sabato 31 marzo 2007

LA MASSERIA DELLE ALLODOLE

Turchia 1915. In una cittadina di provincia la famiglia armena degli Aviakan ha buoni rapporti con tutti, dalla sua casa entrano ed escono le autorità della città. Ma la morte del nonno, importante patriarca sembra essere una premonizione del rapido cambiamento in atto, così come il getto di sangue che questi vede nel delirio dell’agonia, un attimo prima di spirare. I giovani turchi infatti sono in ascesa, e la “soluzione finale” verso la minoranza armena è già cominciata.
I membri della famiglia e la comunità armena della piccola città si rifugiano nella masseria delle allodole, vecchia costruzione di proprietà della famiglia. Ma questo non potrà evitarne la deportazione, né le saranno d’aiuto i molti amici turchi.
Anche se i fratelli Taviani hanno dichiarato di non aver voluto «Disegnare un quadro storico» affermando altresì di essersi limitati a «seguire alcune creature, i loro destini particolari, e proiettarli poi in un grande evento collettivo», è innegabile che il loro cinema sia dai tempi di Allosanfan, fino a quest’ultima opera, uno dei pochi che cerchi di infondere nel proprie immagini il respiro epico della storia, nella sua concretezza palpabile, nelle sue manifestazioni tanto ideali che materiali. E’ questo un merito innegabile anche in un opera come La masseria delle Allodole dove pure a volte (soprattutto nella prima parte) si avverte qualche cedimento verso un linguaggio televisivo, privo di quegli sprazzi di lirismo che caratterizzavano le loro opere maggiori, come La notte di San Lorenzo. Ne importa molto se i personaggi appaiono a volte tipizzati, schiacciati sugli “affetti” di ottocentesca e melodrammatica memoria che li spingono (l’ottimismo della ragione del capofamiglia Aram, l’impeto della passione di Nunik, la volontà di riscatto del mendicante Nizim, il donchisciottesco idealismo di Assadour ecc.), perché ognuno trova posto nella funzionale struttura romanzesca scelta dai Taviani – forse suggerita dall’origine romanzesca della fonte utilizzata, il libro semi-autobiografico della scrittrice sopravvissuta al genocidio Antonia Asrlan.
E neppure i due registi toscani si ritraggono di fronte all’orrore delle vicenda, quasi mai risparmiato agli spettatori, seppur mai mostrato con compiacenza.
Quel che ne esce è un film importante, il più duro e sanguigno dei due cineasti, ancorché meno provocatorio e polemico di molti altri. Ma tuttavia destinato a scatenare comunque grandi polemiche in tempi in cui si parla sovente di entrata della Turchia in Europa e perfino il pontefice Benedetto XVI si è recato in una trionfale visita ad Ankara, in un clima di omertà diffusa sul fatto che quel paese seguita, almeno ufficialmente, a non riconoscere la paternità di un genocidio che ha significato la morte di quasi 2000000 di persone.

Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari

venerdì 30 marzo 2007

UNO, NESSUNO, CENTOMILA ISLAM (E CRISTIANESIMI)

Ieri sera Anno Zero di Santoro ha dedicato una puntata al problema della violenza sulle donne islamiche (e non solo). L’ha fatto senza ideologismi e schematismi, raccontandone la quotidiana sofferenza senza alzare inutili barricate e steccati.
E ha riproposto una questione di non poco conto: quella dei cittadini musulmani moderati – l’espressione è bruttissima, lo so, e la utilizzo solo perché indicativa - coloro che lottano tutti i giorni per il rispetto dei diritti delle donne nel mondo mussulmano, per un Islam meno pervasivo e più laico ecc…
In Italia (e non solo) tutti costoro sono stretti tra due fuochi. Da un parte l’avversario interno spesso crudele, l’islam tradizionalista ed oscurantista, a volte anche confuso o improvvisato teologicamente, ma comunque brutalmente repressivo e patriarcale. Dall’altra l’ avversario esterno: la visione propria di molta parte degli italiani (non solo elettori della Lega) che considera il mondo islamico come un tutt’uno uniforme da rifiutare a priori, perché inferiore, perché indietro cinquecento anni rispetto alle nostre (presunte) conquiste e così via…
A ciò si aggiunge l’indifferenza di gran parte della sinistra, quella che con la scusa di un presunto rispetto delle culture altre si disinteressa dei veri problemi dei cittadini arabi in Italia, che magari s’indigna per la continua apertura di scuole confessionali cattoliche ma brinda invece all’esistenza di scuole confessionali islamiche e di tutti gli altri ghetti possibili (…ad essi in ogni caso fa da contraltare l’atteggiamento opposto di chi trova scandalosa l’apertura di una sparuta scuola islamica ed intanto finanzia a man bassa quelle cattoliche…).
Tutte queste concezioni malgrado i diversi assunti di partenza portano allo scontro di civiltà. Il considerare sempre le varie culture o religioni come qualcosa di monolitico, come delle monadi e non come dei mondi plurali e molecolari attraversati da continue dinamiche dialettiche porta allo scontro di civiltà. Anche quando a volte è mascherato da dialogo ed animato da buone intenzioni. Il problema peraltro non riguarda solo l’Islam. Ha riguardato e continua a riguardare anche la chiesa cattolica, anch’essa stretta tra la deriva intollerante di Ratzinger&Ruini che vorrebbe mettere fine ad ogni dissenso che sia relativo a questione dottrinarie o più mondanamente a Dico&coppie di fatto, e i fumi di un (purtroppo sempre esistente) pregiudizio anticlericale che porta alcuni a omologare e rifiutare tutto il mondo cattolico in blocco, come se questo fosse lo stesso in Vaticano o a Barbiana, a Washington o a Korogocho, a San Giovanni Rotondo o all’Isolotto.

