UNO SU DUE
Lorenzo Maggi (Fabio Volo) è un avvocato rampante, apparentemente sicuro di sé e ad un passo da quello che crede l’affare della propria vita. Ha una fidanzata, Silvia (Anita Caprioli), a cui non tiene molto e un socio, Paolo (Giuseppe Battiston), molto meno spavaldo e sicuro di lui. Un giorno, dopo una causa vinta in tribunale, uno svenimento improvviso. In ospedale i medici portano Lorenzo in oncologia: una biopsia svelerà se si tratta di cancro al cervello.
Tutto il film è imperniato sull’angosciosa attesa da parte del protagonista del responso finale, il cui esito ovviamente non sveliamo. Uno su due è infatti la percentuale di persone che guariscono da malattie neoplastiche, così come la quantità media di casi benigni.
Ma uno su due sta anche a indicare la scoperta - nel riesame complessivo della propria vita innescato dal confronto angoscioso con la morte - dell’altro sé, il sé rimosso da superficiali ambizioni di carriera e successo. Di fronte a questo sé sopito Lorenzo dovrà decidere quale dei due sé scegliere. Perché solo uno dei due può farcela. Vincerà quello autentico sotto la patina di superficialità ed arrivismo, o quello brillante e di successo, ma vuoto e insipido?
Cosi come in Volevo solo dormirle addosso Cappuccio ci presenta un personaggio nel momento fatidico della crisi, nel momento della catastrofe in cui convinzioni e valori precipitano e lasciano l’uomo nudo di fronte a sé stesso. Ma se nel film precedente la crisi era confinata su un piano etico-professionale qui è globale, a 360 gradi. E si dipana in un progressivo itinerario di consapevolezza, non solo interiore ma anche “geografico” – come lo spettatore scoprirà vedendo il film –, grazie all’incontro tra il protagonista e Giovanni (Ninetto Davoli), un ex-camionista malato di cancro, per il quale Lorenzo avrà l’opportunità di far qualcosa di molto importante. Qualcosa che gli permetterà davvero di spiccare il volo, in un senso a un tempo metaforico e reale.
Insomma, dopo i toni di commedia brillante di Volevo Solo dormirle addosso Cappuccio punta alto, scegli temi quasi tolstojani e un registro che vira dall’iniziale satira di costume al dramma e al road-movie. Non tutto è risolto ovviamente. Anche se assistito da un Fabio Volo in stato di (imperfetta) grazia, da una buona prova di Anita Caprioli e da uno straordinario Ninetto Davoli qui protagonista di una metamorfosi prodigiosa rispetto ai consueti ruoli urlati di borgotaro o pasoliniano ragazzo di vita, l’intento del regista si realizza solo in parte. I limiti di un linguaggio troppo spesso virtuosistico che non lesina tutti i vezzi possibili - dalle inquadrature deformate, ai ralenti all’uso di musiche inquietanti - sono sotto gli occhi di tutti. Ma nondimeno il film riesce a raggiungere spesso un effetto di sobria intensità.
Pur con tutti i suoi difetti allora (primo fra tutti un finale pomposo e retorico) il film di Cappuccio è da promuovere senza esitazioni. Principalmente per il coraggio nella scelta di un argomento che non ha alcun appeal e che difficilmente viene affrontato dal cinema italiano: il tema della malattia o ancora meglio in questo caso, della percezione della malattia, del vissuto angoscioso di chi è atteso da un destino di sofferenza. E poi, per l’esibita volontà di fare un cinema che, pur con interpreti di richiamo, non senta il bisogno di rassicurare o risultare gradevole al pubblico. Se questo è il prodotto medio che il cinema italiano può produrre in questo periodo, viva il cinema italiano.
(Articolo scritto per la rivista Fusi Orari, www.fusiorari.org).
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