venerdì 7 dicembre 2007

BOLIVIA, SULLA VIA DEL REFERENDUM

Alla fine è praticamente ufficiale: Evo Morales si sottoporrà, insieme ai prefetti dei sei dipartimenti in lotta contro il suo governo, a un referendum revocatorio simile a quello venezuelano del 2004. Con una fondamentale differenza: se nel 2004 fu infatti l’opposizione a chiedere in Venezuela, secondo il dettato costituzionale, il referendum contro Chàvez, in questo caso è il governo boliviano a premere per la consultazione. Una manovra che qualcuno definisce disperata, nel tentativo di uscire da quella situazione di stallo in cui la Bolivia sembra precipitata da ormai troppo tempo.
I prefetti della media luna, in tournee trionfale negli Stati Uniti con la scusa di lagnarsi un po’ con l’Oea (gli Usa sono luogo deputato per tutti i personaggi sinistri del paese andino, a cominciare dal latitante “genocida” Sanchez de Losada) hanno accolto la notizia con soddisfazione, probabilmente convinti di poter dare la spallata definitiva al presidente indio, dopo il fallimento dei vari progetti secessionisti, del plan para tumbar el indio dei mierda e forse anche di qualche oscuro piano golpista.
Qual che possa essere l’esito della sfida, fortunamente ora aperta, democratica ed elettorale, è utile ripercorrere le fasi con cui si è arrivati a questo aut aut, ultima ratio, a quanto pare, contro la minaccia di una guerra civile strisciante.
In principio era la costituente e la costituente avrebbe dovuto essere l’occasione per una rifondazione completa del paese andino e per una tardiva ma finalmente piena uscita dallo stato neocoloniale.
Le oligarchie cruceñe (ma non solo) non hanno mai accettato la prospettiva della stesura di un nuovo testo costituzionale e hanno ritardato, grazie alle loro rappresentanze politiche in seno alla costituente, i lavori della stessa con una lunga controversia a proposito delle modalità di votazione (due terzi o maggioranza assoluta). Superato questo lungo contenzioso hanno deciso di passare a una strategia che si potrebbe definire “sabotativo-aventiniana”: da una parte hanno volontariamente abbandonato i lavori dell’assemblea in segno di protesta, dall’altra hanno deciso comunque a priori che non avrebbero riconosciuto il testo finale proprio a causa della loro assenza.
Nel mentre hanno assecondato, aiutato e favorito il movimento “campanilista” sureño per la capitalia plena (cioè per riportare la capitale a Sucre) nel tentativo di destabilizzare o bloccare completamente i lavori della costituente. Hanno quindi permesso e agevolato lo svilupparsi di quell’inferno che è stata la città di Sucre negli ultimi mesi, messa a ferro e fuoco da studenti e manifestanti vari (tra cui con buona probabilità anche frange neofasciste cruceñe dell’UJC).
Chi scrive si trovava a Santa Cruz proprio nei giorni in cui a Sucre nasceva e prendeva slancio il movimento per la capitalia plena – che avrebbe portato poi per riflesso all’immensa manifestazione pro – La Paz del 20 luglio, con due milioni di persone in piazza – un quinto del popolo boliviano). Sulla centralissima Piazza 24 Septiembre (a Santa Cruz, non a Sucre!) comparve l’immensa bandiera riportata nella foto qui sotto. Basterebbe questo particolare per far capire quanto il movimento sureño sia stato manipolato e veicolato in una funzione anti-governativa, nel tentativo di far saltare il tavolo e bloccare sine die la costituente.
Dapprima i lavori dell’assemblea sono stati bloccati dalla presidentessa Silvia Lazarte per un mese per l’evidente clima ostile, quindi a fronte di proteste sempre più violente e cruente spostati in una caserma di Sucre – altro pretesto per l’opposizione per gridare vanamente all’illegittimità. Infine, mentre il testo veniva firmato, le vie della ciudad blanca si coloravano di rosso per gli scontri tra polizia e manifestanti lasciando sul terreno diverse vittime e tanti dubbi sulla paternità degli omicidi– a quanto pare perlomeno in un caso le pallottole con cui è stato ucciso un manifestante non sarebbero del calibro in dotazione alle forze dell’ordine.
Malgrado una città sotto assedio, i costituenti costretti a fuggire nella notte scortati all’aeroporto dall’esercito, un membro di Podemos fermato con una mitragliatrice in macchina, un carcere assaltato, e una situazione ingovernabile, Evo ha deciso di andare avanti per giungere ad una approvazione del testo costituzionale entro i tempi stabiliti.
I prefetti di sei stati hanno indetto uno sciopero generale – with a little help dei bastonatori dell’UJC che hanno costretto con la violenza in molti casi i cittadini ad aderire – per sabotare l’approvazione della costituzione, adducendo come al solito la questione dell’illegittimità della “costituzione macchiata di sangue” e le rivendicazioni autonomistiche che – oramai lo capiscono anche i bambini – nascondono interessi e latifondi immensi cumulati in decenni di parassitismo all’ombra dei governi Washington consensus. Uno sciopero che ricorda quindi molto quello venezuelano della primavera 2003 e che più “bianco” non si può. In ogni caso attorno ad esso sono riusciti a convogliare un certo consenso risvegliando anche le rivalità etniche e campanilistiche che, purtroppo, ancora dividono lo stato andino.
Di qui la fuga in avanti, pienamente democratica però, di Evo Morales di sottoporre il proprio e i mandati dei prefetti allo strumento elettorale. La battaglia ora è tutta aperta – e, pensando retrospettivamente viene da chiedersi per esempio perché un simile strumento non sia stato adottato anche per risolvere la questione di Cochabamba dello scorso gennaio, culminata in scontri in cui hanno perso la vita ben tre persone.
Quello che tuttavia non può che risultare ridicolo è vedere un’opposizione vassalla del grande fratello a stelle e strisce, stringersi alla corte del monarca in disarmo, a lamentare, a fronte del proprio costante e spesso violento tentativo di destabilizzazione filo-separatista, il carattere dittatoriale (!) di un presidente che decide addirittura di sottomettere il proprio mandato a consultazione elettorale.
Sin vergüenza, como siempre
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