domenica 23 settembre 2007

SEMPRE MENO SANTO


A Buenos Aires da qualche tempo si sta celebrando il processo contro il capellano militare Christian Von Wernich, accusato di collaborazione con i torturatori della giunta militare di Videla e soci. E’ cosi che da una deposizione del premio Nobel Adolfo Perez Esquivel veniamo a conoscenza di un episodio a dir poco raccapricciante: l’udienza papale ottenuta nel 1981 dallo stesso Equivel, in cui il premio Nobel portò a Giovanni Paolo II un dossier redatto dalle Madres de Plaza de Mayo, che documentava il caso di 84 bambini desaparecidos. L’intenzione era ovviamente quella di chiedere un impegno da parte della Chiesa per il rispetto dei diritti umani in Argentina.
Ma il Papa, dopo aver letto il dossier, non trovò niente di meglio che dire ad Esquivel che doveva occuparsi di più «dei bambini dei paesi comunisti». 84 bambini deportati da una giunta militare brutale, non facevano nè caldo nè freddo al presunto vicario di Cristo in terra.


C’è forse ancora qualcuno disposto a gridare «santo subito»?


(Sullo stesso argomento, leggi anche questo articolo di qualche mese fa’).

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venerdì 21 settembre 2007

NAZISTI A ROMA


Nella notte tra mercoledì e giovedì scorsi, un campo rom di Roma è stato assaltato a suon di molotov e spranghe. Com’era prevedibile oggi quasi tutti i telegiornali ne hanno parlato. Ma in tempi di ordinanze draconiane contro i lavavetri, tutti (da Rete 4 al Tg3!) hanno parlato di “protesta da parte di cittadini esasperati”. Semplici cittadini esasperati!
Ora, fossero anche tutti cani sciolti, cioè non inquadrati in formazioni o gruppi neofascisti o d’estrema destra, non possono essere chiamati semplici cittadini. Chiunque assalti con molotov e spranghe un campo nomadi non è mai un semplice cittadino. Ma un nazista. E basta.

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martedì 18 settembre 2007

PERU’: ALAN GARCIA CENSURA RADIO CRITICA NEI CONFRONTI DELL’OPERATO DEL GOVERNO NELLE ZONE TERREMOTATE. NEL SILENZIO DELLA COMUNITA’ INTERNAZIONALE

Vi siete accorti che dopo un iniziale grande interesse, nessuno vi sta parlando più delle conseguenze del terremoto in Perù? Vi siete chiesti il perché? La risposta è semplice. Il Perù non sono gli Stati Uniti, e Pisco non è New Orleans. Così come non lo sono il Nicaragua, colpito dall’urugano Fèlix o il Bangladesh sconvolto dalle alluvioni. E quindi per il Perù niente raccolte aziendali di fondi, niente reportage televisivi strappalacrime, niente di niente. A nessuno, nella nostra vecchia Europa sembra interessare se e come il Perù si stia risollevando dalla catastrofe umanitaria che lo ha colpito poco più di un mese fa. Preoccupazione invece molto sentita nel paese andino. Anche troppo forse, per i gusti di Alan Garcia e soci.

E’ di pochi giorni fa infatti la notizia che il Ministero dei Trasporti e delle Comunicazioni (MTC) ha ordinato la sospensione delle trasmissioni (e quindi successivamente sequestrato con apposito blitz poliziesco, tutte le apparecchiature per la trasmissione) a Radio Orion, un’emittente radiofonica di Pisco.
La motivazione ufficiale parla di questioni burocratiche legate al rinnovo della licenza, ma ovviamente le ragioni sono altre. E cioè il fatto che da qualche settimana Radio Orion stava dando voce allo scontento dei cittadini di Pisco relativamente alle operazioni di ricostruzione della città dopo il terremoto. Operazioni che di fatto non sono ancora cominciate. Così come quasi completamente disattesa appare la promessa del governo centrale di indennizzare i feriti del sisma con la (modica per la verità) cifra di 800 soles – un po’ meno di 200 euro.
E cosi vià la licenza. Per evitare che, così come avvenuto di recente in occasione dell’annuale commemorazione dello sbarco di Jose de San Martìn, si verifichino proteste e manifestazioni contro l’inefficace e assente politica di soccorso ai terremotati del governo di Alan Garcìa.

