DEATH OF A PRESIDENT
Lungo il tragitto che lo porta all’Hotel Sheraton, il convoglio del presidente è addirittura bloccato dai manifestanti. La tensione è palpabile. Giunto allo Sheraton, Bush pronuncia un bel discorso retorico e patriottico infarcito di spiritosaggini e battute (com’è nel suo stile) e si avvia poi subito all’uscita, malgrado il parere contrario della security. Alcuni colpi partono da un palazzo prospiciente. Il presidente è immediatamente portato all’ospedale, ma – come suggerisce il titolo - non ce la farà.
Le indagini, nel clamore mediatico e nel solito clima di caccia alle streghe, si dirigeranno quasi subito verso un cittadino siriano, apparentemente incolpevole.
E qui ci fermiamo per non togliere allo spettatore l’interesse per la sottotrama thrilling che si sviluppa nella seconda metà della pellicola.
Il lavoro che Range ha svolto nell’assemblaggio del suo finto documentario è di una precisione e di un’inventiva incredibili. Nella complessa ma estremamente fluida tessitura del film, confluiscono infatti immagini di repertorio, immagini girate ad hoc e immagini vere ma rielaborate digitalmente. Anche i formati sono variabili: riprese in DV, riprese ad Alta Definizione, riprese da telefonino, immagini volutamente sporcate per sembrare registrazioni di telecamere di sorveglianza. E poi autentici tocchi di genio come utilizzare il (vero) encomio funebre a Reagan di Dick Cheney, come ipotetico encomio funebre di Bush.
Insomma la massima cura e la massima precisione per una ricostruzione che, peraltro, non ha richiesto grandi effetti speciali (nella pellicola se ne vedono pochi e molto ben nascosti - e questo è un merito non piccolo) ed è costata relativamente poco: solo 3 milioni di euro, gran parte dei quali per l’acquisizione delle immagini di repertorio.
Un po’ diverso il discorso sul versante del contenuto. Se la polemica nei confronti del potere distorsivo dei media appare decisamente efficace – in conferenza stampa il regista ha raccontato un gustoso aneddoto a proposito: alla domanda polemica di un giornalista di Fox Tv che gli chiedeva se non credesse «di aver distorto la realtà», si è limitato a rispondere: «beh…è quello che fate voi ogni giorno.» - meno convincente è l’analisi globale dell’America del dopo 11 settembre.
Il film sembra infatti ignorare (o voler ignorare) le complesse implicazioni socio-economiche legate alla politica estera dell’amministrazione Bush, irriducibile unicamente a una dinamica di causa-effetto tra attentati terroristici e attacchi militari. Anche i personaggi di fantasia del film, interpretati da attori e fatti parlare al pubblico in lunghe interviste in stile documentario, appaiono schematici, appena sbozzati, poco approfonditi soprattutto nei loro risvolti sociali.
Insomma la pellicola rimane ad un livello superficiale, senza riuscire a mettere in luce le cause profonde della crisi che sta attraversando l’America attuale – come invece avviene, seppur indirettamente, nelle pellicole di Michel Moore o in quel bell’affresco corale, solo apparentemente ambientato negli anni ’60, che è Bobby di Emilio Estevez.
Si ha l’idea di essere di fronte a cose risapute seppur presentate in maniera decisamente originale – anche se, certo, si tratta di un’impressione tutt’europea dal momento che nel clima conformistico e di unità nazionale che si respira negli Stati Uniti dal 2001 (e che solo adesso si sta allentando) non si tratta di idee all’ordine del giorno (e lo dimostra infatti la fredda accoglienza negli States della pellicola, praticamente distribuita solo a New York e sulla West Coast).
La perfezione tecnica del film finisce quindi quasi per diventare freddezza, distanza dalla materia trattata, incapacità di andare a fondo, come sembrano quasi suggerire le continue e scenografiche riprese dall’alto della capitale dell’Illinois, che mostrano una sguardo discosto, da lontano, che non scende mai in profondità.
Pur con questi limiti rimane comunque lodevole l’impegno e la grande audacia nel tentare strade diverse per parlare dell’attualità anche più scottante. E rimane la vergogna di un fuoco di fila di giudizi perentori spesso pronunciati da persone che (come è il caso di Hillary Clinton che, prima ancora che la pellicola uscisse, l’ha definita «Spregevole, immorale, nauseante») non hanno mai visto il film.
Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari
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