venerdì 15 settembre 2006

MESSICO: LA GRANDE FRODE

E’ finita. Dopo più di due mesi d’incertezza il Messico ha un nuovo presidente. Ma non è assolutamente detto che si tratti del candidato più votato dal popolo messicano. Anzi…


Ma andiamo con ordine. Il 2 luglio scorso si svolgono nel paese centroamericano le elezioni presidenziali. A contendersi la massima carica istituzionale ci sono i candidati dei tre partiti che da circa vent’anni tirano le fila della politica messicana: il PRI (Partido Revoluciònario Istitucional) il PAN (Partido de Acciòn Nacional) e il PRD (Partido de la Revoluciòn Democratica). Il PRI, sorta di democrazia cristiana messicana, ha governato ininterrottamente il paese per tutto il Novecento. Nato dalla rivoluzione di Villa&Zapata, di ispirazione socialista, si è lentamente trasformato nel monolitico strumento di dominio delle oligarchie conservatrici del paese (pur lasciando traccia del proprio passato progressista nell’ossimoro del nome attuale – in precedenza si chiamava Partido Revoluciònario Naciònal). Il PAN, partito nazionalista di destra ha quindi interrotto per la prima volta un dominio che durava dal 1910, nel 2000, vincendo le elezioni presidenziali. Ma la svolta è stata più apparente che reale dal momento che il PAN si è appoggiato alle medesime forze sociali del predecessore (i potentati economici del paese e l’alta borghesia legata a doppio filo con il vicino colosso statunitense) e ne ha proseguito la politica conservatrice e neo-liberista – il presidente uscente Vicente Fox è nientemeno che l’ex boss della filiale messicana della Coca-Cola, multinazionale che in Messico controlla circa l’80% delle bevande imbottigliate – il conflitto d’interessi non è, a quanto pare, solo una specialità nostrana…

Ma alle elezioni di luglio si profila una svolta. Il PRD, il terzo contendente – partito di centro-sinistra nato nel 1989 da una costola del PRI per dissenso rispetto alla politica autoritaria e neo-liberista di quest’ultimo – ha serie possibilità di imporsi. Può schierare, a fronte degli incolori Roberto Madrazo e Felipe Calderon di PRI e PAN, un pezzo da novanta, Andres Manuel Lopez Obrador, il sindaco uscente di Città del Messico. Amlo (come lo chiamano i suoi sostenitori) ha governato per cinque anni con straordinaria efficienza el monstruo, la capitale più popolosa e caotica della terra, riuscendo in quella che si può definire un’impresa: ripulire (seppur parzialmente) la corrottissima polizia della città. Sin dall’inizio i sondaggi lo danno in testa. Una sua vittoria sarebbe una vittoria epocale: spazzerebbe via l’asse conservatore da oltre mezzo secolo al potere in Messico e spingerebbe nuovamente il paese a sinistra, settant’anni dopo la presidenza illuminata di quel Lazaro Cardenas che rese la patria delle tortillas la nazione più avanzata dell’intera America Latina. Anche il Messico potrebbe accodarsi a quella ventata di cambiamento che viene dall’America Meridionale e che ha portato all’ascesa di governi progressisti in Brasile, Argentina, Venezuela, Bolivia, Cile ed Uruguay. Il rischio per PRI e PAN è grande. Nei due anni precedenti alla tornata elettorale parte allora una campagna diffamatoria in grande stile (orchestrata nell’ombra dall’ex-presidente del PRI Salinas de Gortari). Una campagna che facendo perno sulle dichiarazioni di un imprenditore argentino, Carlos Ahumada, mira a gettare addosso a Lopez Obrador infamanti accuse di corruzione. Il complotto viene però abbastanza in fretta allo luce, per diretta ammissione dello stesso Ahumada. Si arriva così alla fatidica giornata del 2 luglio. Tutti si aspettano una vittoria di Obrador…e invece, lo scrutinio assegna la vittoria, per l’esiguo scarto dello 0, 56 %, a Calderon, il candidato del PAN. Ma…sorpresa! Tra il numero dei votanti e i voti assegnati c’è uno scarto di 900 000 voti! Dove sono finiti? Nei giorni successivi si moltiplicano da tutti i distretti elettorali del paese le denunce più inquietanti: furti di urne, schede sottratte e fatte sparire, voti annullati senza ragione, intimidazioni, conti che non tornano, cifre falsificate… Lopez Obrador si appella immediatamente all’IFE (Instituto Federal Electoral), perché disponga un riconteggio totale dei voti. Tutto il Messico trema ripensando all’orribile precedente del 1988. Anche allora un candidato di sinistra (Chautemòc Cardenas, figlio del già citato Lazaro Cardenas) era dato per strafavorito. Invece alla fine di una lunga giornata d’estate risultò vincitore Salinas de Gortari, il candidato del PRI. Solo anni dopo venne fuori l’orrenda verità dei brogli che avevano condizionato quel voto.