La chiusura di Radio Orion non è peraltro un caso isolato. Contestualmente all’emittente di Pisco altre cinque radio peruviane si sono viste revocare l’autorizzazione per trasmettere nel solo mese di settembre, così come recentemente è stata censurata la mostra di un noto caricaturista, Piero Quijano, che denunciava le atrocità compiute dall’esercito nella lotta alla guerriglia dei decenni scorsi.
E non finisce qui: da quando è al potere nuovamente Alan Garcia ha già cancellato la concessione a ben tre canali televisivi nazionali d’opposizione.

Ma tutto questo non turba i sonni delle turbe di presunti paladini internazionali della liberta d’espressione, scesi in campo in massa lo scorso giugno contro la decisione del governo venezuelano di non rinnovare la frequenza all’emittente GOLPISTA Rctv. Alan Garcia infatti non è Chàvez, e il Perù che ha firmato un trattato di libero commercio con gli Stati Uniti non è il Venezuela, e quindi gli interessi occidentali nel paese andino non sono minacciati da prospettive di nazionalizzazione, politiche di redistribuzione o qualunque altra cosa che sulla stampa internazionale possa essere etichettata come “populista”. E così senza la brama del petrolio venezuelano a spingerla, anche la difesa della libertà d’espressione scompare, non buca lo schermo, non interessa più a nessuno.

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sabato 11 agosto 2007

LIMA, VENT'ANNI DOPO

Fa impressione tornare a Lima vent’anni dopo. Passeggiare per luoghi conosciuti tanto tempo fa e dispersi tra i ricordi dell’infanzia. San Luis, Magdalena del Mar, Chorillos - luoghi che al turista o al visitante medio non dicono nulla – ma che a chi ci ha vissuto tanto tempo fa’ ricordano un clima e un epoca lontanissimi…


Fa impressione anche ritrovare la stessa nebbiolina, la stessa garua, la stessa pioggerellina fine alla mattina e lo stesso mare grigio che si perde nella foschia dello zoccolo che sovrasta il malecón limeño

E ritrovare purtroppo anche lo stesso Alan Garcia di vent’anni fa…

Non è cambiata molto Lima in questi vent’anni…Miraflores è sempre più esclusiva, arroccata nella sua superbia di quartiere lussuoso, di vaso di ferro in mezzo a tanti vasi di coccio, così come i pueblos jovenes sono sempre più poveri, oceani di miseria e squallore che si allungano a perdita d’occhio nel deserto che circonda la capitale…

Il continente-Lima continua ad avere i suoi quartieri popolari, i suoi quartieri disagiati ed inavvicinabili ed i suoi quartieri-vetrina ad uso e consumo dei turisti o degli uomini d’affari che, passeggiando tra centri commerciali e ristoranti che vendono il lomo saltado a 9 euro, possono davvero illudersi e credere nella favola del miracolo economico fujimoriano.
Quello che rispetto a vent’anni fa forse non c’è più – fortunatamente – è quel soffocante clima di piombo e violenza, quel senso di minaccia incessante per la guerra civile strisciante tra esercito e senderistas. Quell’impressione che tutto potesse precipitare da un momento all’altro e sprofondare il Perù nell’ennesimo turbine di insurrezioni militari, colpi di stato, desapariciones, ecc…

Se ripenso a quei tempi, tre episodi appaiono come sovradimensionati nella mia memoria di bambino catapultato dall’altra parte del mondo…

Il primo riguarda il nostro arrivo a Lima nel cuore della notte, in una città sconvolta da un coprifuoco poliziesco e brutale. Il taxi che ci portava dal Callao a Miraflores venne fermato una ventina di volte, da gendarmi minacciosissimi. Ogni volta chiedevano i documenti e infilavano la canna del mitra nell’auto. Ricordo che in un paio di casi me la puntarono pericolosamente vicino alla tempia…

Il secondo ricordo mi riporta a una mattina nella centralissima Plaza de Armas. Quella piazza, che ancora oggi, vent’anni dopo, vede sempre la stessa minacciosa presenza di un mezzo d’assalto blindato a lato del palazzo presidenziale.

Io e mia madre siamo seduti su una panchina vicino alla fontana. Arriva un gendarme e ci dice con tono perentorio: «¡Aquí no se puede sentarse!». Mia madre accenna un timido «¿Porquè?» a cui il militare risponde con un secco e stentoreo «¡Porquè no!».Quel che sottintende quel perentorio invito è fin troppo ovvio, e infatti io e mia madre ci allontaniamo in tutta fretta.