mercoledì 28 marzo 2007

DEATH OF A PRESIDENT

Gabriel Range è un giovane regista inglese, specialista del mockumentary, il genere del finto documentario, cioè il documentario che ricostruisce un avvenimento mai avvenuto. Già nel 2003 mise in scena una mai avvenuta paralisi dei trasporti inglesi, in un lavoro televisivo per la Bbc, The day Britain stopped. Tre anni dopo con Death of a president, - film in uscita venerdì 16 marzo nelle sale italiane - si spinge addirittura ad ipotizzare l’assassinio del presidente americano George W. Bush. E subito giù polemiche, per il cattivo gusto, l’incitazione alla violenza e chi più ne ha più ne metta. Polemiche, diciamolo subito, tutte strumentali e assurde dal momento che il film non giustifica ne incita ad alcun atto violento, ma utilizza l’eventuale (ed esecrato) assassinio del presidente statunitense come metafora del 11 settembre e come pretesto per far riflettere sulla situazione dell’America attuale. Insomma fantapoltica (o verrebbe da dire fanta-coscienza, se questo termine non fosse appannaggio esclusivo del genere sci-fi ), parlare del futuro per proseguire in altri termini la discussione sul presente.
La vicenda è ambientata nel novembre 2007. Bush è ancora alle prese con Iraq e Afghanistan e in più mostra intenzioni bellicose anche nei confronti di Iran, Siria e Corea del Nord. Il presidente è atteso al Club Economico di Chicago per un discorso sulla politica interna ed estera dell’amministrazione. Intanto in città monta la protesta (la scelta dell’ambientazione non è casuale: Bush è realmente stato contestato nel 2003 e nel 2006 a Chicago e inoltre la capitale dell’Illinois è stato teatro di epiche proteste già ai tempi del Vietnam - chi non ricorda l’assedio alla Convention democratica nel 1968?).
Lungo il tragitto che lo porta all’Hotel Sheraton, il convoglio del presidente è addirittura bloccato dai manifestanti. La tensione è palpabile. Giunto allo Sheraton, Bush pronuncia un bel discorso retorico e patriottico infarcito di spiritosaggini e battute (com’è nel suo stile) e si avvia poi subito all’uscita, malgrado il parere contrario della security. Alcuni colpi partono da un palazzo prospiciente. Il presidente è immediatamente portato all’ospedale, ma – come suggerisce il titolo - non ce la farà.
Le indagini, nel clamore mediatico e nel solito clima di caccia alle streghe, si dirigeranno quasi subito verso un cittadino siriano, apparentemente incolpevole.
E qui ci fermiamo per non togliere allo spettatore l’interesse per la sottotrama thrilling che si sviluppa nella seconda metà della pellicola.

Il lavoro che Range ha svolto nell’assemblaggio del suo finto documentario è di una precisione e di un’inventiva incredibili. Nella complessa ma estremamente fluida tessitura del film, confluiscono infatti immagini di repertorio, immagini girate ad hoc e immagini vere ma rielaborate digitalmente. Anche i formati sono variabili: riprese in DV, riprese ad Alta Definizione, riprese da telefonino, immagini volutamente sporcate per sembrare registrazioni di telecamere di sorveglianza. E poi autentici tocchi di genio come utilizzare il (vero) encomio funebre a Reagan di Dick Cheney, come ipotetico encomio funebre di Bush.
Insomma la massima cura e la massima precisione per una ricostruzione che, peraltro, non ha richiesto grandi effetti speciali (nella pellicola se ne vedono pochi e molto ben nascosti - e questo è un merito non piccolo) ed è costata relativamente poco: solo 3 milioni di euro, gran parte dei quali per l’acquisizione delle immagini di repertorio.
Un po’ diverso il discorso sul versante del contenuto. Se la polemica nei confronti del potere distorsivo dei media appare decisamente efficace – in conferenza stampa il regista ha raccontato un gustoso aneddoto a proposito: alla domanda polemica di un giornalista di Fox Tv che gli chiedeva se non credesse «di aver distorto la realtà», si è limitato a rispondere: «beh…è quello che fate voi ogni giorno.» - meno convincente è l’analisi globale dell’America del dopo 11 settembre.
Il film sembra infatti ignorare (o voler ignorare) le complesse implicazioni socio-economiche legate alla politica estera dell’amministrazione Bush, irriducibile unicamente a una dinamica di causa-effetto tra attentati terroristici e attacchi militari. Anche i personaggi di fantasia del film, interpretati da attori e fatti parlare al pubblico in lunghe interviste in stile documentario, appaiono schematici, appena sbozzati, poco approfonditi soprattutto nei loro risvolti sociali.
Insomma la pellicola rimane ad un livello superficiale, senza riuscire a mettere in luce le cause profonde della crisi che sta attraversando l’America attuale – come invece avviene, seppur indirettamente, nelle pellicole di Michel Moore o in quel bell’affresco corale, solo apparentemente ambientato negli anni ’60, che è Bobby di Emilio Estevez.
Si ha l’idea di essere di fronte a cose risapute seppur presentate in maniera decisamente originale – anche se, certo, si tratta di un’impressione tutt’europea dal momento che nel clima conformistico e di unità nazionale che si respira negli Stati Uniti dal 2001 (e che solo adesso si sta allentando) non si tratta di idee all’ordine del giorno (e lo dimostra infatti la fredda accoglienza negli States della pellicola, praticamente distribuita solo a New York e sulla West Coast).
La perfezione tecnica del film finisce quindi quasi per diventare freddezza, distanza dalla materia trattata, incapacità di andare a fondo, come sembrano quasi suggerire le continue e scenografiche riprese dall’alto della capitale dell’Illinois, che mostrano una sguardo discosto, da lontano, che non scende mai in profondità.
Pur con questi limiti rimane comunque lodevole l’impegno e la grande audacia nel tentare strade diverse per parlare dell’attualità anche più scottante. E rimane la vergogna di un fuoco di fila di giudizi perentori spesso pronunciati da persone che (come è il caso di Hillary Clinton che, prima ancora che la pellicola uscisse, l’ha definita «Spregevole, immorale, nauseante») non hanno mai visto il film.

Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari

sabato 24 marzo 2007

IL DOVERE DI UN CATTOLICO

Apprendo da un articolo sull’Unità che sul sito dell’incriminato (ma non troppo) Prosperini si possono vedere gli eccelsi filmati della sua televisione on-line nei quali l’assessore ai giovani della Regione Lombardia esprime, sempre con il consueto garbo, le sue opinioni sui fatti salienti dell’attualità nostrana. Nella puntata di lunedì scorso, dal titolo «Rispettiamo il Papa» il nostro, parlando di un manifestante che al recente corteo in favore dei Dico portava un cartello contro Ratzinger, si esprimeva così: «Uno sporcaccione maledetto che andava preso a bastonate per una settimana». E ancora: «Dargli due pappine sulla faccia mi sembrava una cosa normale, il gesto che qualsiasi cattolico dovesse fare...»
Menomale che c’è Prosperini a ricordarci qual è il dovere di un cattolico – visto che di questi tempi non la fa nessuno…Anche se a me personalmente le sue parole ricordano più che altro ciò che dicevano del proprio figlio i genitori di Virgil, il protagonista di Prendi i soldi e scappa di Woody Allen: «Se nostro figlio era credente? Certo gli abbiamo insegnato il Vangelo a bastonate!» Ora io non ricordo nel Vangelo che come tutti ho letto ampiamente da bambino e poi da adolescente/adulto alcun riferimento esecrante nei confronti dell’omosessualità , dei diritti delle coppie di fatto, e neppure del diritto di criticare il pontefice. Al contrario il Vangelo mi risulta pieno di esortazioni ad amare il proprio nemico (quandanche sotto le vesti di avversario politico) e a non commettere atti di violenza nei confronti di nessuno. Ma tutto questo ovviamente non interessa al Papa dalla scomunica facile, che preferisce giustamente prendersela con la Teologia della Liberazione che tanto ha fatto per il progresso dell'America Latina, piuttosto che con i nazisti di casa nostra. Amen.

giovedì 22 marzo 2007

ETICA ITALIANA


Dalle vicende che hanno riguardato negli ultimi giorni da un lato il portavoce di Prodi Sircana e dall’altro Pier Gianni Prosperini emerge una morale univoca ed inconfutabile.
Se un giorno per caso si accosta lievemente la macchina ad un transessuale è d’uopo presentare subito le proprie dimissioni, qualunque sia la carica o il ruolo ricoperto. Ma se al contario dalle colonne di un giornale a diffusione nazionale si incita a mettere alla garrota tutti i transessuali della terra, niente paura, basta accampare qualche scusa generica e dire di essere stati fraintesi. D’altronde si sa, l’Italia è da sempre paese di grande moralità.

mercoledì 21 marzo 2007

UN PRESIDENTE IMPRESENTABILE

Durante un recente incontro con le autorità giapponesi il presedente boliviano Evo Morales ha dichiarato di voler includere nella costituzione in discussione presso l’Assemblea costituente un articolo in cui si affermi che la Bolivia ripudia la guerra sempre, senza se e senza ma. «Il nostro grande desiderio come governo è che nella nuova costituzione dello stato boliviano si rinunci alla guerra. Le guerre servono solo per perdere vite umane […] Noi popoli indigeni viviamo in armonia con la madre terra, apparteniamo alla cultura della vita e non condividiamo politiche di militarizzazione e nuclerarizzazione».


Se la cosa andasse in porto si tratterebbe di una lezione di dignità e coerenza da parte di un piccolo paese, il più povero del Sudamerica nei confronti di tutto il mondo occidentale, “progredito” ed affluente. Uno smacco nei confronti di coloro i quali – così come un mio caro amico pure di sinistra che spero non me ne voglia se leggerà queste righe – ripetono che Evo Morales è un presidente impresentabile, perché cocalero, perché provvisto solo della licenza elementare e luoghi comuni e banalità post-coloniali via dicendo.


P.s. A Tokio Evo Morales è stato ricevuto nientemeno che dall’imperatore Akihito. Ma prima di arrivare nella capitale del paese del Sol Levante, il presidente boliviano è passato anche da Roma. Dove nell’assoluto silenzio dei media è stato ricevuto solo dal sottosegretario Donato di Santo. D’Altronde non è un mistero che relativamente all’America Latina il ministro D’Alema abbia sempre avuto l’occhio lungo. Nel suo ultimo viaggio ha fatto visita unicamente ad Alan Garcia (definito «un esponente storico della sinistra latinoamericana», malgrado voglia reintrodurre in Perù la pena di morte e abbia recentemente definito i poveri del suo pease “parassiti” – per tacere della «magnifiche sorti e progressive» del suo primo mandato), alla Bachelet e a Lula (almeno lui!). Ma ha ovviamente disdegnato Kirchner ed Evo Morales – per non parlare di Chavez. Esattamente le esperienze più feconde degli ultimi anni.
D’altra parte che attendersi da un personaggio che all’epoca dei governi neoliberisti e del Washington Consensus andava a braccetto con De la Rua e Collor de Mello, e facendo visita a Zedillo si rifiutava di incontrare gli zapatisti sostenendo che non rappresentavano il popolo messicano?