Nei giorni successivi al 2 luglio allora – ricordando questo tremendo precedente – i sostenitori di Por el Bien de Todos (la coalizione che spalleggia Obrador) si riversano in massa per le vie di Città del Messico per protestare contro el fraude. Il 30 luglio, nello Zocalo, la piazza principale, si contano più di due milioni di persone. Nella capitale si moltiplicano los planteamentos por la democracia: occupazioni di piazze, strade, viali, dove si improvvisano dibattiti, si allestiscono spettacoli e concerti, si sperimentano nuove forme di lotta…E’ la più grande mobilitazione pacifica della storia messicana. Una rivolta che viene dal profondo della società civile, stufa di decenni di oppressione e corruzione del paese... Purtroppo la doccia fredda è in agguato. L’IFE, probabilmente manovrato dall’oligarchia panista, concede solo un riconteggio del 9% delle schede e lascia cadere nel vuoto le denunce di Lopez Obrador. Il riconteggio parziale non intacca la vittoria di Calderon e conferma i risultati. La traballante democrazia messicana incassa una nuova sconfitta. Ma cosa avrebbe potuto fare la sinistra al potere da giustificare un tale ricorso all’illegalità?

Forse avrebbe rinegoziato quel trattato di libero commercio-capestro con Usa e Canada – fortemente voluto dal PRI – che ha causato la chiusura di migliaia di aziende messicane (battute dalla concorrenza dei prodotti a Stelle Strisce) e spinto così all’emigrazione milioni di messicani… Forse avrebbe chiesto agli stessi Stati Uniti una politica dell’immigrazione più rispettosa dei migranti messicani… Forse avrebbe anche combattuto i cartelli del narcotraffico, da sempre collusi con il potere di Città del Messico… Molto probabilmente avrebbe ridimensionato lo sfruttamento delle principali risorse del paese da parte delle multinazionali straniere e il controllo delle più importanti catene di mezzi d’informazione da parte delle oligarchie legate a PRI e PAN. In qualche modo avrebbe allentato la dipendenza secolare dall’ingombrante vicino yankee - “Povero Messico, tanto lontano da Dio e tanto vicino agli Usa” diceva Porfirio Diaz… Magari avrebbe anche spinto verso il riconoscimento dei diritti delle popolazioni indigene e migliorato le condizione di vita dei milioni di cittadini messicani che vivono sotto la soglia di povertà. In ogni caso sarebbe stato un passo importante verso una democrazia reale.

(Articolo scritto per Vulcano la rivista degli studenti dell'Università Statale di Milano).

giovedì 4 maggio 2006

FISCHI PER FIASCHI


Sarò sincero. Ho mal sopportato i fischi a Letizia Moratti nei cortei del 25 aprile e del 1 maggio. Quando si scende in piazza è ben riflettere sulla propria presenza in corteo e non su quella degli altri. E poi come si può dubitare dell’antifascismo di Letizia Moratti? Non sarà solo per la sua contiguità con certi ambienti (salò)ttieri, di solito poco avvezzi a celebrare la Liberazione italiana e inclini invece a commemorare “quei bravi ragazzi”della Repubblica Sociale? (vedi il sindaco uscente Gabriele Albertini…) O per il fatto che, due giorni dopo la partecipazione al corteo del 25 aprile, ha siglato un accordo elettorale con due formazioni neo-fasciste come Fiamma Tricolore e Forza nuova? Come se nell’Italia post-berlusconiana non fosse lecito scendere in piazza il 25 aprile per il medesimo calcolo elettoralistico in base al quale si fanno entrare nella propria coalizione gli eredi politici del Duce! Ma dai… E ancora mi domando perché neppure il 1 maggio, festa del lavoro, alla signora Moratti sia stato steso un bel tappeto rosso di benvenuto. Sarà forse per le 8500 cattedre tagliate (con il licenziamento dei relativi titolari) quand’era ministro dell’Istruzione? O sarà invece per la precarizzazione e l’allungamento ventennale dell’iter dei ricercatori italiani? E comunque anche così fosse vi sembra il caso di prestarsi all’indecoroso (ancorchè pacifico) spettacolo di qualche decina di queruli fischi? Non era più educato minacciare l’aspirante sindaco – magari avendo dietro le spalle un bello sfondo blu - di non pagare le tasse in caso di vittoria elettorale?

