martedì 30 gennaio 2007

NAIROBI E DINTORNI

Ho realizzato questa specie di fotografia cinque anni fà, all'inizio del 2002 - se non ricordo male. Pochi mesi dopo Genova, e poco dopo aver incominciato a farmi un'idea più precisa di che cosa fossero la globalizzazione e il neoliberismo selvaggio, che dominano ormai la nostra terra da una ventina d'anni. In cinque anni, purtroppo non è cambiato molto. A parte qualche paese sudamericano che sta cercando di rendere più pesante il piatto di destra.

martedì 23 gennaio 2007

BOLIVIA - L'AUTONOMIA PRETESTUOSA

Cresce nel paese andino la tensione tra i movimenti sociali vicini al Mas e le spinte separatiste della destra. Con il presidente Morales, costretto a una difficile mediazione.

Seppur debole e confuso, un eco delle violenze e degli scontri di Cochabamba è giunto anche in Italia. Scontri che hanno sconvolto il centro della città andina l’11 gennaio scorso, con il tragico saldo di 3 morti e circa 240 feriti – qualcuno ha parlato addirittura di una Oaxaca boliviana.

A fronteggiarsi, come molti sapranno, c’erano da una parte i cocaleros, i regantes e tutte le altre
categorie dei compositi movimenti sociali che hanno favorito e accompagnato l’elezione di Evo Morales nel 2005, dall’altra circa 3000 tra membri di Juventud Democratica – per i quali non vale certo il detto homen nomen - paramilitari e probabilmente militanti della destra di Santa Cruz, venuti appositamente a sostenere i colleghi cochabambini con mazze, bastoni, catene e pistole. In mezzo la polizia, che non ha saputo, o più probabilmente non ha voluto fermare l’aggressione dei militanti di destra contro gli attivisti dei movimenti sociali. Un aggressione che serviva a “ripulire” la centralissima Plaza 14 Septiembre dai circa 50000 indios che da giorni chiedevano le dimissioni del governatore Manfred Reyes Villa.

Manfred Reyes Villa è un personaggio dal passato non proprio edificante. Militare formatosi all’Escuela de las Americas (l’Accademia statunitense che ha addestrato alla tortura migliaia di soldati di tutto il Sudamerica), è stato a fianco prima dell’ex-dittatore Hugo Banzer (il rappresentate in Bolivia del Piano Condor) e quindi dell’ex-presidente Sanchez de Losada (quello che nel 2004 fece sparare sulla folla che, a El Alto, chiedeva la nazionalizzazione del gas, provocando più di 50 morti). Nei panni di sindaco di Cochabamba, nel 2000, ha indebitato la cittadinanza per svariati milioni di dollari ed ha poi avviato la svendita dell’acqua pubblica all’impresa Agua de Tunari, innescando quella protesta popolare che è passata alla storia come “guerra dell’acqua”.

Ciò che però ora gli contestano i movimenti sociali è la volontà di non rispettare l’esito del referendum per l’autonomia dell’anno scorso (in cui i cittadini di Cochabamba si sono espressi contrari al 54%). Il 14 dicembre infatti il governatore ha annunciato di voler indire un nuova consultazione. L’obbiettivo di Reyes Villa è semplice: accodare la regione alle altre 4 che si sono pronunciate a favore dell’autonomia (Beni, Pando, Tarija e Santa Cruz) e che costituiscono una sorta di fronda anti-Morales.

Da tempo in Bolivia l’opposizione al presidente indigeno si sta incanalando in una pretestuosa strategia autonomista (sfociata nei referendum di cui sopra), che mira a separare la regione orientale del paese (più ricca e più fertile ed in mano alle elites “bianche” di Santa Cruz) da quella montuosa dell’altipiano – roccaforte invece del Mas, il partito di Morales. Le riforme avviate dal governo (come la nazionalizzazione del gas o la riforma agraria – definita un po’ pomposamente “la fine del latifondo in Bolivia”) mettono infatti in grande pericolo i privilegi delle oligarchie dell’Est, sostenute (è inutile negarcelo) dagli Stati Uniti, ed in particolare dal nuovo ambasciatore a La Paz, Philip Goldberg – già uomo-chiave di Washington nel processo di disintegrazione dell’ex-Jugoslavia.