martedì 20 marzo 2007

UN PAESE DECENTE

Apprendo dall’Unità di ieri che l’assessore alle politiche giovanili della regione Lombardia, Pier Gianni Prosperini, in un’intervista per il Giornale di Bel Pietro di domenica scorsa si è lasciato andare ad alcune garbate affermazioni volte a smorzare la polemica in atto su coppie di fatto, Dico, e diritti degli omosessuali: «Garrottiamoli i gay”. Un castighetto da niente. “Ma non la garrota di Francisco Franco. Alla maniera degli Apache: cinghia bagnata legata stretta intorno al cranio. Il sole asciuga il laccio umido, il cuoio si ritira, il cervello scoppia»


In un paese decente un personaggio così, perlomeno, viene rimproverato, esecrato, stigmatizzato pubblicamente da tutti i suoi superiori, dal presidente della regione a quello della Repubblica. E quindi viene messo sotto inchiesta per istigazione alla violenza e alla discriminazione sessuale. Perché quelle di Prosperini sono a tutti gli effetti delle boutades che, fortunatamente, non producono effetti diretti, ma che tuttavia sedimentano nella società e portano poi a barbarie come quella di Opera - che abbiamo raccontato tempo fa anche in questo blog. E di tutto abbiamo bisogno ora, tranne che di un qualche piccolo progrom omofobo in salsa padana.

Ps. Prosperini, a differenza di quello che credono molti non è della Lega Nord, ma di Alleanza Nazionale. Il partito che a detta di (quasi) tutti sarebbe riemerso dalla acque termali di Fiuggi, ripulito di ogni residuo nazi-fascista, razzista od omofobo.

lunedì 19 marzo 2007

L'ULIVO E LE BANANE

Anche se non se ne è parlato molto, perché la notizia non era molto edificante, lo scorso 15 marzo il governo italiano attraverso l’Avvocatura dello Stato ha chiesto ufficialmente la cancellazione del rinvio a giudizio per i 33 inquisiti del caso Abu Omar, tra cui 26 agenti Cia ed un po’ di spioni nostrani assortiti, tra cui Pollari e Mancini. Tra le motivazioni la violazione del segreto di Stato (peraltro mai avvenuta come spiega Travaglio in un articolo a questo link) e l’inficiamento del principio di collaborazione tra magistratura e governo.
Questa della collaborazione è una trovata interessante. Da quando magistratura e governo dovrebbero, in uno stato moderno collaborare ce lo dovrebbero proprio spiegare. O forse farebbero meglio a rileggersi lo Spirito delle Leggi di Montesquieu, per ricordarsi che in un qualunque paese moderno il potere giudiziario e quello esecutivo devono sempre essere rigorosamente separati ed indipendenti. Ma questo è secondario rispetto al tentacolare impegno a tenersi buoni i rapporti con gli Stati Uniti e con gli spioni nostrani.E quindi che i diritti umani s’inchinino alla ragion di stato, e l’Italia torni a essere il paese delle banane e il regno dell’impunità. E’ triste dirlo, ma le banane crescono benissimo anche all’ombra dell’Ulivo.

P.s. Voglio spendre una parola d’elogio per il ministro Di Pietro, persona dalla cui posizioni spesso dissento, ma che su questo argomento ha dimostrato una fermezza etica che molti suoi colleghi, collocati più a sinistra, si sognano.
Per chi volesse approfondire il caso Abu Omar rimando a questo post di un po’ di giorni fa.

sabato 17 marzo 2007

QUE' VIVA MEXICO!

Bene. Apprendo dal sito della Jornada (come testimonia la foto soprastante) che anche in Messico, nella capitale per l’esattezza, è avvenuta la prima unione civile omossessuale maschile – la seconda in assoluto dopo quella analoga femminile di febbraio. Parlasi di unione civile (e non di coppia di fatto), e il tutto in base ad una legge approvata il novembre scorso dal Parlamento del cattolicissimo Messico. Qui da noi invece sedicenti ministri della Cultura e della giustizia discettano sul grado di priorità di una legge mille volte più smunta quale i Dico.

IN SCENA "LETTERA A UNA PROFESSORESSA" DI DON LORENZO MILANI

Una segnalazione teatrale. E’ da ieri in scena, presso il teatro Trebbo di Milano, Lettera a una professoressa di Don Lorenzo Milani. Si tratta di un piccolo allestimento, da parte di un piccolo teatro che da tempo cerca tenacemente di proporre un teatro diverso, non banale, non disimpegnato, non accomodante.

Dietro c’è un grande lavoro drammaturgico, che ha permesso la drammatizzazione dell’apparentemente poco teatrale testo del priore di Barbiana. Un lavoro compiuto oltrechè attraverso l’inserimento di canzoni dalla funzione evidentemente brechtiana (musicate in maniera efficacissima da Paola Franzini) attraverso l’accentuazione della natura socratica, dialogica del testo di Don Milani, nato proprio attraverso il lavoro collettivo del religioso e dei suoi allievi.
Ciò che ne viene fuori è uno spettacolo che dimostra tutta l’attualità del testo di Milani, pur – e qui sta il grande merito – senza attenuare in alcun modo l’elemento “di classe” in esso presente, ma anzi mettendolo al centro del lavoro, come a dire che le discriminazioni di classe all’interno della scuola (e della società) italiana non sono qualcosa di remoto, ma una minaccia sempre presente, pur se a volte in forme diverse.
A fianco dell’ottimo Giancarlo Monticelli (Don Milani) i tre giovani interpreti (Beniamino Musto, Nicola Ciammarughi, Jacopo Rossi) si muovono con disinvoltura riuscendo a dare allo spettacolo una fluidità che evita il pericolo più grande, il didascalismo.
La regia è di Maurizio Maravigna, un personaggio da anni impegnato in esperienze di “teatro di base” a Milano, che ha saputo infondere in questo, come nei suoi precedenti spettacoli il suo grande senso scenico e la sua enorme capacità di lavoro con gli interpreti (spesso alle prime armi).
La rappresentazione concepita per ricordare Don Milani nel quarantesimo anno dalla sua scomparsa, segue di pochi anni uno spettacolo analogo dello stesso Maravigna, Come Maestro, ispirato ad un altro testo fondamentale del Priore di Barbiana, L’obbedienza non è più una virtù.