(Corsivo scritto per Vulcano, rivista degli studenti dell'Università Statale di Milano)

martedì 21 marzo 2006

COLOMBIA - LA GUERRA CIVILE RIMOSSA

Di tutti i grandi paesi latinoamericani la Colombia è quello di cui in Europa si sente parlare di meno. E questo malgrado sia la democrazia più antica del continente, nonché uno degli stati più ricchi di risorse della regione – il suo sottosuolo è infatti pieno di idrocarburi, fosfati e gas naturale. Neppure la tornata elettorale dello scorso 12 marzo sembra aver scalfito il disinteresse dei media occidentali nei confronti del paese sudamericano. Un silenzio, quello sulla Colombia, che nasconde soprattutto lo stillicidio di fatti di sangue prodotto dalla guerra civile strisciante che il paese vive da quarant’anni; una guerra civile che negli ultimi tempi sembra vivere una fase di recrudescenza. Essa oppone, da una parte, la guerriglia dell’Eln (una piccola formazione d’ispirazione cattolico-guevarista) e soprattutto delle Farc (il Fronte Armato Rivoluzionario Colombiano, di stretta osservanza marxista) e, dall’altra, il governo di Bogotà e i gruppi paramilitari di destra – le cui sigle più famose sono l’Auc (Autodefensas Unidas de Colombia) e il temibilissimo BCN (Bloque Cacique Nutibara), attivo soprattutto nella zona di Medellin. Entrambi (Farc e paramilitari) sono compromessi, seppur con finalità diverse, con il narcotraffico – ricordiamo per inciso che la Colombia è il primo produttore mondiale di cocaina e il terzo di eroina. Sottolinea infatti Hernando Gomez Buendia, consulente colombiano dell’Agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite, in un’intervista alla Jornada, come: «A differenza dei paramilitari che usano la forza militare per consolidare i loro commercio di droga, i guerriglieri utilizzano il denaro della droga per consolidarsi militarmente».A questo breve elenco delle forze in campo vanno poi aggiunti ovviamente gli Stati Uniti, che in Colombia hanno il più grande ufficio estero della Dea (l’agenzia della Cia preposta alla battaglia al narcotraffico)- ufficio composto da ben 35 agenti ed un centinaio di investigatori i quali, a differenza dei loro colleghi negli altri paesi latinoamericani, hanno una ben più grande libertà d’azione e possono addirittura girare armati. Oltre a questo, l’intervento Usa nel paese sudamericano si realizza attraverso il Plan Colombia - un faraonico piano di finanziamento, ammontante a circa 700 milioni di dollari all’anno, (ufficialmente per la lotta al narcotraffico) - e la presenza sul territorio di circa 1200 persone tra soldati regolari e contractors, con il compito di addestrare l’esercito colombiano nella battaglia contro la guerriglia.

E’ in questo scenario poco edificante che hanno avuto luogo le già citate elezioni legislative. Elezioni che hanno assicurato al presidente Alvaro Uribe Velez, campione della destra colombiana, una maggioranza assoluta in Parlamento. Un risultato schiacciante che, nelle intenzioni dello stesso Uribe, dovrebbe servire come trampolino di lancio per la propria rielezione alla carica di presidente della repubblica (le elezioni presidenziali si terranno infatti a maggio). Una rielezione permessa unicamente da una legge ad personam fatta approvare a colpi di maggioranza lo scorso aprile dallo stesso Uribe, per poter ripresentare la propria candidatura. I sostenitori di Uribe hanno difeso la legge, controbattendo l’accusa di caudillismo degli oppositori con l’affermazione che “governare per altri quattro anni sarebbe fondamentale per completare il programma di lotta contro la guerriglia" avviato dal presidente.

