sabato 31 marzo 2007

LA MASSERIA DELLE ALLODOLE

Turchia 1915. In una cittadina di provincia la famiglia armena degli Aviakan ha buoni rapporti con tutti, dalla sua casa entrano ed escono le autorità della città. Ma la morte del nonno, importante patriarca sembra essere una premonizione del rapido cambiamento in atto, così come il getto di sangue che questi vede nel delirio dell’agonia, un attimo prima di spirare. I giovani turchi infatti sono in ascesa, e la “soluzione finale” verso la minoranza armena è già cominciata.
I membri della famiglia e la comunità armena della piccola città si rifugiano nella masseria delle allodole, vecchia costruzione di proprietà della famiglia. Ma questo non potrà evitarne la deportazione, né le saranno d’aiuto i molti amici turchi.
Anche se i fratelli Taviani hanno dichiarato di non aver voluto «Disegnare un quadro storico» affermando altresì di essersi limitati a «seguire alcune creature, i loro destini particolari, e proiettarli poi in un grande evento collettivo», è innegabile che il loro cinema sia dai tempi di Allosanfan, fino a quest’ultima opera, uno dei pochi che cerchi di infondere nel proprie immagini il respiro epico della storia, nella sua concretezza palpabile, nelle sue manifestazioni tanto ideali che materiali. E’ questo un merito innegabile anche in un opera come La masseria delle Allodole dove pure a volte (soprattutto nella prima parte) si avverte qualche cedimento verso un linguaggio televisivo, privo di quegli sprazzi di lirismo che caratterizzavano le loro opere maggiori, come La notte di San Lorenzo. Ne importa molto se i personaggi appaiono a volte tipizzati, schiacciati sugli “affetti” di ottocentesca e melodrammatica memoria che li spingono (l’ottimismo della ragione del capofamiglia Aram, l’impeto della passione di Nunik, la volontà di riscatto del mendicante Nizim, il donchisciottesco idealismo di Assadour ecc.), perché ognuno trova posto nella funzionale struttura romanzesca scelta dai Taviani – forse suggerita dall’origine romanzesca della fonte utilizzata, il libro semi-autobiografico della scrittrice sopravvissuta al genocidio Antonia Asrlan.
E neppure i due registi toscani si ritraggono di fronte all’orrore delle vicenda, quasi mai risparmiato agli spettatori, seppur mai mostrato con compiacenza.
Quel che ne esce è un film importante, il più duro e sanguigno dei due cineasti, ancorché meno provocatorio e polemico di molti altri. Ma tuttavia destinato a scatenare comunque grandi polemiche in tempi in cui si parla sovente di entrata della Turchia in Europa e perfino il pontefice Benedetto XVI si è recato in una trionfale visita ad Ankara, in un clima di omertà diffusa sul fatto che quel paese seguita, almeno ufficialmente, a non riconoscere la paternità di un genocidio che ha significato la morte di quasi 2000000 di persone.

Articolo scritto per la rivista on-line Fusi Orari

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