Quest’opzione autonomista è peraltro fornita alle destre dal delicato quadro istituzionale venutosi a creare nel paese andino nel 2005, a ridosso dell’elezione di Morales. La Bolivia è uno stato centralista: di norma i governatori, denominati prefetti, vengono nominati direttamente dal presidente della Repubblica. Ciò impedisce difficili coabitazioni e tensioni centripete.

Ma nel 2004, l’ex presidente Carlos Mesa, subentrato a Sanchez de Losada - cacciato a furor di popolo dopo l’eccidio di El Alto e rifugiatosi, come molti altri massacratori latinoamericani, a Miami – ha optato per una formula diversa, forse per democratizzare la sua elezione. Ha stabilito che in via transitoria fosse il popolo a scegliere i prefetti e il presidente dovesse solo nominarli ufficialmente. Così il 18 dicembre del 2005, insieme a Evo Morales, sono usciti vincitori anche 6 governatori di destra, ostili al nuovo esecutivo. La mappa politica disegnatasi allora, però, non è stata riconfermata dai referendum dell’anno scorso. I due dipartimenti andini governati dalla destra (La Paz e Cochabamba) hanno votato no all’autonomia, contro le aspettative dei loro governatori. E il motivo è semplice. Entrambi infatti sono stati scenario delle lotte che hanno favorito l’ascesa del Mas - da quella dei cocaleros del Chapare (regione del dipartimento di Cochabamba) alla guerra dell’acqua, fino alla battaglia per la nazionalizzazione del gas – e sono quindi roccaforte dei movimenti sociali che sostengono Morales.

Di qui la forte mobilitazione all’annuncio di Reyes Villa di un nuovo referendum, e le manifestazioni analoghe (per fortuna non sfociate in un bagno di sangue come a Cochabamba) contro il governatore Paredes a El Alto, nel dipartimento di La Paz. Mobilitazioni che hanno messo in grande difficoltà Evo Morales, stretto tra l’ovvia opposizione alla destra autonomista e reazionaria di Reyes Villa (e dei suoi amici parafascisti di Santa Cruz) e la sua posizione istituzionale di presidente super partes. Posizione che l’ha portato a non riconoscere l’autogoverno rivoluzionario proclamato dai settori più radicali dei movimenti di Cochabamba. Una decisione dettata forse anche dall’esigenza di non perdere consenso nelle quattro regioni pronunciatesi a favore dell’autonomia, in vista delle elezioni che dovranno riconfermarlo presidente l’anno prossimo, al termine dei lavori dell’Assemblea Costituente - lavori che, comunque, sono da tempo impantanati a causa del contenzioso tra governo e opposizione sui meccanismi di votazione dei singoli articoli.

Il presidente indigeno ha ribadito quindi la legittimità del governo di Reyes Villa (pur giudicandolo corrotto) e ha affermato che il suo allontanamento dal potere potrà avvenire solo per vie legali, attraverso un apposito referendum revocatorio. La proposta del referendum è stata subito avvallata da Reyes Villa – che dal suo esilio dorato a Santa Cruz si è dichiarato disposto a sottoporsi a una consultazione revocatoria; ma anche, - è notizia delle ultime ore - da parte dei movimenti sociali più vicini al Mas. Insomma una tregua in un conflitto incandescente, che rischia di espandersi ad altre regioni del paese. Un conflitto, in cui l’obbiettivo non dichiarato, ma implicito, è la poltrona del titolare del Palacio Quemado, a La Paz.

(Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari, www.fusiorari.org)

giovedì 18 gennaio 2007

VICENZA E DINTORNI

DISCONTINUO


In politica estera, come in tutta la sua azione di governo, Prodi ci tiene sempre a ricordare la sua discontinuità con il precedente governo. Forse, però, farebbe meglio a ricordare la sua discontuinuità. E basta.

martedì 16 gennaio 2007

CASERTA - POCHE CERTEZZE E QUALCHE (BUON) PROPOSITO

Con contorno di polemiche e svolazzo di dichiarazioni di partecipanti ed assenti, si è concluso anche il vertice di Caserta. L’informazione televisiva ci ha informato poco sui contenuti del summit (ammesso che ce ne siano stati) e tanto del contesto: dal vanvitelliano sfarzo della reggia di Caserta, all’ultimo coup de théâtre del solito Pannella (che a rigore non avrebbe neppure dovuto essere lì, dal momento che non è più segretario del suo partito, ma con i radicali sempre meglio utilizzare i guanti di velluto…) il quale, con molta souplesse, ha lasciato il cellulare accesso, in diretta (guardacaso) con Radio Radicale…
Dietro la facciata, è più difficile tracciare un bilancio del consiglio dei ministri in trasferta. Il summit ha prodotto un documento finale chiamato pomposamente “manifesto”. Sostantivo altisonante, ma privo dell’aggettivo che spesso l’accompagna: “programmatico”. Perché un programma già c’è - anche se qualcuno, a volte, fa finta di dimenticarsene. Allora il manifesto altro non è che un’agenda, una mera elencazione delle priorità che questo governo si darà nell’immediato futuro. Insomma un promemoria di buone o cattive intenzioni.
Scorrendo l’elenco delle priorità, ciò che si fa notare per prima cosa, sono le assenze, più che le presenze. Via la riforma delle pensioni, derubricata e differita a data da concordarsi. Via la Tav, anch’essa rimandata a futuri e non radiosi giorni. E subito s’odono a destra squilli di tromba: «la coalizione è ostaggio della sinistra radicale». Davvero? Semmai la coalizione è ostaggio (ma neanche poi troppo), del suo voluminoso programma, proprio quello in base al quale ha ricevuto un mandato a governare. Programma nel quale non si parla né di riforma previdenziale, né (se non in maniera genericissima) di Tav.
Ma dietro a questo rimando sine die di previdenza e Tav, purtroppo non c’è il richiamo alla lettera del Programma. Quanto, invece, la volontà di evitare inutili dissidi tra radicali e moderati.
E difatti ecco che tra le assenze troviamo anche Pacs e legge elettorale - temi ben presenti, quest’ultimi, nel programma. Ma anche qui meglio evitare il solito conflitto laici vs teodem che già infinti fastidi addusse alla coalizione.
Ecco allora che il bell’elenco snocciola al primo posto Ricerca e Istruzione (non si sa con quali fondi e con l’oscura minaccia di una riforma della scuola in chiave aziendalistica) e poi a seguire apertura dei mercati e difesa del consumatore, semplificazione amministrativa e riduzione dei tempi della giustizia, potenziamento delle infrastrutture, difesa dell’ambiente e sviluppo delle energie rinnovabili, federalismo fiscale. Ma anche generiche aperture ad un maggiore equità sociale, ad un rilancio del welfare e all’apertura di un confronto con le parti sociali.
Si parla poi tanto anche di sviluppo del Mezzogiorno, per il quale dovrebbe partire uno stanziamento di 100 miliardi. Un gruzzolo non trascurabile (tre volte l’importo dell’ultima finanziaria), a patto che non finisca nelle mani sbagliate.
Dietro al potenziamento delle reti ferroviarie al Sud s’intravede tra l’altro la possibilità di un intervento della nuova costituenda società che fa capo a Montezemolo e Della Valle. Il che non è dato sapere se sia una buona o una cattiva notizia, malgrado il plauso incondizionato del ministro Bersani a cui non par vero di poter ricucire così lo strappo con Confindustria.