In realtà il programma di lotta alla guerriglia avviato da Uribe pone non poche perplessità. Se infatti, esso, malgrado l’impiego massiccio di forze militari e il bombardamento di alcune zone rurali del paese, non può vantare risultati tangibili nella battaglia contro le Farc – solo poche settimane fa, per citare un episodio fra i tanti, i guerriglieri hanno fatto strage del consiglio comunale di Rivera, una cittadina del Sud del paese- tuttavia avrebbe, per i suoi fautori, il grande merito di aver contrastato lo strapotere dei paramilitari grazie ad un’apposita legge approvata lo scorso giugno, la Ley de Iusticia y Paz. Ma è proprio questa norma il provvedimento che pone più dubbi sull’effettivo impegno per la pacificazione del paese di Uribe&soci. La ley de Iusticia y Paz, infatti, nel presunto intento di promuovere la smobilitazione di tutti i gruppi paramilitari colombiani, offre l’amnistia a qualunque componente di qualsiasi formazione armata. E’ infatti sufficiente consegnare un’arma e dichiarare di aver fatto parte di un qualunque gruppo per riacquisire tutti i diritti civili e politici. Soprattutto ai paramilitari non viene chiesto nulla in cambio: né di ammettere i propri delitti, né di riconsegnare eventuali beni confiscati con la violenza, ne di smobilitare il proprio arsenale militare. Accertare eventuali colpe, per la legge, è infatti compito della magistratura. Ma non oltre sessanta giorni dal “reintegro” nella società civile del paramilitare. Dopo tale data viene infatti garantita l’impunità anche di fronte a prove incontestabili di partecipazione ai reati. Una legge con queste premesse, ovviamente, non può non incorrere nell’accusa di avere, dietro lo sbandierato scopo di smobilitare i paramilitari, quello contrario di legalizzarne l’operato. Proprio questo è infatti il rimprovero più grande che Amnesty International, in un comunicato apposito (al solito completamente ignorato dai media) rivolge alla Ley de Iusticia y Paz: «la strategia di smobilitazione in Colombia minaccia di consolidare i paramilitari e garantire agli autori di alcune delle peggiori atrocità contro i diritti umani di commettere più assassini». E concentrandosi sulla città di Medellin, il documento dell’Ong sostiene che lì il BNC: «recluta membri e agisce congiuntamente con le forze di sicurezza», con l’unica differenza che rispetto al passato ora i paramilitari «nascondono le loro attività sotto la denominazione di imprese private di sicurezza o agiscono come informatori per le forze di sicurezza».

In ogni caso chi ne fa le spese è la popolazione civile colombiana che negli ultimi mesi ha visto un massiccio incremento di tutte le forma di violenza politica: assassini, sparizioni, aggressioni di vario genere. Decine sono stati i sindacalisti e attivisti per i diritti umani rapiti, torturati o semplicemente eliminati. Stretta nella morsa tra guerriglia e paramilitari, la popolazione colombiana è vittima peraltro anche dei scellerati metodi di contrasto delle Farc da parte del governo di Bogotà; ben 222 000 persone - solo negli ultimi 12 mesi - sono state infatti costrette dall’esercito ad abbandonare le proprie terre, per favorire le manovre di accerchiamento militare dei guerriglieri. A ciò si aggiungono poi gli effetti nefasti della strategia di eradicazione delle coltivazioni di coca attraverso la fumigazione con defoglianti comici – strategia portata avanti principalmente grazie ai finanziamenti provenienti da Washington tramite il Plan Colombia. Le fumigazioni, affidate alla multinazionale statunitense Dyn Corp (una vera autorità nel campo del lavoro mercenario – suoi sono infatti la maggiorparte dei contractors americani attualmente presenti in Iraq) vengono infatti condotte con l’utilizzo su larga scala di sostanze altamente inquinanti come il glifosato e il Cosmo-flux 411Fquest’ultima per la sua forte tossicità negli Stati Uniti è addirittura bandita… Tuttavia senza grandi risultati. La quantità di cocaina esportata annualmente dalla Colombia – ad onta del forte impatto sociale e ambientale della strategia delle fumigazioni – non sembra avere registrato un calo sensibile.