Il terzo ricordo è il peggiore di tutti e mi riporta a un pomeriggio grigio, in una vietta vicino a Plaza San Martin. Io e i miei genitori in un taxi parcheggiato, ad aspettare il nostro abogado. Dal fondo di una strada vediamo arrivare correndo un ragazzo, sudato e ansimante. Dietro cinque poliziotti armati di tutto punto. Lo raggiungono e lo spingono contro un muro e quindi incominciano a massacrarlo di manganellate e calci. Mia mamma cerca inutilmente di coprirmi gli occhi, mentre il tassista dissuade mio padre dall’intervenire. Sono scene che fortunatamente dal vivo non ho più rivisto nella mia vita – a parte forse (!) a Genova…

E’innegabile che almeno da questo punto di vista, rispetto al terrore di quegli anni le cose oggi in Perù vadano meglio. Gli indios non vengono più malmenati dai vigilantes se cercano di entrare nei negozi di Miraflores. Ma d’altra parte non hanno nessun motivo di entrarci dato che ogni cosa lì costa più o meno tre volte tanto che altrove. L’apartheid di vent’anni fa sta perdendo ogni connotazione razziale per diventare squisitamente socio-economico – come dimostra il caso della discoteca Cafe del Mar.

Per il resto Lima è la stessa di sempre…piena di gente ospitale e di una malinconia sottile che ti si appicicca sulla pelle insieme alla pioggerellina della mattina e ti accompagna nei taxi che percorrono la via expresa, nei ristorantini che sanno di ceviche e risuonano tutto il giorno di salsa, nelle viuzze intorno alla Plaza de Armas, ripiene di gente che si arrabatta come può, vendendo banane, spilli o software pirata.
E poi quell’odore particolare che ha Lima, tanto indefinibile quanto inconfondibile che ti assale appena scendi dall’aereo e ti ritrovi in mezzo alla garua.

Mi ha fatto piacere ritrovare, riscoprire, rincontrare Lima dopo tanto tempo. Lima, la mia città, la città in cui ho passato più tempo nella mia vita, dopo Milano. Se sono quello che sono, nel bene o nel male, lo devo anche a lei.

sabato 12 maggio 2007

VAURO SUL FAMILY DAY E' INACCETTABILE E CONTROPRODUCENTE

Pubblico qui il testo di una lettera inviata oggi alla redazione del Manifesto, in merito alla vignetta di Vauro riportata qui sotto e apparsa oggi sulla prima pagina del quotidiano romano.

La vignetta di Vauro di oggi sul Family Day è indecente, inappropriata, controproducente e non fa nessun onore al suo (spesso) glorioso autore. Dimostra pochissima intelligenza e tanto qualunquismo. Un qualunquismo non diverso da quello di testate come «Libero» o «Il Giornale» che quando devono attaccare un rappresentante degenere di una certa categoria sociale, ne fanno discendere ipso facto una condanna ingiuriosa di tutta la stessa categoria (tipo “i no-global sono tutti black-block”, “gli iscritti alla Cgil sono tutti terroristi” e via dicendo…).
Soprattutto appare irritante perché riproduce una pratica insultatoria tanto cara alla destra: l’utilizzare l’insulto per parlare d’altro, schivare i problemi sul tavolo (la questione dei Dico) e spostare il confronto sul “personale” . Che a Vauro piaccia o meno, il suo tacciare tutti i preti di pedofilia e perfettamente speculare alla vulgata secondo cui tutti i comunisti mangiano i bambini, o tutti i Rom sono ladri e malviventi.

Occorre ricordare a Vauro che in molte zone d’Italia (come qui a Milano) i preti hanno in gran parte disdegnato il Family Day di Roma.
Ma occorre soprattutto ricordare a Vauro che le prime vittime del clima controriformista della chiesa attuale (di cui il Family Day è massima espressione) sono i preti stessi, i preti operai che a Brancaccio o a Salvador de Bahia, con il loro impegno quotidiano salvano decine di bambini dalla criminalità, dall’abbandono e dalla povertà. Accusare l’intera categoria di pedofilia a causa di qualche decina, forse centinaio di casi in tutto il mondo è una boutade che non aiuta assolutamente a risolvere il serissimo problema dell’ingerenza Vaticana sull’attività legislativa del parlamento italiano, ma che anzi contribuisce stupidamente e scelleratamente ad alienarsi il sostegno di tanti cattolici fortemente critici nei confronti dell’operato delle gerarchie cattoliche.

