioni. Ma per il resto il paese deve ancora camminare tantissimo. Certo, si sta meglio oggi che ai tempi della dittatura. Ma non abbiamo comunque una democrazia così come la intendete voi in Europa.

Cosa ne pensa di Colom? In caso di vittoria, quanto crede che cambieranno o non cambieranno le cose in Guatemala? Ci si può aspettare un avvicinamento del Guatemala ai governi progressisti dell’America Latina o il Guatemala rimarrà nell’orbita di Washington? A quanto pare infatti Colom non sembra disposto a mettere in discussione il Trattato di Libero commercio con gli Usa…

Credo che Colom rappresenti la continuità. Anche perché non ha un vero programma. Prevede qualche lieve riforma, ma non i cambiamenti radicali di cui un paese come il nostro avrebbe bisogno. Noi siamo tradizionalmente nell’orbita più stretta di Washington e non credo che nessuno abbia il coraggio di spostarsi di lì. Certo non Colom. Magari in futuro, ma non ora. In ogni caso io spero in una vittoria di Colom al ballottaggio, perché con Pérez Molina si rischia l’imbarbarimento, l’incancrimento dei nostri problemi.

Rispetto al 2012 vede qualche possibilità che anche in Guatemala possa nascere un movimento indigeno forte, come quello, per esempio, che ha portato alla vittoria di Evo Morales in Bolivia?

E’ molto probabile. Ci sono tanti intellettuali indigeni, che purtroppo non si conoscono fuori dal Guatemala, ma che stanno creando una coscienza forte all’interno del popolo maya. E la popolazione indigena è quella che da più speranza. Non è mai stata al potere, pur avendo una cultura solida e profonda. E’ l’unica che può proporre una vera alternativa. E in Guatemala abbiamo quanto mai bisogno di un profondo cambio di classe politica.

Intervista realizzata per il settimanale on-line Fusi Orari

Ti piace questo post? Votalo su OkNotizie

martedì 9 ottobre 2007

ERNESTO CHE GUEVARA, QUARANT'ANNI DOPO

"Soprattutto, siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa in qualunque parte del mondo. È la qualità più bella di un rivoluzionario"

Ernesto Guevara della Serna, detto Che, 1965


Per ricordare Ernesto Guevara a quarant’anni dalla sua morte ho scelto questa frase dalla lettera ai figli. E’ quella che ho sempre sentito più mia. Ed è forse anche quella più universalmente condivisibile; condivisibile anche da chi, non-violento, rifiuta l'idea della lotta armata. Concerne quella capacità di indignarci, sempre e comunque di fronte all’ingiustizia. Quella capacità che Ernesto aveva acquisito viaggiando in lungo e largo per l’America Latina, vedendo e toccando con mano le sue molteplici vene aperte. Quella capacità che purtroppo oggi ci porta ad indignarci anche per lo svilimento ad icona pop della sua figura, operato da migliaia di adulatori farisei sparsi per tutto il mondo.

domenica 7 ottobre 2007

IN PRINCIPO ERA IL VERBO. E IL NEOLIBERISMO ERA IL VERBO

Oggi ascoltavo con interesse l’intervista della sempre dannosa Lucia Annunziata al ministro Padoa Schioppa. Tra le tante domande inerenti alla neonata finanziaria, a un certo punto la solita fatidica domanda: “Cosa pensa di fare rispetto al problema più grave dell’Italia degli ultimi anni, la spesa pubblica”?


La maggiorparte dei telespettatori l’avrà sentita senza farci caso, come d’abitudine. A furia di sentirselo dire che la spesa pubblica è un problema, ormai ne siamo tutti convinti. La spesa pubblica è un problema. Ma la spesa pubblica è davvero un problema?