Al contrario, negli ultimi tempi, è tutto l’operato degli Stati Uniti nella lotta al narcotraffico colombiano a destare grandi perplessità. Un recente documento (tanto eclatante quanto passato inosservato in Europa), ha gettato un’ombra molto sinistra sull’attività Usa in Colombia. Il 16 gennaio scorso la rivista Semana – una delle più importanti del paese sudamericano – ha infatti pubblicato parte di un memorandum segreto redatto nel dicembre 2004 da Thomas M. Kent, un funzionario del dipartimento di giustizia americano. In esso - definito dalla rivista colombiana «una vera bomba» - vengono descritti «con insolita franchezza» gravissimi episodi di corruzione di agenti della Dea in Colombia. Alcuni funzionari americani avrebbero infatti fornito informazioni riservate ai narcotrafficanti allo scopo di facilitarne gli affari, aiutato i paramilitari dell’Auc a riciclare denaro sporco e sarebbero addirittura coinvolti nell’omicidio di diversi testimoni da parte di quest’ultimi. Accuse molto pesanti che, rimaste segrete per più di un anno, rischiano ora di venire insabbiate e finire nel dimenticatoio.

Alla luce di questa politica ambigua non è difficile prevedere quali tremendi effetti di cronicizzazione della guerra colombiana potrebbe avere una rielezione di Uribe. E la posizione ed il comportamento del grande alleato a stelle e striscie non promette certo nulla di meglio.

domenica 19 febbraio 2006

CORRIDOIO N. 5

Anche se personalmente, per assonanza, mi ricorda solo Mattatoio n.5 , il bel romanzo di Kurt Vonnegut sul bombardamento alleato di Dresda , Il Corridoio 5 è un grande infrastruttura imprescindibile. Sulla colossale opera ferroviaria che dovrebbe unire Lisbona e Kiev, oggigiorno, s’ode a destra e a sinistra sempre e solo il medesimo squillo di tromba: non rimaniamo fuori dall’Europa! Poco importa se per farlo libereremo quantità ingenti di uranio e amianto in una regione, la Val Susa, che già ora vanta il primato nazionale dei casi di cancro. Non rimaniano fuori dall’Europa!

Dentro l’Europa però, a quanto pare, non siamo in buona compagnia: infatti, per realizzare l’alta velocità da Lisbona a Lione bisognarerebbe rifare ex-novo tutta l’autarchica ferrovia del generalissimo Franco mentre dall’altra parte, oltre Trieste, hanno altri problemi ben più gravi a cui badare. Soli al comando, dunque. Ma non è questo il primo merito della Tav. Piuttosto, ci sembra, quello di realizzare in un’ epoca di onnipresenza mediatica del Cavaliere (e di concomitante assenza del Mortadella) un simulacro di par condicio. La par condicio del conflitto d’interessi. Con appalti equamente divisi tra l’azienda di famiglia del ministro Lunardi (la Rocksoil) e la cooperativa rossa (?) Cmc, vicina a Ds. Insomma un gigantesco affare bipartisan. E vi sembra giusto che un pugno di valligiani preoccupati possa mandarlo a monte?

mercoledì 30 novembre 2005

LA RICERCA NON E’ UN LUSSO

Lo scorso 26 ottobre la Camera dei deputati ha approvato la controversa Riforma Moratti sulla ricerca universitaria. E non lo ha fatto certo in un clima di serenità. Non solamente perché durante le operazioni di voto, appena fuori dall’aula di Montecitorio, imperversavano gli scontri tra la polizia e gli studenti – complice il dito medio di qualche parlamentare di maggioranza o le paroline non distensive sussurrate da qualcun altro nelle orecchie delle forze dell’ordine…

Ma anche perché sul ddl in questione era stata posta, in maniera un pò autoritaria, la fiducia, onde evitare qualunque forma di dibattito o di defezione dell’ultima ora. Un ddl approvato quindi “a forza” senza quella ricerca di dialogo e confronto che qualunque riforma che tocchi un problema così delicato dovrebbe per forza di cose avere.

Quello della ricerca è da tempo un nodo spinoso in Italia. Il belpaese investe infatti su questo fronte solo 1% del suo Pil contro una media europea del 1,9% e il 2,7% degli Usa. Nè va meglio per quanto riguarda il numero dei ricercatori: 2,8 su 1000 abitanti in Italia, rispetto al 5,4 dell’Unione Europea e l’ 8,1 degli Usa.

La prossima finanziaria non risolleverà certo questo stato di cose, prevedendo una diminuzione del 20% dei fondi alla ricerca (a fronte invece di un aumento del 2% dei fondi alla scuole private).