Fin qui i punti in agenda. Ma Caserta è stato anche altro. E’ stato l’ennesimo luogo di scontro tra riformisti e radicali. Quel riformismo che a destra e a (centro)sinistra si continua ad invocare, lacerandosi le vesti per la sua presunta assenza – con tanto di fughe dei Nicola Rossi di turno. Che cosa sia, questo riformismo non è facile dirlo. L’unica definizione che se ne può dare è quello a contrario. Riformismo come opposto di radicalismo, massimalismo.
Senonché in Italia l’ala che va sotto il nome di radicale, non fa altro che chiedere la “riforma” di alcune delle più spinose leggi approvate dal governo precedente: dalla legge Biagi, alla Bossi-Fini, alle leggi ad personam sulla giustizia. In che cosa si differenzino allora i “riformisti” diventa arduo comprenderlo. Il loro sembra un “riformismo” senza riforme, un gioco di varianti minime e ghirigori sul canovaccio neo-liberista ereditato dal governo berlusconiano. Di questo anodino orientamento ne è un buon esempio la tiepida e prudentissima riforma Gentiloni.
In quest’ottica sì, si può dire che il cavanserraglio dei riformisti light abbia subito una battuta d’arresto a Caserta. La scelta di non affidare la cabina di regia delle liberalizzazioni al buon Rutelli, alfiere del neo-centrismo tutt’interno alla coalizione, marca la volonta del premier di non favorire la componente moderata su quella radicale, facendosi egli stesso portavoce della necessaria sintesi tra le due anime della coalizione. Il buon Rutelli dovrà rassegnarsi (si fa per dire) a fare solamente il ministro della Cultura – compito peraltro che gli riesce, a quanto pare, con scarsissimo successo.
Questo è probabilmente il segnale più importante che viene da Caserta – il freno a una tentazione neo-centrista dell’Unione (Pacs a parte ovviamente). Il resto sono (quasi tutte) buone intenzioni che solo la prova dei fatti potrà confermare o smentire.

(Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari, www.fusiorari.org)

domenica 14 gennaio 2007

BOBBY

4 giugno 1968. Los Angeles. All’Hotel Ambassador lo staff del senatore Robert Kennedy aspetta con impazienza i risultati delle primarie, in cui si sfidano il fratello del presidente statunitense assassinato appena 5 anni prima a Dallas e Mc Cathy. In palio c’è la possibilità di correre alla Casa Bianca. Attorno, per i corridoi e le stanze dell’albergo, si muove una miriade di personaggi. Dal vecchio portiere cui è recentemente morta la moglie (Antony Hopkins) che sfida a scacchi un saggio collega (Harry Belafonte), al direttore dell’albergo (William H. Macy) che licenzia con orgoglio un dirigente razzista e carognesco (Christian Slater) e tradisce la moglie (un’inedita Sharon Stone, in versione parrucchiera dei divi) con una giovane centralinista (Heather Graham). Dalla cantante alcolizzata e sul viale del tramonto (Demi Moore), al pacifico broker (Martin Sheen) che combatte con la superficialità della moglie (Helen Hunt), collezionista di opere di Pop-Art. E poi i due giovani sostenitori dei democratici che prendono Lsd e dimenticano l’impegno politico, la ragazza che sposa un giovane amico solo per salvarlo dalla chiamata dello Zio Sam, ed il giovane attivista nero che vede nell’ascesa del candidato democratico una speranza per gli afroamericani. E ancora il cameriere messicano che rinuncia alla partita di baseball dei sogni per un caso di quotidiano sfruttamento, il cuoco di colore ormai disilluso dall’America che ha ucciso Martin Luther King e la giornalista cecoslovacca che nessuno prende in considerazione perché proveniente da un paese considerato “comunista”, malgrado la svolta democratica di Dubcek.