All’origine c’è la comunità europea che stabilisce il rapporto deficit/Pil non oltre il 3% - rapporto peraltro discutibile, ma soprasediamo. L’Italia è stata lungo al di sopra di questo rapporto. Ma ora le cifre parlano chiaro: l’Italia è all’ 1,7 nel rapporto deficit/Pil. E lo ha fatto senza ricorrere a (ulteriori) tagli della spesa pubblica, ma semplicemente ricorrendo a una vigorosa lotta all’evasione fiscale. Lo ha fatto attraverso l’extragettito. Obbiettivo raggiunto, tutti contenti, no? Invece no, perché la spesa pubblica non è stata tagliata.

Ogni paese dovrebbe avere il diritto di gestirsi i conti come meglio crede. Ci sono diversi modi di raggiungere un certo livello di bilancio. Riduzione della spesa certo, ma anche lotta agli sprechi, aumento delle imposte, recupero dell’evasione fiscale, ecc…Noi l’abbiamo raggiunto mettendo fine a una falla decennale: quella di un’evasione fiscale che era la più alta del mondo occidentale. Tutto a posto dunque, no? E invece no, bisognava tagliare la spesa pubblica.

Tagliare la spesa pubblica non è più una questione funzionale o meno a un progetto politico ed economico. E’ un dogma. E’ il dogma dell’unica vera grande religione che il mondo occidentale riconosca nell’era postmoderna in cui viviamo: il neoliberismo. E il taglio della spesa pubblica, la privatizzazione e l’esternalizzazione che ne consegue sono il cardine di ogni ricetta neoliberista. In realtà non sono assolutamente necessarie al recupero del rapporto deficit/Pil, come dimostra quanto avvenuto negli ultimi mesi. Ne è detto che aiutino il pareggio di bilancio, altro punto cardine del neoliberismo. Non parliamo poi del loro effetto sull’economia globale, sullo sviluppo, sulla diffusione della ricchezza.

Ma la questione è un’altra. Che importanza ha dimostrarne l’inutilità di una cosa quando ormai questa è assurta a dogma di fede, a verità rivelata? Si può forse dimostrare l’inutilità delle religioni, delle fedi? Possono valere le argomentazioni razionali nei confronti di dogmi inculcati nelle menti di centinaia di migliaia di inconsapevoli ed ossequienti fedeli sparsi ormai in tutto il mondo occidentale? Qualcuno può metter in discussione una religione?

Il taglio della spesa pubblica così come il neoliberismo non sono più una forma applicabile o meno da stati e governi. Sono diventati dopo anni di sermoni mediatici l’unica via possibile, l’unica soluzione, l’unica verità, per folle sempre più grandi. Non è più il tempo di “Nulla salus extra ecclesia”. Ora il nuovo verbo è “Nulla salus extra mercato”.

Ti piace questo post? Votalo su OkNotizie

giovedì 4 ottobre 2007

VIVERE BENE

Riprendo dall’ottimo blog VivaBolivia – strumento imprescindibile per conoscere più a fondo uno dei paesi che mi è più caro in assoluto – uno stralcio tradotto da un’intervista a Evo Morales. Una sorta di manifesto per il cosiddetto socialismo del XXI secolo e per ogni idea di sviluppo sostenibile. Oltrechè una lezione di dignità, che viene da un presidente che qualcuno ritiene impresentabile e da un paese che secoli di sfruttamento hanno reso il più povero del Sudamerica.