Una riforma come quella Moratti, che sbandiera orgogliosamente il suo costo zero, pone fin da principio dei seri dubbi sull’effettiva possibilità di invertire questo stato di cose…

Ma se la legge non pone argini al drenaggio di risorse economiche dal mondo della ricerca, sembra al contrario sollecitare anche quello di risorse umane, disincentivando con la sua incontestabile precarizzazione, ogni prospettiva di carriera universitaria.

Eliminando la figura del ricercatore, la legge prevede, infatti, per il giovane desideroso di proseguire gli studi oltre la laurea specialistica un iter così ripartito:

° 3 anni di dottorato

° 5 anni (rinnovabili una sola volta per un totale di 10 anni) di contratto co-co-co, cioè di collaborazione coordinata continuativa (vale a dire il più tipico dei contratti atipici)

° 3 anni (anche qui rinnovabili una sola volta per un totale di 6 anni) come professore ordinario o associato a tempo determinato, previo superamento di un concorso nazionale di idoneità. (N.b. Dato che la legge prevede un “overbooking” del 20% di idonei sul reale fabbisogno degli atenei, il superamento del concorso non implica ipso facto l’assunzione).

Ma il peggio deve ancora arrivare. Terminati questi 19 anni di “gavetta” l’ormai 40enne ex-ricercatore, vedrà la sua assunzione a tempo indeterminato soggetta alle “esigenze di bilancio” dell’ateneo. Come dire: sei arrivato fin qua, ma nessuno ti assicura che proseguirai.

La domanda sorge spontanea: cosa può spingere un giovane (specie se di condizioni economica non agiata) ad imbarcarsi in una simile trafila per approdare oltretutto a un futuro incerto? La risposta è ovvia e sottende una concezione della ricerca, come lusso, surplus, optional – un articolo apposito della legge dichiara non incompatibile l’incarico di ricercatore con altri impieghi professionali, ventilando (sigh) l’idea della ricerca come “secondo lavoro”…

Fortunatamente, come dimostrano le mobilitazioni di questi giorni, non tutti sono d’accordo.

domenica 20 novembre 2005

NON SI COMBATTE IL TERRORISMO CON IL TERRORE

In Italia è spiacevole usanza far approvare le leggi più spinose e controverse d’estate. Quando l’opposizione sonnecchia e la cosiddetta società civile è al mare.
E’ successo così qualche anno fa’ con la legge sulle rogatorie internazionali, e allo stesso modo è capitato lo scorso luglio per il pacchetto anti-terrorismo di Pisanu. Certo il motivo per approvare le leggi in fretta c’era. L’emozione legata ai sanguinosi attentati di Londra era ancora forte. Ma forse prima di legiferare su una materia così delicata com’è la sicurezza, con tutti i suoi annessi e connessi nell’ambito delle libertà individuali e della privacy bisognerebbe pensarci un po’più a lungo. Perché se il pacchetto Pisanu non è il patriot act italiano, tuttavia i suoi elementi di pericolosità li contiene tutti.

Non potendo in questa sede dare un quadro complessivo di un insieme di leggi così corposo, ci limiteremo solo a ricordare i suoi aspetti più preoccupanti. A cominciare dalla dibattuta norma di “espulsione con provvedimento amministrativo” per i sospettati di terrorismo. Una norma che sembra cancellare con un colpo di spugna ciò che in uno stato di diritto si chiama presunzione d’innocenza. D’ora in avanti, infatti, basterà la sola firma d’un solerte prefetto per rispedire al proprio paese, senza lo straccio d’una prova, un qualsiasi cittadino straniero anche solo vagamente sospettato di simpatie fondamentaliste.
L’autorizzazione a colloqui investigativi senza avvocato e alla perquisizione senza mandato concorrono poi ad imbarbarire ulteriormente lo stato di diritto, eliminando altre delle principali garanzie di cui godono i cittadini di tutti i paesi civili del mondo.
Ma non basta. Ad aggravare la situazione ci pensano la liberalizzazione dell’arresto fuori flagranza, la facilitazioni delle intercettazioni telefoniche e soprattutto il prolungamento del fermo di polizia da 12 a 24 ore. 24 ore in cui il fermato non può comunicare con nessuno nè usufruire di alcuna assistenza legale. E poi l'aggravamento delle pene per la falsificazione dei documenti e per le «false dichiarazioni fatte davanti alla polizia giudiziaria», d’ora in avanti equiparate al falso davanti al giudice, malgrado queste avvengano, come noto, senza testimoni e contraddittorio.
Sul fronte delle violazioni alla privacy si registra invece l’inasprimento delle misure di controllo di telefonate e e-mail.
Per finire, a mo’ di “contentino” alla Lega, ecco anche l’introduzione di ammende fino a 2000 euro e arresto fino a 2 anni per le donne sorprese a indossare burqa o chador nei luoghi pubblici – sfugge il nesso di questa norma con l’allarme terrorismo… E sfugge anche il suo scopo, se non quello di infliggere, a donne spesso umiliate dai loro mariti e costrette controvoglia a velarsi il volto, una seconda, infame, umiliazione pecuniaria e/o carceraria.

