lunedì 5 marzo 2007

UNO SU DUE

Prima di morire Tiziano Terzani scrisse che la brutta malattia che aveva contratto era un baluardo contro la banalità del quotidiano, un’occasione per ripensare la propria vita sotto un’ottica diversa, alla luce di una nuova consapevolezza. Forse è da qui che prende le mosse Uno su Due il nuovo film di Eugenio Cappuccio, quarantaseienne regista romano, già assistente di Fellini sul set di pellicole come Ginger e Fred e La Voce della Luna.
Lorenzo Maggi (Fabio Volo) è un avvocato rampante, apparentemente sicuro di sé e ad un passo da quello che crede l’affare della propria vita. Ha una fidanzata, Silvia (Anita Caprioli), a cui non tiene molto e un socio, Paolo (Giuseppe Battiston), molto meno spavaldo e sicuro di lui. Un giorno, dopo una causa vinta in tribunale, uno svenimento improvviso. In ospedale i medici portano Lorenzo in oncologia: una biopsia svelerà se si tratta di cancro al cervello.
Tutto il film è imperniato sull’angosciosa attesa da parte del protagonista del responso finale, il cui esito ovviamente non sveliamo. Uno su due è infatti la percentuale di persone che guariscono da malattie neoplastiche, così come la quantità media di casi benigni.
Ma uno su due sta anche a indicare la scoperta - nel riesame complessivo della propria vita innescato dal confronto angoscioso con la morte - dell’altro sé, il sé rimosso da superficiali ambizioni di carriera e successo. Di fronte a questo sé sopito Lorenzo dovrà decidere quale dei due sé scegliere. Perché solo uno dei due può farcela. Vincerà quello autentico sotto la patina di superficialità ed arrivismo, o quello brillante e di successo, ma vuoto e insipido?
Cosi come in Volevo solo dormirle addosso Cappuccio ci presenta un personaggio nel momento fatidico della crisi, nel momento della catastrofe in cui convinzioni e valori precipitano e lasciano l’uomo nudo di fronte a sé stesso. Ma se nel film precedente la crisi era confinata su un piano etico-professionale qui è globale, a 360 gradi. E si dipana in un progressivo itinerario di consapevolezza, non solo interiore ma anche “geografico” – come lo spettatore scoprirà vedendo il film –, grazie all’incontro tra il protagonista e Giovanni (Ninetto Davoli), un ex-camionista malato di cancro, per il quale Lorenzo avrà l’opportunità di far qualcosa di molto importante. Qualcosa che gli permetterà davvero di spiccare il volo, in un senso a un tempo metaforico e reale.
Insomma, dopo i toni di commedia brillante di Volevo Solo dormirle addosso Cappuccio punta alto, scegli temi quasi tolstojani e un registro che vira dall’iniziale satira di costume al dramma e al road-movie. Non tutto è risolto ovviamente. Anche se assistito da un Fabio Volo in stato di (imperfetta) grazia, da una buona prova di Anita Caprioli e da uno straordinario Ninetto Davoli qui protagonista di una metamorfosi prodigiosa rispetto ai consueti ruoli urlati di borgotaro o pasoliniano ragazzo di vita, l’intento del regista si realizza solo in parte. I limiti di un linguaggio troppo spesso virtuosistico che non lesina tutti i vezzi possibili - dalle inquadrature deformate, ai ralenti all’uso di musiche inquietanti - sono sotto gli occhi di tutti. Ma nondimeno il film riesce a raggiungere spesso un effetto di sobria intensità.
Pur con tutti i suoi difetti allora (primo fra tutti un finale pomposo e retorico) il film di Cappuccio è da promuovere senza esitazioni. Principalmente per il coraggio nella scelta di un argomento che non ha alcun appeal e che difficilmente viene affrontato dal cinema italiano: il tema della malattia o ancora meglio in questo caso, della percezione della malattia, del vissuto angoscioso di chi è atteso da un destino di sofferenza. E poi, per l’esibita volontà di fare un cinema che, pur con interpreti di richiamo, non senta il bisogno di rassicurare o risultare gradevole al pubblico. Se questo è il prodotto medio che il cinema italiano può produrre in questo periodo, viva il cinema italiano.

(Articolo scritto per la rivista Fusi Orari, www.fusiorari.org).

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