Il “vivere bene” è vivere in eguaglianza e giustizia. Dove non ci sono espropriati ne espropriatori, dove non ci sono esclusi ne quelli che escludono, dove non ci sono emarginati né coloro che emarginano. Il « vivere bene » è vivere in comunità, in collettività, in reciprocità, in solidarietà e soprattutto in complementarietà.
Il “
vivere bene” non è la stessa cosa che il“vivere meglio”, il vivere meglio dell’altro. Perché il vivere meglio, rispetto al prossimo, rende necessario espropriare , instilla la rivalità, concentra la ricchezza in poche mani. Allora, si produce una profonda competizione, alcuni vogliono vivere meglio e questo porta altri, la maggioranza a vivere male. C’è una grande differenza, perché il vivere bene è vivere in uguaglianza di condizioni ,il vivere meglio è egoismo, disinteresse per gli altri, individualismo.
Il “
vivere bene” è opposto al lusso, all’opulenza, allo spreco, è contrario al consumismo. Non si capisce come in alcuni paesi del nord, nelle grandi metropoli per esempio, ci sono persone che comprano un vestito, lo usano una volta, e poi lo buttano via. Se non hai interesse per la vita degli altri, rimane solo l’interesse individuale, al massimo per la propria famiglia. La mancanza di interesse per gli altri, genera, allora, oligarchia, nobiltà, aristocrazia, elites che pretendono sempre di vivere meglio sulle spalle degli altri"

Ti piace questo post? Votalo su OkNotizie

lunedì 1 ottobre 2007

MESSICO - DEMOCRAZIA ALLA DERIVA?

Censurata la presidente della Camera. Anche questo, a quanto pare, è successo nel nuovo Messico di Felipe Calderón, il presidente andato al potere lo scorso autunno tra giganteschi sospetti di brogli elettorali.
E’ accaduto lo scorso 1 settembre, ma non ha purtroppo avuto lo spazio che meritava sui media internazionali. Era il giorno della presentazione in Parlamento dell’annuale informe del presidente della Repubblica. La cerimonia voleva che Ruth Zavaleta, la presidente della Camera ricevesse direttamente l’informe dalle mani di Calderón. Ma la Zavaleta, appartenente al PRD, il partito di centrosinistra “frodato” alle ultime elezioni politiche, aveva annunciato da giorni che appena prima della consegna avrebbe pronunciato un discorso motivando il proprio rifiuto a ricevere l’informe dal presidente – lasciando così l’incarico al vice. Quindi sarebbe uscita dall’aula parlamentare insieme a tutti i compagni di partito del PRD, in segno di protesta contro l’illegittimità dello stesso Calderón.
Ed invece all’ultimo momento un inquietante “problema tecnico” ha colpito il CEPROPIE (Centro de Producción de Programas Informativos y Especiales de la Presidencia de la República), l’organo presidenziale incaricato di riprendere la cerimonia, impedendo a Televisa e Tv Azteca, le due uniche tv nazionali in chiaro del paese di trasmettere l’avvenimento.
Inconveniente (ovviamente) risolto subito, giusto in tempo per poter mandare in onda la consegna della relazione da parte di Calderón. Ma nel frattempo tanto il polemico discorso della Zavaleta, che l’uscita dall’aula dei parlamentari del PRD era stata oscurata a milioni di messicani che in diretta Tv stavano seguendo l’avvenimento.


Davvero solo un incidente? E’ difficile crederlo dal momento che l’episodio rappresenta soltanto l’ultimo di una lunga serie di inquietanti segnali sul (cattivo) stato della democrazia messicana e sui limiti della libertà di espressione nel paese.

Il biglietto da visita del nuovo Messico “legge & ordine” lo si era avuto lo scorso autunno. Il passaggio di consegne tra Fox – l’ex- presidente messicano, compagno di partito (PAN) di Calderón - non era ancora ultimato che già la mattanza di Oaxaca riempiva le pagine dei giornali. La protesta di questa tranquilla città del sud contro il proprio governatore corrotto e autoritario veniva repressa nel sangue, con l’aiuto di reparti speciali della Policia Federal Preventiva mandati appositamente da Città del Messico. Più di venti i morti, centinaia gli arresti e le deportazioni forzate in carceri speciali a centinaia di chilometri di distanza, decine le denunce di torture e violenze, secondo auterevoli organizzazioni per i diritti umani come le messicane RODH (Red oaxaqueña por los derechos humanos) e LIMEDDH (Liga mexicana por la defensa de los derechos humanos) ed Amnesty International.