Lo spettacolo dura solo fino a lunedì purtroppo, e, data la scarsa capienza della sala è necessaria la prenotazione. Nelle intenzioni dei promotori, tuttavia lo spettacolo è replicabile in altri spazi e in altri contesti, per chiunque ne faccia richiesta.
Insomma una buona occasione per conoscere meglio l’opera di una delle personalità più importanti, non solo della Chiesa, ma della storia dell’Italia dell’(ormai) secolo scorso.


Per info: Teatro Trebbo, via de Amicis 17
tel 02-58105512
info@trebbo.it

martedì 13 marzo 2007

ABU OMAR, UNO SCANDALO CHE NON FA ABBASTANZA SCANDALO

Ben due notizie nelle ultime settimane hanno riportato agli onori della cronaca il controverso caso Abu Omar. La prima, la più nota, è, il rifiuto del governo americano di concedere l’estradizione dei 26 agenti della Cia rinviati a giudizio dalla procura di Milano. Un rifiuto che non giunge certo inaspettato e non soltanto perché si inserisce in una consuetudine di rapporti tra dipartimento di stato americano e giustizia italiana - si vedano a proposito il caso Calipari e la tragedia del Cermis. Ma anche – e soprattutto - perché a Washington non è stata inoltrata alcuna richiesta ufficiale del governo italiano. Il non certo coraggioso ministro Mastella ha infatti deciso di non procedere ad alcuna rogatoria ufficiale, non dimostrandosi in questo molto diverso dal suo predecessore Castelli che non si pronunciò mai a favore del rientro in Italia del terrorista nero Delfo Zorzi.

La seconda notizia – più incoraggiante – è invece la presentazione al parlamento europeo di una relazione sulle extraordinary renditions, frutto del tenace lavoro del deputato diessino Claudio Fava. Questa relazione, approvata con una discreta maggioranza esprime una recisa condanna degli oltre 1245 voli “straordinari” decollati negli ultimi anni da e verso gli aeroporti di 12 stati europei. Voli che servivano a trasportare i presunti terroristi (molti dei quali presto scagionati) all’estero, a farsi interrogare in outsorcing, cioè per conto degli americani, ma lontano dagli Stati Uniti. In paesi come la Libia o l’Egitto nei quali, a quanto pare, l’”esportazione della democrazia” tanto cara agli Usa non è mai avvenuta completamente, ed è ancora possibile, all’occorrenza, torturare un po’ i detenuti.

Malgrado questa ripresa d’interesse dei media per il caso Abu Omar, è tuttavia probabile che non tutti conoscano a fondo i dettagli della vicenda. Ripercoriamoli brevemente. Il 17 febbraio del 2003 Abu Omar viene “prelevato” a Milano in via Guerzoni, a due passi dalla moschea di Viale Jenner. All’epoca, il cittadino egiziano ha 40 anni ed è in Italia addirittura come rifugiato politico, in quanto appartenente, nel suo paese, all’opposizione filo-integralista di Al Jama’a Al Islamica che gli Stati Uniti ritengono un braccio operativo di Al-Qaeda. Secondo il pm D’Ambruoso che all’epoca sta indagando su di lui per i sospetti di terrorismo, Abu Omar è avvicinato da un gruppo di 17 persone e caricato su un furgone bianco. Da qui viene trasportato alla base di Aviano, dove è interrogato e sottoposto a violenze. Poi tre diversi aerei lo portano in tre tappe al Cairo. Nella capitale egiziana gli viene proposto di lavorare come infiltrato per i servizi segreti americani. In questo modo potrebbe ritornare in Italia in 48 ore. Abu Omar ovviamente rifiuta e inizia allora per lui un periodo di torture durissime: viene sottoposto a rumori fortissimi che li provocano danni all’udito, viene rinchiuso in saune e celle frigorifere, viene appeso a testa in giù e gli vengono applicati elettrodi ai genitali. Poi il 20 aprile lo lasciano libero, ma intimandogli di non parlare con nessuno. Divieto che il prigioniero contravviene ritrovandosi così nuovamente in carcere dove rimarrà fino al febbraio di quest’anno.