Dispiace che voi, cari amici del Manifesto, abbiate deciso di prestare il fianco ad un’operazione tanto irresponsabile e di cattivo gusto, qual è quella odierna del pur sovente ottimo Vauro.

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mercoledì 9 maggio 2007

LA SINISTRA ITALIANA E I PROCESSI SOMMARI A SEGOLENE ROYAL

E’ da domenica sera, dai primi exit poll, che sulle reti televisive e sui giornali italiani ( e presumo non solo) va in onda, in pompa magna, il processo sommario a Segolene Royal. Capo d’accusa (scontato): non aver rinnovato, riformato, modernizzato il partito socialista francese. Non aver dato vita come gli illustri colleghi italiani a un’analoga forza moderata, moderna e riformista con contorno di teodem(enti) e cicciobelli vari quale è il Partito democratico(il quale, per inciso, non ha avuto ancora alcun battesimo del fuoco alle urne e sulla cui tenuta quindi teoricamente non si potrebbe dire nulla…).
E poco conta pure che la Royal al primo turno abbia preso dieci punti in più del collega Jospin quattro anni fa, quando il partito socialista francese venne clamorosamente sconfitto dal neofascista Jean-Marie le Pen…
Il verdetto è gia emesso: Segolene Royal è colpevole perché non ha innovato, riformato, modernizzato il partito, perché si è intestardita a voler a tutti i costi difendere lo statalismo, l’assistenzialismo (già che ci siamo perchè non mettiamo tra gli –ismi anche il populismo che di questi tempi va tanto di moda?) del socialismo francese. Il che tradotto dal fassiniano significa: Segolene Royal ha perso perché ha insistito a voler credere che la sinistra debba continuare a dirsi e comportarsi da sinistra (e quindi a difendere lo stato sociale) e non debba invece trasformarsi in centro, continuando però ipocritamente a chiamarsi sinistra (come avviene in Italia). Amen.


p.s. Forse ha ragione chi, negli ultimi tempi, non si è dato tanto pena per la nascita del Partito Democratico ed anzi ne ha apprezzato l’elemento di “chiarificazione”. Prima infatti avevamo un partito di centro che si professava di sinistra ma che agiva da partito di centro, ora perlomeno abbiamo un partito di centro che agisce da centro ma si definisce - un po’ più prudentemente - di centro-sinistra.

martedì 8 maggio 2007

SHOOTER

Anche i kolossal hollywoodiani si aprono alle terie conspirazioniste sulla politica (estera) americana post-11 settembre. Accade con Shooter, il nuovo film di Antoine Fugqa nelle sale italiane dallo scorso 20 aprile.
Da un punto di vista estetico la cosa non ha grande rilevanza, dal momento che Shooter altro non è che uno dei tanti film d’azione dozzinali che Hollywood sforna copiosi ogni anno, ma dal punto di vista sociologico invece ha un qualche interesse.
La trama è semplice, finanche grossolana. Swagger (Mark Whalberg) è un eroe della guerra in Etiopia. Ha visto morire con i suoi occhi un commilitone amico, e con la sua proverbiale perizia balistica lo ha vendicato – tra profluvi di effetti speciali, ovviamente.
Tornato in patria si è ritirato a vita privata in una casa sperduta sui monti. Ma un giorno ecco bussare alla sua porta degli agenti dell’FBI. C’è da sventare un possibile attentato al presidente da parte di un cecchino: chi meglio di un tiratore scelto di riconosciuta bravura come Swagger può assolvere il compito? Dopo qualche tentennamento il veterano accetta, finendo per trovarsi incastrato in un complotto di proporzioni bibliche.
Non andiamo oltre. E sufficiente questa breve sinossi per immaginare che genere di film sia Shooter. Inseguimenti mozzafiato, continue esplosioni, scene d’azione parossistiche ed inverosimili, ralenti virtuosistici, il tutto ovviamente condito dalla necessaria dose di humor e di dialoghi scoppiettanti, in stile Die Hard. E l’inevitabile sottotrama romantica. Niente di originale quindi, seppur confezionato con grande cura.
Ma ciò che interessa di Shooter è il cambiamento di paradigma nei confronti della storia patria. Verso la metà del film il protagonista parlando con la moglie del commilitone ucciso anni prima afferma di aver accettato l’incarico per il suo senso del patriottismo tipicamente americano di cui non va troppo fiero ma del quale non riesce neppure a vergognarsi.
Sembra una frase buttata lì, ma non è così. E’ il polso della disillusione dell’opinione pubblica americana nei confronti dell’ottimismo ufficiale sulla bellicosa politica estera della presidenza Bush. Qualcosa si sta incrinando e anche un film decisamente nazional-popolare, di quelli che i teenager americani consumano nei multisala insieme agli hamburger ipercalorici di Mac Donald, può sperare in buon incasso prendendo in giro il presidente con l’elmetto. Un bel salto in avanti dai tempi di Indipendence Day.
Naturalmente non è tutto rose e fiori. Il film prosegue e la vendetta con annessa pioggia di fuoco che Swagger si prende nel finale dimostrano che anche il kolossal “progressista” Shooter, con la sua esaltazione della violenza e dell’individualismo è figlio della stessa America tronfia e vittoriana di George W. Bush. Ma, per parafrasare un noto cantautore romano, il paese non è più molto giovane e in pochi tra la vita e la morte – di fronte alle salme che ogni giorno tornano dall’Iraq – sceglierebbero l’America.

Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari.

martedì 1 maggio 2007

DELL’ABIEZIONE (DELLA TV ITALIANA)

La giornalista che al Tg1 di ieri sera ha domandato ai genitori di Vanessa Russo, la ragazza morta ad opera di due ragazze romene a Roma, che pena ora s’aspettino per le assassine, quella giornalista merita solamente disprezzo e riprovazione. Ed un monumento alla scorrettezza deontologica.
Esattamente come il titolista del Tg2 che l’altro giorno ha titolato così un servizio inerente alla strage compiuta da un pirata della strada ubriaco di origine Rom: «Dolore e rabbia. Rom nel mirino». Fosse stato non dico padano, o veneto, ma semplicemente peruviano come è accaduto in un caso analogo di qualche mese fa, nessun telegiornale avrebbe titolato in quella maniera.
Gente come questa non fa giornalismo, istiga all’odio (razziale nel secondo caso).

Forse dopo il periodo berlusconiano, la televisione italiano è formalmente più libera, ma non è necessariamente migliore qualitativamente.
Basta dare un ‘occhiata al Tg2 di Mauro Mazza, dove la politica è sempre confinata in uno spazietto misero nella seconda parte del giornale, a causa di una politica di “emancipazione della cronaca” il cui obbiettivo non dichiarato è instillare una paura diffusa (che come si sa, da che mondo è mondo, spinge sempre a destra le masse silenziose) attraverso la descrizione stolidamente compiaciuta di ogni più minimo ed efferato particolare di ogni infimo caso di cronaca nera.
Così come basterebbe dare un’occhiata a che fine hanno fatto gli “epurati di Sofia” a un anno dalla vittoria del centrosinistra per rendersi conto delle condizioni attuali dell’azienda radiotelevisiva di Stato.
L’unico reintegrato a pieno servizio è Santoro – ma si badi bene, sotto minaccia di un provvedimento giudiziario. Biagi è tornato, ma confinato - dallo spazio in prime time sulla rete ammiraglia che aveva cinque anni fa - alla seconda serata del lunedì su Rai Tre.
Stessa sorte sul fronte dei comici per la Dandini, laddove invece Sabina Guzzanti o Luttazzi non sono mai stati reintegrati.
E poi ci sono i censurati di lunga data, come Grillo o Minà che dalla Rai erano già stati cacciati prima che ci arrivasse il biscione.


Ogni tanto mi commuovo guardando qualche videocassetta registrata negli anni ’80, vedendo prima e dopo il film pubblicità di film d’autore o di spettacoli teatrali in prima serata.
Oggi invece perfino un Fassino fa il suo outing a favore dei reality show. Per combattere lo strapotere della tv Berlusconi infatti non serve una legge sulle telecomunicazioni valida (cioè una legge diversa dalla Gentiloni), ma – continuano a ripeterci gli spin doctors del Centrosinistra - bisogna semplicemente vincere la gara degli ascolti con Mediaset portando la televisione di Stato al suo stesso livello ributtante. Di chi faccia il gioco una tale concezione lo possono capire tutti, tranne forse la nostra classe dirigente.
Ma consoliamoci, su Rai Uno c’è sempre Giannino Riotta che come dice Prodi tanto «piace a tutti». Forse – malgrado alcuni meriti innegabili come l’aver promosso il libro di Saviano – non proprio a tutti.

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