Nel raccontare le ultime ore di vita di Robert Kennedy, Emilio Esteves, figlio d’arte (suo padre è Martin Sheen) sceglie sapientemente di non mostrare mai il vero protagonista della vicenda, se non attraverso immagini di repertorio. Le parole dei discorsi di Bobby, che rimbalzano dagli schermi televisivi accessi nelle stanze dell’albergo, fanno da sottofondo a un affresco corale su un’America che insieme al giovane senatore democratico sta perdendo anche la propria innocenza. Un affresco alla Altman, che strizza l’occhio a “Nashville” (anche lì il film si chiudeva con colpi di pistola verso un candidato, seppur di segno radicalmente opposto). Ma tuttavia senza l’amarezza, il disincanto, la cruda ironia del maestro. Dal tono invece elegiaco, malinconico per ciò che avrebbe potuto essere, non è stato, e non sarà più.

Dallo schermo riaffiorano allora le angosce, le frustrazioni, le nevrosi (ma anche i lati positivi) di una società che sta sprofondando verso il baratro del Vietnam, del Watergate e di una delle più grandi crisi sociali e politiche che ha mai dovuto affrontare.

Non mancano ovviamente i riferimenti ai giorni nostri: dalla vicenda del messicano Jose che allude al muro della vergogna e alle leggi anti-immigrazione del governo Bush all’ovvio parallelo tra guerra del Vietnam e guerra in Iraq. L’America traballante di ieri, sembra dire il film, assomiglia terribilmente a quella di oggi, incamminatasi, come i soldati nel finale di “Full Metal Jacket”, verso un inferno terreno tutt’altro che metaforico.

Bobby appartiene quindi a un filone di film d’impegno civile, di simpatie squisitamente democratiche, che già in passato ha prodotto pellicole come “Tutti gli uomini del presidente” o “Philadelphia” e in tempi più recenti “Good night and good luck” o “Syriana”. Non rinuncia completamente all’idea del sogno americano (si veda la tirata del personaggio interpretato da Laurence Fishburne al giovane messicano Josè, che tira in ballo nientemeno che Rè Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda), ma sa anche dipingere i sogni spezzati di un epoca, in maniera nient’affatto trionfale. Il linguaggio è sonoramente hollywoodiano ma il finale è tutt’altro che retorico - o perlomeno ben lontano dalla retorica solenne a cui il cinema americano corrente ci ha abituato.

Forse molti cinefili storceranno il naso di fronte a questa pellicola così bien fait, dal cast stellare e dall’impaginazione abbastanza tradizionale – riferimenti ad Altman e al Thomas Paul Anderson di “Magnolia” a parte. Ma l’America di Bush ha quantomai bisogno di conoscere le proprie radici, le origini della crisi che l’hanno portato alla situazione attuale, anche attraverso un robusto ed edificante film popolare come “Bobby”. Per non ripetere gli errori del passato.

giovedì 11 gennaio 2007

SADDAM E LA PENA DI MORTE

Pubblico qui un mio intervento relativo ad un dibattito, sul sito del giornale on-line Fusi Orari , riguardo all'impicaggione di Saddam Hussein e alla pena di morte in generale. Per comprendere meglio tutti i riferimenti, consiglio di leggere gli articoli che l'hanno preceduto (di Lorenzo Guzzetti e Davide Bessi) ai quali il mio pezzo risponde.
Buona lettura.

La condanna a morte del rais incancrenisce il conflitto in Iraq e rilancia il dibattito globale sulla pena capitale. Ma, dietro le quinte, fa comodo a qualcuno.

Anche Fusi Orari partecipa a quanto pare al rutilante dibattito sulla pena di morte che la barbara esecuzione, di Saddam Hussein ha provocato nel bel paese, con il solito contorno di nani e ballerine e talk-show spazzatura nei programmi domenicali. Visto che già altri si sono cimentati aggiungo anch’io un’ulteriore voce alla querelle che ha visto il provocatorio e (non me ne voglia) fuorviante articolo di Guzzetti e il sostanzialmente condivisibile (ma con qualche distinguo) articolo di Bessi.