La prima e più ovvia domanda che si pone rispetto a tutta questa vicenda è chi siano davvero gli autori del sequestro. In altre parole, la Cia ha agito da sola o ha trovato se non un aiuto concreto, perlomeno una sponda nei servizi segreti italiani? Non è un mistero per nessuno infatti che l’intelligence statunitense in questi anni abbia dato vita in numerosi paesi ai famigerati Ctic (Counter Terrorism Intelligence Centers) sorta di agenzie congiunte tra nuclei operativi degli Cia e servizi segreti stranieri, con l’obbiettivo di contrastare il terrorismo. A Parigi l’Alliance Base ha addirittura riunito in una sorta di multinazionale dello spionaggio agenti francesi, inglesi, australiani e canadesi. E non pochi analisti hanno messo in correlazione questi organismi con la politica delle extraordinary renditions. Anche in Italia è avvenuto qualcosa di simile?
Secondo gli inquirenti (il giudice D’Ambruoso prima e poi i procuratori aggiunti Spataro e Pomarici, succedutigli nel corso dell’inchiesta), il sequestro di Abu Omar sarebbe stato un progetto di Jeff Castelli, all’epoca responsabile Cia in Italia, il quale avrebbe trovato una sponda nell’ex capo del Sismi Niccolò Pollari, e nel suo braccio destro Marco Mancini - quest’ultimo è implicato anche in un’altra inchiesta che ha fatto scandalo negli ultimi tempi, quella sulle intercettazioni abusive in casa Telecom.
Secondo quanto emerso dalle indagini di Spataro e Pomarici, Mancini, uno spregiudicato ex-maresciallo dei carabinieri resosi protagonista di un’ascesa rapidissima all’interno del Sismi – tanto da diventarne in brevissimo tempo il responsabile per il Nord-Italia – avrebbe provveduto poco prima del sequestro a rimuovere tutti i capicentro del servizio segreto nel Nord-Italia rimpiazzandoli con propri uomini fidati, disponibili a partecipare anche ad «attività non-ortodosse» (quali per l’appunto, un rapimento).
Così il Sog (Special Operation Group) entrato in azione quel 17 febbraio 2003 per rapire Abu Omar avrebbe avuto l’esplicito sostegno del Sismi, e ne avrebbe addirittura fatto parte un maresciallo dei Ros, Luciano Pironi (detto Ludwig) vicino al capoantenna della Cia a Milano, Robert Seldon Lady.
L’ordine di assecondare e agevolare il sequestro, in ogni caso, sarebbe venuto dall’alto, dallo stesso Pollari, il quale infatti figura nel registro degli indagati accanto al generale Gustavo Pignero (suo n. 2 all’epoca dei fatti) allo stesso Marco Mancini e ai 26 agenti Cia (tra i quali Seldon Lady e Castelli). Pollari ha ripetuto più volte di non potersi difendere, poiché per farlo sarebbe costretto a desecretare alcuni documenti coperti da segreto di stato. Ipotesi che ha ricevuto un inquietante bocciatura bipartisan, che va dai maggiorenti di Forza Italia al vicepresidente del consiglio Francesco Rutelli. Una dichiarazione di Fabrizio Ghioni, dirigente della sicurezza Telecom indagato nell’inchiesta parallela sulle intercettazioni Telecom, secondo le quale Mancini avrebbe ottenuto il via libera addirittura dall’ex-sottosegretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta, getta un’ombra sinistra sulle possibili ragioni di questo rifiuto.
In ogni caso sotto accusa è tutta la gestione del Sismi degli ultimi anni, gli anni del tandem Pollari-Mancini Al troncone principale dell’inchiesta sul caso Abu Omar s’intrecciano infatti altre inchieste e altre vicende dai contorni sinistri. Come quella dell’ufficio di Via Nazionale, sorta di centrale organizzata del depistaggio in cui ai comandi dell’enigmatico Pio Pompa rispondevano addirittura alcuni giornalisti, come Renato Farina alias agente Betulla, il cui ruolo nel “ritardare” e confondere le indagini sul caso Abu Omar sarebbe stato tutt’altro che di secondo piano. O come la vicenda Nigergate (il finto dossier che avrebbe provato il possesso di armi nucleari da parte di Saddam Hussein, fabbricato, a quanto pare, proprio dagli 007 italiani). E ancora il caso Telekom Serbia (comprensivo dei vari Scaramella di turno), il già citato caso delle intercettazioni illegali in casa Telecom e poi tutta una serie di presunti allarmi terroristici sventati e subito rivendicati come grandi successi dei nostri servizi segreti ma sulla cui reale autencità in molti hanno espresso seri dubbi (si vedano il caso della sfuggente scuola di kamikaze scoperta a Milano e quello degli attentati ai giochi olimpici di Torino e alla stazione Centale di Milano).
Insomma, quello che si delinea è, senza grandi giri di parole, il quadro della più grave crisi di credibilità dei nostri servizi segreti dai tempi delle trame nere, dello stragismo e di Gladio. Una crisi alla quale il governo di centro-sinistra in carica ha risposto con un atteggiamento ondivago e ambiguo finendo addirittura per promuovere i personaggi sui quali gravano le accuse più serie (come Pollari divenuto nientemeno che consigliere di Stato, o Pio Pompa, finito a lavorare al ministero della Difesa).
Nella Spagna della deriva zapaterista (che come deriva è certamente sui generis visto il grande impegno profuso per la tutela dei diritti umani) un caso di extraordinary rendition similare ha fatto saltare il segreto di stato.
La revisione del segreto di stato è peraltro presente (insieme ad un’idea di riforma globale dei servizi segreti) anche a pag. 81 del programma dell’Unione. Ma in tempi di Prodi bis e tavole della legge imposte dall’alto finirà con buona probabilità nel dimenticatoio (ovviamente with a little help from Rossi&Turigliatto…)
Quanto poi alle implicazioni di tutto ciò sui nostri rapporti con il grande alleato a stelle e strisce, il discorso ci porterebbe lontano. Ci costringerebbe a riflettere su quella strana parola che più di ogni altra sembra aver avuto negli ultimi tempi interpretazioni contrastanti e slittamenti semantici: discontinuità.

(Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari)

lunedì 12 marzo 2007

NAZISTI VENEZUELANI A SPASSO PER L'ITALIA

Il fatto che l’informazione italiana rispetto al tetro quinquennio berlusconiano sia più libera non significa ipso facto che sia sempre di qualità migliore. E così può accadere che nazisti venezuelani possano andarsene a spasso per Radio e giornali italiani, venendo accreditati come campioni dell’antichavismo moderato. (Ed anche, che pur essendo sospettati di aver organizzato un’attentato contro Papa Woityla, vadano a braccetto con Cesa nel nome della democrazia in Venezuela). Essere antisemiti, incitare al colpo di stato, sostenere che l’America Latina debba tornare ai militari, tutto va bene purchè sia in funzione anti-Chavez. Anche un nazista come Alejandro Peña Esclusa. Leggete questa storia incredibile nell’articolo di Gennaro Carotenuto a questo link.

domenica 11 marzo 2007

NOTIZIE DALLE ANDE

Due notizie arrivano dalla zona andina. Entrambe inquietanti.