Ma forse quello che più indigna, relativamente a questo corpus di provvedimenti iniqui, liberticidi e pericolosi è l’“unanimità” con cui sono stati approvati. Un’unanimità che ha visto votare a loro favore (con la sola eccezione di Verdi, Prc e Comunisti italiani) tutto il centrosinistra. E per comprendere l’irresponsabilità anche di gran parte di quest’ultimo, nei confronti di argomenti così delicati, basti citare le dichiarazioni dell’esponente Ds Gavino Angius il quale si è permesso tranquillamente di chiosare: «Forse qualcuno dimentica che la libertà non è attaccata da questo decreto, ma è minacciata oggi dal terrorismo». Crediamo di aver dimostrato a sufficienza quanto questo punto di vista non sia condivisibile.


(Articolo pubblicato su Work-out European students’ review, n.29 ottobre-novembre 2005)

giovedì 10 novembre 2005

LA TIGRE E LA NEVE

Meriti e limiti del nuovo film di Roberto Benigni

Roberto Benigni è un artista coraggioso. Un artista che non esita spesso a lanciarsi in sfide rischiose e delicate quando ne senta l’esigenza. Anni fa’ riuscì con La vita è bella nell’intento, apparentemente impossibile, di far sorridere e commuovere allo stesso tempo sulla tragedia dell’ Olocausto.

Ne La Tigre e la Neve ha scelto invece di intraprendere la rischiosissima strada di un istant-movie sull’ Iraq. Un istant-movie sui generis, in cui la tragedia irachena è rivissuta all’interno dell’universo poetico dell’autore toscano.

La vicenda è semplice. Attilio (Roberto Benigni) è un poeta che ogni notte sogna Vittoria (Nicoletta Braschi), la donna dei suoi desideri. Quando quest’ultima, recatasi in Iraq insieme al poeta e amico comune Fuad (Jean Reno) per scriverne la biografia, rimarrà ferita ed entrerà in coma, Attilio non esiterà a raggiungerla e a fare di tutto per guarirla.

Di La Tigre e la Neve bisogna innanzitutto lodare la coerenza con la poetica del suo autore. Film dopo film (indipendentemente dalla loro riuscita o meno) Benigni si è creato un universo poetico proprio, preciso e coerente.

Ritornano anche in quest’ultima fatica quindi i suoi grandi temi: la gratuità del gesto (sacrificio) d’amore, l’innocenza e/o ingenuità contrapposta all’orrore, la fantasia come via di fuga dalla crudeltà del mondo.

Però non tutto funziona come voluto. La tragedia irachena rimane troppo sullo sfondo, quasi solo pretesto per il nucleo drammatico della vicenda.

Se nella Vita è bella l’innesto tra il nucleo favolistico della trama e l’orrore della Shoah avveniva senza strappi, a causa delle dimensione mitica che la tragedia ebraica ha assunto ormai nell’inconscio collettivo occidentale –una sorta d’archetipo di ogni tragedia della Storia- qui invece il riferimento ad una realtà di scottante attualità come la vicenda irachena rende tutto più problematico. Il rischio di una trattazione superficiale, o addirittura “indistinta” dell’Iraq (in cui appunto lo sfondo può tranquillamente essere cambiato senza intaccare il meccanismo drammatico del film) non è stato evitato e la scelta dell’Iraq lascia spazio a riserve o dubbi. Era necessario ambientare la vicenda nel paese arabo e darne quest’immagine in parte mistificata?