Niente di nuovo purtroppo nel Messico attuale: già a maggio 2006 un’analoga repressione aveva colpito gli abitanti di San Salvador Atenco nell’entroterra di Città del Messico (rei di opporsi al progetto di costruzione di un centro commerciale) e ancora prima l’esercito aveva soffocato nel sangue, nello stato di Michoacán, una serie di scioperi dei minatori. Ma con qualcosa in più: i segni di un‘escalation repressiva, il campanello d’allarme sul pugno di ferro in agguato contro i movimenti sociali che avevano accompagnato la lunga contesa elettorale chiusasi poco prima, tra evidenze di brogli di tutti i tipi.
E a “rincarare la dose” poco dopo, il neopresidente Calderón era apparso alla televisione in abiti militari – cosa mai avvenuta in precedenza nella storia recente del Messico – e aveva quindi proposto una serie di riforme in materia di sicurezza tra cui l’aumento dello stipendio dei militari e la possibilità di realizzare intercettazioni telefoniche e perquisizioni senza mandato. Subito dopo aveva proceduto alla nomina del controverso Ramírez Acuña (sul suo capo pesano ben 640 denunce di tortura) a ministro degli Interni e al raddoppio degli effettivi della Policia Federal preventiva.

Negli ultimi mesi tanto Amnesty International che Human Rights Watch hanno segnalato frequenti violazioni dei diritti umani nel paese così come un atteggiamento di patente impunità rispetto agli abusi rilevati nelle vicende di Atenco e Oaxaca. Soprattutto, a detta delle due organizzazioni per i diritti umani, particolare preoccupazione desta l’escalation di violenza nei confronti dei giornalisti che mette a serio rischio la possibilità di libera informazione nel paese centroamericano.
Nel solo 2006 infatti, in Messico, sono stati uccisi ben 9 giornalisti – peggio è andata solo in Iraq – e nei primi mesi del 2007 ne sono già stati ammazzati o fatti sparire altri 4. Casi di censura, spionaggio e intimidazione sono stati riportati in diverse regioni del paese – da Puebla, a Guanajuato a Sonora.

Ed è anche il sistema radiotelevisivo del paese a essere sul banco degli imputati. Le uniche due televisioni nazionali in chiaro – Televisa e Tv Azteca- che configurano di fatto un duopolio, sono entrambe legate a doppio filo al PAN, il partito di governo. Nella campagna elettorale che ha portato alla contestata vittoria di Calderón, queste ultime, violando ogni possibile rispetto della par condicio, hanno scagliato contro gli spettatori messicani qualcosa come due milioni di spot a favore del candidato del PAN, infilandoli in mezzo a qualunque trasmissione, dalle telenovele alle cronache di eventi sportivi. Chiunque abbia avuto modo di vedere le due emittenti almeno una volta conosce il loro potere deformante della realtà: in un paese popolato al 90% da meticci, pressoché qualunque trasmissione viene condotta da bianchi.

E triste così constatare che tra minacce di repressione nei confronti dei movimenti sociali, violazioni ripetute dei diritti umani, assenza di trasparenza, il Messico, unico paese dell’America Latina a non aver conosciuto nella sua storia recente dittatori sanguinari, desaparecidos di massa e violente insurrezioni militari – malgrado alcuni gravi episodi di guerra sporca come la strage della Piazza delle Tre Culture – si avvii a diventare fanalino di coda tra i paesi al di sotto del Rio Bravo. Mentre l’America del Sud inizia finalmente a conoscere elezioni trasparenti, pace sociale, rispetto dei diritti umani (si veda per esempio la fine dell’impunità per i torturatori della dittatura in Argentina) il Messico sembra sempre più retrocedere ed imboccare una pericolosa deriva autoritaria, che lo allontana dagli importanti progressi del resto del subcontinente.

Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari.

Ti piace questo post? Votalo su OkNotizie

Ricerca Google

Google