La prima viene dal Perù di Alan Garcia. Quest’ultimo, una decina di giorni fa, presentando un’importante opera pubblica che porterà l’acqua alla zona di Huaycán non si è fatto problemi a definire i poveri del proprio paese “parassiti”. “Smettano di stendere la mano per vedere se piove, smettano di chiedere, che questo lo fanno solo i parassiti” ha dichiarato infatti il presidente peruviano ed ha continuato: “Dammi lavoro, dammi acqua potabile, dammi reti fognarie. Cosa vuoi che ti dia ancora? Crescete con i vostri sforzi , lavorando uniti e smettetela di chiedere, perchè questo vi fa diventare dei parassiti”. Una concezione sui generis di quello che dev’essere il ruolo dello Stato nei confronti dei cittadini, da parte di questo cinquantottenne, che il nostro D’Alema ha definito «un esponente storico della sinistra latinoamericana». Chissà forse sarà la cattiva coscienza per aver già ridotto sul lastrico una volta il Perù con politiche liberali e corruzione che lo spinge a mettere le mani avanti e ad uscirsene con questo bel discorsetto tatcheriano, dall’indiscutibile contenuto umano e solidale. In ogni caso, che ne pensino, i milioni di peruviani che l’hanno votato, l’Alan Garcia che prometteva grandi cose al suo popolo durante i suoi balconazi di più di vent’anni fa è decisamente morto e sepolto.


La seconda notizia invece arriva dall’Ecuador e pone non pochi grattacapi a chi come il sottoscritto aveva visto nell’elezione di Raffael Correa a presidente una svolta per lo stato sudamericano. Già in passato alcune dichiarazioni un po’ ambigue di Correa sul superamento dei partiti e sull’indifferenza verso la prassi parlamentare avevano dato un po’ da riflettere, ma certo non inficiavano l’ammirazione per una serie di scelte importanti, come quella del non rinnovo della base militare statunitense di Manta o quella di dare il via ad un’assemblea costituente sul modello di quella venezuelana del ’98 o di quella attuale boliviana.
Ora la decisione del Tribunale Elettorale di destituire 57 deputati dell’opposizione che hanno tentato di boicottare la Costituente (con tanto di cordoni di polizia che hanno vietato l’ingresso in Parlamento dei parlamentari “decaduti”), che – avendo ricevuto il plauso di Correa - prefigura qualcosa di simile a un “golpe tecnico”, pone parecchie perplessità a chi in questi ultimi tempi ha creduto nella possibile affermazione di un socialismo democratico – simile a quello che pur con molte difficoltà si sta realizzando in Venezuela e Bolivia - anche in Ecuador. La situazione è ovviamente ancora in evoluzione e non è possibile dare giudizi definitivi. Inoltre va segnalato che i 57 destituiti si erano macchiati in precedenza di una grave ingerenza da parte del parlamento ecuadoriano nei confronti del potere giudiziario, chiedendo le dimissioni di Jorge Acosta, il presidente del tribunale elettorale, il quale aveva appoggiato il progetto della Costituente, pur provenendo dalle file del Partito Sociedad Patriotica, uno dei raggruppamenti dell’opposizione. In ogni caso la crisi non sembra facilmente sanabile, almeno in via democratica, data l’assenza di una maggioranza in Parlamento, da parte del presidente Correa.
Vi invito comunque ad approfondire la questione con l’articolo di Maurizio Campisi dal blog America Latina, e quello (di segno opposto) di Selvas.

sabato 10 marzo 2007

8 MARZO A TEHRAN

Forse è così. Dell’Iran se ne parla solo quando fa comodo. Quando è utile per sostenere la politica del governo israeliano o di quello americano nella regione o, viceversa, per screditare quella del governo venezuelano – senza nulla togliere alla gravità delle posizioni negazioniste del presidente Ahmadinejad, ovviamente.
Degli studenti che protestavano contro il sedicente convegno storico sulla shoah lo scorso dicembre a quanto pare ce ne siamo dimenticati assai presto – né sorte migliore aveva avuto il grande movimento giovanile per la democrazia e la libertà d’espressione del 2003, quando al governo c’era ancora Khatami.
Allo stesso modo l’altro ieri non pare che i grandi mezzi di comunicazione abbiano deciso, nel solito tripudio di mimose a reti unificate, di volgere lo sguardo alla repubblica islamica governata da Ahmadinejead.
Nel giorno della festa della donna meglio presentare i soliti modelli di donne fintamente emancipate, rampanti e in carriera, magari detentrici di mascolini titoli sportivi…perché rovinarsi la festa con le brutte notizie in arrivo da Terhan, con la storia di un gruppo di attiviste femministe, arrestate per “attentato alla morale islamica” (sigh) e sbattute nel tremendo carcere di Evrin? …Meglio lasciar perdere. Non serve a lanciare anatemi in favore della lotta al terrorismo internazionale, né a rinfocolare la solita storia dello scontro di civiltà (anzi semmai il contrario, proprio perché dimostra che i paesi islamici non sono monolitici come si vuole fare credere, ma invece molto si muove al loro interno...) Quindi meglio lasciar perdere. E chissenefrega se queste donne lottano dal giugno scorso, nell’indifferenza generale, per il riconoscimento dei loro diritti più basilari, come quello al divorzio, alla possibilità di custodia dei figli, all’uguaglianza di fronte alla legge, all’abolizione della poligamia.
Non vogliono essere donne di successo, non vogliono stare al centro della scena, in ossequio ai nostri baluginanti modelli di vita occidentali, ma vogliono solo vedersi riconosciuti i propri diritti e la propria dignità. E quindi non c’interessano.