Perché di perplessità sull’immagine dell’Iraq che il film offre, nello spettatore ne rimangono molte. L’orrore dello bombe è quasi inesistente, il protagonista può attraversare 100 km di deserto con un pullman senza essere fermato da nessuno, Fuad vive in una casa che sembra un patio dell’Alahmbra…Tutte stonature in un film che voglia parlare di argomenti d’attualità, ma scelte ammissibilissime in una favola a-stratta sull’orrore della guerra e sul valore della poesia e dell’amore come antidoto a violenza e brutalità.

E’ in questo contrasto, in questa natura ibrida che risiede a nostro parere la debolezza principale del film. A ciò si aggiunge anche una minore - rispetto al passato- felicità di invenzione a livello drammaturgico in diversi momenti della vicenda. Ad esempio nella prima parte dove i tentativi di conquista di Vittoria da parte di Attilio (e l’annesso gioco di equivoci), sembrano la brutta copia della lunga parte iniziale de La Vita è bella. Della scarsa consistenza di tutta questa prima parte ne deve essere stato conscio peraltro anche lo stesso Benigni, dal momento che nell’intera prima mezz’ora lo vediamo saltare, agitarsi, pronunciare discorsi alambiccati, quasi dovesse riempire con una sua presenza perennemente sopra le righe (a tratti ai limiti dell’autoparodia) un vuoto difficilmente eludibile.

Ed eccessiva ci pare anche l’insistita naivetè del personaggio, sempre fuori dal mondo e preso soltanto dalla sue fantasticherie poetiche. Detto questo, il film ha comunque qua è là delle buone intuizioni e degli sprazzi di autentica poesia (ne è un esempio la bellissima sequenza riguardante il destino di Fuad). Ma rimane comunque non risolto. Rimane un film estremamente sincero e sentito che lascia tuttavia un senso di non compiutezza e disorientamento.

mercoledì 12 ottobre 2005

MARCHETTE MILIARDARIE

Il fatto è tristamente noto a tutti. Con la finanziaria attualmente in via di approvazione in Parlamento, lo stato eliminerà l’Ici da tutte le proprietà della Chiesa.

Un regalo alla Santa Sede quantificato sui 300 miloni di euro all’anno. E non è tutto. Con un aberrazione legislativa (purtroppo non rara di questi tempi, caratterizzati non solo dalla contabilità creativa ma anche dalla “legiferazione creativa”), la norma sarà retroattiva, con tanto di simpatico rimborso miliardario per il Vaticano.

Il tutto contestualmente ai tagli agli enti locali, ai servizi pubblici, e a cultura e spettacolo.

(Secondo calcoli precisi, l’ammontare intero delle regalie alla Chiesa sarebbe il corrispettivo dei tagli previsti per Agis, enti lirici, e mondo dello spettacolo in generale. Tagli che, ricordiamo, mettono in forse la presenza nei prossimi anni del Festival di Venezia o della stagione lirica della Scala…)

Ma fin qui sembra quasi superfluo indignarsi. Siamo in campagna elettorale e il Polo deve sfondare al centro. Per andare sul sicuro, perché non “comprare” direttamente - senza tergiversare - il voto dell’elettorato cattolico ?

Ciò che scandalizza di più, in questa vicenda, è il silenzio della Chiesa nei confronti di questa gigantesca e infame marchettona. Una chiesa che mai come in questi tempi è sembrata “volare alto” dibattendo dei massimi sistemi e dissertando di bioetica e diritto alla vita, di valori e di lotta al relativismo, ma che in questa occasione invece incassa zitta zitta il “mazzettone statale”, dimenticandosi completamente della sua sbandierata alta missione spirituale.

Non una voce - di quelle autorevoli perlomeno - si è per ora levata per difendere la dignità dell’istituzione cattolica di fronte a questo plateale tentativo di corruzione, di fronte a questi “trenta denari” dello stato. Non una voce per ora ha ricordato che Gesù i mercanti gli ha cacciati dal tempio, invece di fare affari con loro!

Più di 700 anni fa Dante nel XXXI canto del Purgatorio definiva la Chiesa “puttana sciolta” e auspicava una sua spiritualizzazione e un suo ritorno alla povertà e alla serietà delle origini. Che qui, come in mille altri campi, la lezione del Padre della lingua italiana, sia ancora valida?

P.S. Con tutto il rispetto per i missionari, i preti-operai e “di strada” che – in barba al Vaticano, a Ratzinger e a Ruini - testimoniano ogni giorno, attraverso il loro operare, una fede che non è mai rassegnazione e accondiscendenza verso i potenti, ma impegno, solidarietà e spirito di giustizia.

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