La questione della legittimità della pena di morte non si pone caso per caso e soprattutto riguarda la giustizia all’interno dei tribunali, non la vendetta, la faida, la lotta partigiana condotta fuori dalle aule di giustizia. Da non-violento inorridisco all’idea che Saddam potesse venire ucciso da un parente di una delle sue vittime sciite o curde. Da non-violento, non avrei mai voluto vedere Mussolini appeso in Piazzale Loreto, ma piuttosto in carcere per tutta la vita a riflettere sul suo abominio. Ma da cittadino so anche che la sua morte non l’ha imposta un tribunale, né uno stato, nè un’istituzione. La sua morte l’ha prodotta la decisione del singolo partigiano che l’ha ucciso, o quella dei componenti la cellula del Cln che ha deciso la sua uccisione. E qui sta la differenza. L’esecuzione a caldo non sancisce nulla, placa il desiderio di vendetta di molti, ma non legittima alcunché. La condanna a morte, inflitta da un giudice in un’aula di tribunale (di pace o marziale, legittimo o fantoccio che sia), legittima la più tremenda barbarie che la civiltà moderna può produrre: l’idea che lo stato possa farsi arbitro della vita e della morte delle persone. Qui sta la differenza tra l’uccisione del singolo e quella dello stato. E non c’entra il colore degli stracci. Qui risiede il discrimine tra barbarie e civiltà del diritto.

Se questo è il quadro ideale ci sono anche considerazioni contingenti. Quando Mussolini venne ucciso in piazza e i gerarchi nazisti furono fucilati, i diritti umani erano una bella utopia lontana da venire. Ma negli ultimi decenni i diritti umani hanno fatto salti da gigante (con scarsa collaborazione e non si quanta gioia da parte degli stracci neri…) Un’altra Norimberga è antistorica anche per questo. Solo 10 anni fa i paesi con pena di morte vigente erano circa 90. Oggi sono poco più di 40. Lasciando da parte Nessuno Tocchi Caino e l’interesse intermittente per i diritti umani dei Radicali, da decenni altre associazioni (Amnesty in primis) lavorano capillarmente (e più efficacemente) per sradicare la pena di morte da tutto il pianeta. Esattamente come in molti altri campi (quello ambientale in primis) gli Stati Uniti - che si sono autonominati paladini della democrazia all over the world - non hanno in quest’ambito proprio nulla da insegnare e farebbero meglio a rileggersi le pagine del nostro Beccaria e dei maggiori pensatori dell’illuminismo europeo prima di candidarsi a rappresentare la democrazia sul pianeta.

Ma dietro alla condanna di Saddam Hussein c’è anche altro, e l’assordante silenzio sulle vere ragioni della sua rapidissima esecuzione sorprende e non poco. Saddam infatti è stato condannato a morte per un massacro “minore” e “precoce”. Esattamente per la strage di 148 sciti nel 1982 a Dujail. Ma la sua eliminazione fisica, ora, non permetterà la celebrazione dei processi per i ben più ingenti massacri compiuti contro i curdi negli anni successivi, tra il 1986 e il 1989. Proprio gli anni in cui l’ex-dittatore iracheno incassava l’appoggio sostanziale dell’amministrazione Reagan, che aveva provveduto qualche anno prima a eliminare il paese dalla lista degli allora “stati-canaglia”, per potergli offrire aiuti militari in funzione anti-iraniana – similmente al governo britannico e, in misura minore, ad altri stati occidentali.

Eliminando subito Saddam si assolve allorac anche la rete di complicità internazionali che lo rese così forte ed in grado di essere il dittatore sanguinario che tutti abbiamo conosciuto. E anche qui, chi oggi plaude al cappio, non si poneva certo il problema negli anni ’80 quando Saddam era un comodo alleato. Ma in fondo non è tanto importante chiedersi oggi di che colore erano gli stracci che nei bui anni ’80 chiedevano che non venisse fabbricato in provetta un altro mostro come Bin Laden o Pinochet. Ma piuttosto adoperarsi perchè questo non succeda più.

lunedì 8 gennaio 2007

L' ARIA SALATA

Fabio è un ragazzo sulla trentina che lavora in carcere al percorso di reinserimento dei detenuti. Sin dalle prime sequenze lo vediamo correre nervosamente per le vie di una Roma, livida e piovosa. È un leitmotiv che si ripeterà per tutto il film. Una corsa frenetica che simboleggia il desiderio di libertà di chi lavora in un ambiente che rappresenta l’assenza di libertà per eccellenza.