Per chi vuole saperne di più consiglio questi due articoli:

http://www.megachip.info/modules.php

http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=64192

venerdì 9 marzo 2007

BEM-VINDO Á BRASIL, MR. BUSH!

mercoledì 7 marzo 2007

OSSIMORO VATICANO

Qui lo dico e non lo nego: che un ordinario militare (che possiede in quanto ordinario le stellette di generale di corpo d’armata) sia eletto presidente della Cei, quindi che sia ai vertici della Chiesa Italiana, è quantomeno un ossimoro. Oltrechè uno scandalo e un oltraggio al Vangelo, per chi crede. Se S. Pietro rinnegò tre volte Gesu Cristo prima che il gallo cantasse, Bagnasco lo rinnega tutti i giorni, portando su di sé quella carica infame, contraria allo spirito del Vangelo…


Ah Don Lorenzo milani, ci fossi ancora tu ad esecrare questa Chiesa preconciliare, reazionaria e (diciamocela tutta) anche un po’ anti-evangelica…

lunedì 5 marzo 2007

UNO SU DUE

Prima di morire Tiziano Terzani scrisse che la brutta malattia che aveva contratto era un baluardo contro la banalità del quotidiano, un’occasione per ripensare la propria vita sotto un’ottica diversa, alla luce di una nuova consapevolezza. Forse è da qui che prende le mosse Uno su Due il nuovo film di Eugenio Cappuccio, quarantaseienne regista romano, già assistente di Fellini sul set di pellicole come Ginger e Fred e La Voce della Luna.
Lorenzo Maggi (Fabio Volo) è un avvocato rampante, apparentemente sicuro di sé e ad un passo da quello che crede l’affare della propria vita. Ha una fidanzata, Silvia (Anita Caprioli), a cui non tiene molto e un socio, Paolo (Giuseppe Battiston), molto meno spavaldo e sicuro di lui. Un giorno, dopo una causa vinta in tribunale, uno svenimento improvviso. In ospedale i medici portano Lorenzo in oncologia: una biopsia svelerà se si tratta di cancro al cervello.
Tutto il film è imperniato sull’angosciosa attesa da parte del protagonista del responso finale, il cui esito ovviamente non sveliamo. Uno su due è infatti la percentuale di persone che guariscono da malattie neoplastiche, così come la quantità media di casi benigni.
Ma uno su due sta anche a indicare la scoperta - nel riesame complessivo della propria vita innescato dal confronto angoscioso con la morte - dell’altro sé, il sé rimosso da superficiali ambizioni di carriera e successo. Di fronte a questo sé sopito Lorenzo dovrà decidere quale dei due sé scegliere. Perché solo uno dei due può farcela. Vincerà quello autentico sotto la patina di superficialità ed arrivismo, o quello brillante e di successo, ma vuoto e insipido?
Cosi come in Volevo solo dormirle addosso Cappuccio ci presenta un personaggio nel momento fatidico della crisi, nel momento della catastrofe in cui convinzioni e valori precipitano e lasciano l’uomo nudo di fronte a sé stesso. Ma se nel film precedente la crisi era confinata su un piano etico-professionale qui è globale, a 360 gradi. E si dipana in un progressivo itinerario di consapevolezza, non solo interiore ma anche “geografico” – come lo spettatore scoprirà vedendo il film –, grazie all’incontro tra il protagonista e Giovanni (Ninetto Davoli), un ex-camionista malato di cancro, per il quale Lorenzo avrà l’opportunità di far qualcosa di molto importante. Qualcosa che gli permetterà davvero di spiccare il volo, in un senso a un tempo metaforico e reale.
Insomma, dopo i toni di commedia brillante di Volevo Solo dormirle addosso Cappuccio punta alto, scegli temi quasi tolstojani e un registro che vira dall’iniziale satira di costume al dramma e al road-movie. Non tutto è risolto ovviamente. Anche se assistito da un Fabio Volo in stato di (imperfetta) grazia, da una buona prova di Anita Caprioli e da uno straordinario Ninetto Davoli qui protagonista di una metamorfosi prodigiosa rispetto ai consueti ruoli urlati di borgotaro o pasoliniano ragazzo di vita, l’intento del regista si realizza solo in parte. I limiti di un linguaggio troppo spesso virtuosistico che non lesina tutti i vezzi possibili - dalle inquadrature deformate, ai ralenti all’uso di musiche inquietanti - sono sotto gli occhi di tutti. Ma nondimeno il film riesce a raggiungere spesso un effetto di sobria intensità.
Pur con tutti i suoi difetti allora (primo fra tutti un finale pomposo e retorico) il film di Cappuccio è da promuovere senza esitazioni. Principalmente per il coraggio nella scelta di un argomento che non ha alcun appeal e che difficilmente viene affrontato dal cinema italiano: il tema della malattia o ancora meglio in questo caso, della percezione della malattia, del vissuto angoscioso di chi è atteso da un destino di sofferenza. E poi, per l’esibita volontà di fare un cinema che, pur con interpreti di richiamo, non senta il bisogno di rassicurare o risultare gradevole al pubblico. Se questo è il prodotto medio che il cinema italiano può produrre in questo periodo, viva il cinema italiano.

(Articolo scritto per la rivista Fusi Orari, www.fusiorari.org).

Ricerca Google

Google