Ma dietro la corsa di Fabio c’è anche qualcos’altro. L’esorcismo di un’altra assenza, un trauma più profondo. Fabio è ligio e dinamico sul lavoro, ha le sue idee, non si lascia corrompere dall’ambiente in cui ha deciso di lavorare, sacrificando le ambizioni ad una carriera che la sua laurea gli consentirebbe.
Ma un giorno il trauma rimosso gli si presenta davanti. Sulla scheda d’accompagnamento c’è scritto Luigi Sparti e Fabio sa di aver dinanzi il padre che sparì un giorno di casa, condannato a una pena pluridecennale per omicidio. Come comportarsi con il vecchio padre che neppure lo riconosce? Rinfacciargli la lunga assenza, il disinteresse per i figli? Oppure evitarlo? Da questo interrogativo prende le mosse l’ Aria Salata il film d’esordio di Alessandro Angelini, in uscita nelle sale il 5 gennaio, ma passato, con un discreto successo di critica, dalla Festa del cinema di Roma. Nelle intenzioni originarie del giovane regista, documentarista di grande talento, il lungometraggio avrebbe dovuto essere semplicemente un affresco della realtà carceraria ed in particolare di coloro che scontano «la condanna stando fuori dal carcere», vale a dire i familiari dei detenuti, la cui vita è sconvolta dalla reclusione di un parente. Un’intenzione che nasceva nel regista dal periodo di volontariato prestato presso il carcere di Rebibbia. Un proposito che, tuttavia, si è progressivamente trasformato in fase di sceneggiatura, evolvendosi in un’amara e disperata riflessione sul tema della paternità e su quello di una giustizia che non deve rappresentare mai una forma di oppressione dell’individuo, ma concedere invece una possibilità di riscatto, una seconda opportunità.

Da questo nucleo si dipana allora il tortuoso itinerario di ricostruzione di un sentimento paterno e filiale da parte dei due protagonisti, splendidamente interpretati da Giorgio Pasotti e da uno strepitoso Giorgio Colangeli - attore alla prima vera esperienza sul grande schermo, ma già molto attivo in teatro e tv e che, per quest’interpretazione, sensibilmente attenta alle sfumature e ai più minimi gesti rivelatori, è stato giustamente premiato a Roma.

Un film dunque che, come si evince da questa breve sinossi, punta alto, scegliendo temi e realtà forti, lontani dalle “vanzinate” e dal “muccinismo” che dominano l’asfittico clima del cinema italiano. Anche il tono e il linguaggio scelto, scabro, semplice, essenzializzato, disperato ma senza mai cadere nel melodrammatico, più strozzato che gridato, concorrono ad avvicinare questo esordio ai film di Garrone, Marra, Munzi, vale a dire alle migliori promesse del nuovo cinema italiano. O anche a Calopresti, di cui Angelini è stato assistente, e di cui nel finale sembra quasi, forse involontariamente, rievocare Preferisco il rumore del mare. La macchina da presa segue i personaggi con frequenti primi piani, con teleobbiettivi, come a isolarne il dramma profondo, a metterlo in rilievo rispetto alla realtà sociale che pur l’ha prodotto. Ad acuire il senso di oppressione, di angoscia contribuisce anche un azzeccatissima fotografia grigia, sbiadita, opaca che accentua l’atmosfera di sorda disperazione della vicenda. Non ancora un capolavoro certo – per qualche ovvio cedimento, per qualche piccola tara nella sceneggiatura - ma tuttavia un validissimo esordio. Impreziosito dall’ottima prova di un cast (non solo Pasotti e Colangeli ma anche una superba Michela Cescon, qui nella parte della sorella del protagonista, sorta di naturale contraltare al suo idealismo e alla sua fragilità) che il giovane Angelini ha dimostrato di sapere dirigere con raffinata abilità.


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